Saturday 20 July 2019

LA PRATICA DELLO DZOGCHEN







La pratica dello Dzogchen 1°

Lama Gedun Tharchin
Geshe Lharampa

30 – 31 Marzo e 1 Aprile
2019 - Sassari










DZOG CHEN
Consapevolezza e Motivazione

Iniziamo oggi un incontro di due giorni per lavorare tutti insieme, ognuno con il proprio impegno, per approfondire la pratica del Dharma, rendendo significativo il tempo senza perdere nemmeno un istante. Questo lavoro congiunto ci permetterà di continuare anche quando saremo soli nella nostra quotidianità mettendoci nella condizione ottimale per poter offrire i frutti a tutti coloro che ci sono intorno, famigliari, amici, colleghi.
Non siamo qui per ricevere iniziazioni, benedizioni, illuminazione già pronta in un bel pacchetto regalo e nemmeno per l’ascolto passivo di un insegnamento in cui non siamo coinvolti personalmente, ma è invece importante comprendere il significato del nostro compito che ci vede impegnati attivamente come membri di un laboratorio in cui agire nella ricerca interiore, nella terapia, nell’intervento, siamo noi stessi il paziente su cui agire. Non è un’azione rivolta all’esterno, non possiamo affannarci in una faticosa arrampicata su una bella montagna sperando di trovare sulla cima miracolose manifestazioni e realizzazioni, al contrario, dobbiamo scendere sempre più nella profondità di noi stessi.
Ciò che faremo oggi è dunque introdurci nell’esame di un tema vastissimo, gigantesco, lo Dzogchen e anche se è impossibile esaurirne la comprensione in soli due giorni di approfondimento, impegnando ogni istante di questo tempo potremo procedere al di là di ogni aspettativa poiché l’umanità con il proprio lavoro spesso, come la storia dimostra, ha reso possibile ciò che fino al giorno prima non lo era affatto. Il potere della natura e il potere del Buddha hanno la stessa straordinaria potenzialità trascendente di trasformazione dell’intero universo.
Lo Dzogchen è incommensurabile non in virtù di trasmissioni di un guru o pratiche, ma sboccia direttamente dalla natura, è come limpida acqua che scaturisce semplicemente dalla sorgente di roccia e ghiaccio e scorrere naturalmente dagli alti monti himalayani alle pianure per poi sfociare nell’oceano, sviluppando in questo percorso la vita, nutre infiniti esseri vegetali e animali, forgia le pietre, scolpisce un meraviglioso paesaggio. Tutto questo è natura di amore, compassione, dono, non costruito da volontà, da dovere, da pianificazione, nemmeno da meditazione o altro, è spontanea, luminosa manifestazione di armonia naturale, l’amore è semplicemente naturalezza.
Le azioni umane, frutto del cosiddetto raziocinio, pianificano il mercato, sfruttano popoli interi, programmano guerre, distruggono l’ambiente, avvelenano terra, acqua e aria, stabiliscono come e quali violenze attivare, sono tutte contro natura e creano soltanto infelicità inimmaginabile, annientamento degli esseri viventi e dell’ambiente, e tutto questo dolore a che scopo?
Solo l’amore è naturale, sorge spontaneo senza alcun intervento esterno, non occorre altro, invece noi vogliamo forzare questa condizione così semplice e diretta, ci perdiamo in un’infinità di elucubrazioni mentali che più sono complesse più ci gratificano e spendiamo un’infinità di tempo in inutili parole nel tentativo di codificare tutto ciò di cui parliamo incessantemente, spiritualità, religione, pratica, meditazione, senza però interiorizzare nel profondo, sperimentare nulla.
L’amore è lo stato naturale della grande perfezione, Dzogchen, è ciò che ci rende illuminati, il che non implica affatto avere una particolare istruzione, ma semplicemente essere autenticamente e completamente liberi nella naturalezza e spontaneità che esprime l’amore. Questo è il senso della vita, non la lotta, la competizione per il potere, nemmeno la conquista del mondo intero, tutto ciò è soltanto estrema povertà, spreco dell’esistenza con conseguente frustrazione, depressione, sofferenza e complicazioni di ogni tipo.
Per essere gioiosamente nella naturalezza bisogna imparare ad applicare un motto che nel buddhismo è ripetuto continuamente: “Lascia andare”, questo è alla base del nostro incontro di oggi in cui ci dedichiamo alla pratica dello Dzogchen, cioè ad imparare dalla natura a essere natura.
L’amore, la compassione non richiedono studi complicati, rituali magici, pratiche pesanti di cui tenere rigorosa contabilità, tutto questo è falso, inutile, perché l’unico elemento necessario è ritrovare nella profondità del proprio cuore, semplice e pulito, la sua natura amorevole e compassionevole, questo è il fondamento della filosofia Dzogchen, sviluppare la consapevolezza della propria esistenza nella natura di amore e compassione.
Su questi temi è sempre utile il confronto con il pensiero altrui perché nello scambio di opinioni diverse sono più chiare le tante domande che ci poniamo e che ci aiutano a comprendere il valore fondamentale della natura non solo intesa come bellezza indicibile, ma nella consapevole conoscenza della sua essenza profonda di materia e antimateria che si manifestano in contemporaneità.
La conoscenza del valore sia spirituale che materiale non è mai dualistica, esprime la potenzialità, di qualsiasi fenomeno nella sua natura, è il vero miracolo dell’esistenza che costruisce in noi pace, felicità, gioia, beatitudine, qui e ora, non in un ipotetico futuro, questo è lo Dzogchen, la grande perfezione, personale e non egoistica, che vede chiaramente con consapevolezza tutti gli inganni dell’ego onnipresente che vorrebbe riportarci continuamente alle lamentazioni, alla sofferenza, alla chiusura del cuore, ma non ne è intaccata, li osserva e lascia andare, con naturalezza.
Oltre alla indispensabile consapevolezza vediamo ora quale altro elemento essenziale deve essere alla base di ogni spiritualità e pratica del Dharma in ogni nostra azione e relazione, la motivazione. Se la motivazione è buona tutto ciò che ne deriverà sarà buono, al contrario se non lo è i suoi frutti saranno altrettanto non buoni.
Nello Dzogchen vi è un testo molto bello: “La Pratica dei Preliminari” in cui tratta di due livelli di motivazione, la prima è analizzata secondo la prospettiva del Sūtrayana, il veicolo del sūtra, mentre la seconda riguarda il veicolo del tantra o Mantrayāna.
La motivazione, comune a entrambi i veicoli, è la Bodhicitta, la generazione della mente di illuminazione, non per se stessa, ma a beneficio di tutti gli esseri senzienti. L’obiettivo della Bodhicitta è reso possibile prima di tutto dal riconoscimento delle nostre potenzialità, valore e dal coraggio nell’affrontare il nostro compito nella vita di ogni giorno.
Dobbiamo scoprire in noi stessi lo Dzogchen, la mente di grande perfezione già presente anche se non ancora realizzata e verso cui dobbiamo andare con la motivazione di Bodhicitta perché senza di essa il nostro cammino sarebbe impossibile.
Così come non è possibile portare una tonnellata di peso su una bicicletta, ma è necessario avere il mezzo idoneo, per la realizzazione, l’illuminazione a beneficio di tutti gli esseri è fondamentale la motivazione, base comune sia nel Sūtrayana che nel Mantrayāna.
La Bodhicitta non è affatto un obiettivo irraggiungibile e nemmeno richiede pratiche complicatissime e lunghe, poiché tutto ha già insito in sé la natura di compassione, è in noi, dobbiamo semplicemente lasciar emergere questa spontaneità e dare senza calcolo, senza barriere, lasciar andare tutte le costruzioni fantastiche e illusorie a cui ci afferriamo con insensata bramosia e che non hanno nessuna reale consistenza, ma ci impoveriscono e rinchiudono nel nostro onnipresente e ingannevole ego.
L’ego si afferma nella volontà costante di voler fare le cose per me, per un presunto egoistico inesistente vantaggio, mentre il vero modo di essere con la motivazione della Bodhicitta naturale è solo nella relazione, nell’offerta, nell’azione verso gli altri. Lo Dzogchen è semplicemente questo, non occorre nessuna fatica, nessuna pratica complicata semplicemente dobbiamo lasciar affiorare spontaneamente la Bodhicitta che è già nella profondità della nostra natura.
Quando occupiamo tutto lo spazio con il nostro ego, oscuriamo la Bodhicitta, le impediamo di emergere, quindi la nostra prima motivazione è richiamarla, lasciarla espandere nella sua naturalezza. Questo è il primo livello di motivazione.
Adesso vediamo il secondo livello di motivazione, ancora più potente perché per la piena realizzazione dello Dzogchen la Bodhicitta è ancora insufficiente, è necessaria la motivazione del “vasto metodo segreto del Mantrayāna”.
Nel testo della pratica preliminare dello Dzogchen si afferma un concetto fondamentale alla base di tutto e cioè che ogni essere ha in sé la natura dell’illuminazione da tempo senza inizio e per poter riconoscere questa illuminazione in noi stessi e negli altri è necessario sviluppare la Bodhicitta e grazie ad essa saper riconoscere in noi la natura di illuminazione lasciando così emergere lo stato sottile della mente originaria, rigpa, che automaticamente dissolve la mente grossolana che mai potrebbe illuminarsi. Il riconoscimento della propria natura di Buddha ci mostra la natura di Buddha in tutti gli altri esseri, altrimenti sarebbe impossibile.
Quindi la Bodhicitta è prima di tutto verso gli esseri senzienti che non sanno riconoscere la propria illuminazione, la luce che illumina l’esistenza qui e ora.
Se invece scegliamo di rimanere pigramente nel buio dell’ignoranza ci auto-infliggono sofferenza, insoddisfazione, vittimismo nell’illusione della visione errata.





Visione nel Mantrayāna

Il nostro lavoro può essere paragonato alla preparazione di una torta e per ora siamo ancora impegnati nell’impasto di base già ben lavorato, ma ancora incompleto, dobbiamo terminare la visione della seconda motivazione, la motivazione straordinaria del Mantrayāna, che consiste nella consapevole conoscenza dell’illuminazione di tutti gli esseri senzienti, compresi noi stessi, da tempo senza inizio.
Con questa conoscenza siamo liberati dal considerare reale ciò che non lo è e ogni visione errata prodotta dall’ego si dissolve nella visione stessa, la sua apparenza resta immutata, ma la sostanza ne è completamente trasformata.
Questa è la motivazione di Mantrayāna, parola che scomposta esprime questo significato: -man- è la coscienza, la mente principale che osserva ciò che appare, -tra- significa protezione, ciò che si sente e -yāna- il veicolo con cui realizzare la liberazione dalla visione errata ed è la protezione della mente.
Secondo la visione Mantrayāna è necessario sviluppare l’attitudine a raggiungere l’illuminazione attraverso la pratica della generazione della trasformazione di sé in divinità in questa stessa vita, mentre nell’interpretazione Sūtrayana lo stato di trasformazione nella natura della divinità richiede un’infinità di eoni.
Nella visione Mantrayāna tutto è trasformato nella quotidianità, noi siamo nella condizione di man che osserva, tra che sente e rig in cui tutto è presente nella nostra coscienza, ma non tangibile con gli occhi né con gli orecchi, presente solo nella mente e tutto questo è descritto come Dharmakāya, la forma della vacuità, o forma del Dharma. Questi livelli di percezione sono specificati nel Mantrayāna come cammino di trasformazione nello stato di divinità.
È un drastico cambiamento dall’apparenza comune allo stato straordinario in cui tutto è visto nella purezza della natura, purezza della forma e anche l’immagine che può presentarsi nella sua manifestazione più negativa è vista dalla mente nella sua purezza naturale, tutto è trasformato nella sua pura forma di vacuità e questa è la reale protezione della mente da ogni condizionamento di errata apparenza negativa, nulla può intaccare la visione trasparentemente limpida nella luminosa mente primordiale, la mente originaria da tempo senza inizio, la mente di Chiara Luce.
Nello Dzogchen questa mente primordiale si chiama Rigpa, mentre la sua negazione è ma-rigpa. Generalmente nell’interpretazione comune noi identifichiamo rigpa con saggezza e ma-rigpa con ignoranza, ma nello Dzogchen la visione è più essenziale e diretta, rigpa è il riconoscimento della mente primordiale.
La mente grossolana si può fermare sempre e soltanto all’apparenza illusoria dei fenomeni, non potrà mai avere la visione di illuminazione, mentre solo la mente radice può trasformare l’impossibile in possibile e liberarci dalla schiavitù delle illusioni ingannevoli dell’ego e quando ci siamo liberati da tutte le illusioni la mente diventa illuminata.
Siamo giunti già a un buon punto di analisi, abbiamo compreso come osservare, vedere la vera natura della propria mente.
Vi sono molte interpretazioni diverse riguardo come raggiungere la capacità di osservare la propria mente e secondo una tradizione della pratica Dzogchen si afferma che un maestro illuminato, potente, può rivelare a te la tua stessa mente in un solo istante, come il lampo di un fulmine che ti fa entrare in un momentaneo stato di trance in cui hai la visione consapevole e chiara della tua mente primordiale.
Ma oggi non ci si può fermare all’interpretazione più tradizionale di una determinata scuola, qui dobbiamo unire più conoscenze tradizionali, scientifiche, classiche, moderne e soprattutto dobbiamo seguire l’insegnamento del Buddha che ci avverte di non dimenticare mai che ognuno è il maestro di se stesso e dunque la nostra mente ci può essere mostrata soltanto da noi stessi, nessun altro può farlo al posto nostro e le pratiche preliminari non sono dunque necessità primaria e irrinunciabile, ma meramente importanti come sostegno al proprio lavoro.
Noi possiamo accedere alla visione della mente attraverso la porta del Dharma, è questo il significato vero della presa di rifugio nei tre gioielli, Buddha, Dharma, Sangha e vi sono tre modi per prendere rifugio: a livello esterno, a livello interiore e a livello segreto, vi è poi un quarto passaggio che riguarda proprio il nostro lavoro odierno ed è il Buddha, Dharma, Sangha della vacuità, della Chiara Luce.
In tutti i tre livelli, esterno, interiore e segreto il primo oggetto di rifugio, il Buddha, significa avere la mente completamente liberata dagli estremismi di nichilismo ed eternalismo.
È possibile riconoscere la faccia della propria mente primordiale solo se la mente convenzionale è stabilmente concentrata nella limpida consapevolezza, profonda e luminosa, tramite la pura spontanea naturalezza, e mai con forzature, tecnicismi o affidamento incosciente a chissà quale magia o evento miracoloso.
Di questo argomento tratta in modo estremamente chiaro Jiddu Krishnamurti, un autentico grande maestro Dzogchen che ribadisce la necessità di spogliarsi da ogni falsità, dice: -Lascia andare ogni pensiero, costruzione mentale, semplicemente, osserva- rimanere naturali nel rigpa, nella propria coscienza, questa è pura consapevolezza.
Krishnamurti toglie qualsiasi illusione, falsa gratificazione, annulla completamente ogni possibile nutrimento dell’ego e dimostra come tutto ciò che esula dalla scarna essenza è già inganno, lui presenta il vero Dharma assolutamente spogliato da ogni costruzione esteriore convenzionale, filosofica, religiosa, culturale.
Non esiste un unico metodo di realizzazione di sé, ce ne sono milioni, ma ognuno deve cercare e costruire il proprio cammino seguendo il maestro interiore, senza sovraccaricare la mente con inutili orpelli e imparare a procedere nella naturalezza della strada verso la visione consapevole della Chiara Luce, della mente primordiale e in questo percorso le pratiche preliminare sono un aiuto, un sostegno, ma non il fine.
Tutti riconosciamo senza fatica la mente di base, quella concettuale, grossolana, ma la natura della mente primordiale, rigpa, richiede il personale cammino nella consapevolezza e la spiegazione dello Dzogchen trova, nella visione della mente sottile primordiale un approfondimento nel Kālacakra tantra che è un fondamento della dottrina Mantrayāna.
La mente primordiale emerge alla coscienza nell’assenza di pensieri concettuali, percepisce la natura dei fenomeni nella loro essenza autentica, senza preconcetti né giudizi, osserva la vacuità, la realtà ultima dei fenomeni. Questa mente innata di Chiara Luce è dai tempi senza inizio e quando è liberata da ogni illusione diventa mente di Dharmakāya, la mente di vajra.
La mente primordiale non subisce alcuna influenza negativa o positiva dall’esterno, ha la purezza dell’oro che non si ossida mai e dunque la sua natura resta sempre pulita, incontaminata e nella consapevolezza abbiamo coscienza di convivere con la mente primordiale da tempo senza inizio e, al contempo, con la mente grossolana, confusa. Entrambe le due condizioni devono essere presenti, sono distinte, ma camminano insieme. La qualità della mente primordiale è inattaccabile, salda, mentre quella della mente grossolana è in costante movimento, crea ostacoli e deve essere purificata, ma come purificarla?
Attraverso la pratica yoga del Kālacakra si purificano tutti i canali con l’energia della Bodhicitta e della saggezza, il Kālacakra pulisce completamente il livello grossolano e lascia spazio alla beatitudine della vacuità, realizza l’illuminazione nella forma di vacuità e corrisponde a quello che nello Dzogchen è il corpo di arcobaleno.
È tutto abbastanza complicato, ma non ce ne dobbiamo preoccupare, non dobbiamo né possiamo raggiungere in un istante il livello di illuminazione, è invece essenziale procedere a piccoli passi, con serena tranquillità, muoverci come se fossimo in un campo di gioco, per alleggerire il samsāra e migliorare la nostra esistenza fisica, mentale e spirituale. Questo è il valore della vita umana, infatti il nostro scopo immediato è di rendere la nostra vita spontanea, naturale, pura e quello a più lungo termine, è convivere consapevolmente con la mente primordiale.




Rigpa

Ieri è stata una giornata di lavoro molto significativa in cui abbiamo condiviso concetti fondamentali nel tentativo di comprendere al’essenza della mente primordiale, la sua natura e le sue caratteristiche con particolare attenzione alle tre principali: quella naturale, quella pura e quella compassionevole.
Queste tre qualità non sono esclusive della mente primordiale, bensì di qualsiasi natura primordiale, del corpo primordiale.
La mente primordiale, nel linguaggio Dzogchen “Rigpa” ha la capacità di osservazione senza osservatore, percezione senza percettore, è semplicemente essenza di mente pura presente nell’esistenza umana, concetto che nel linguaggio della filosofia buddhista si chiama “natura di Buddha” che porta alla vacuità della mente, la realtà ultima della mente.
La vacuità della mente grossolana, sottile, primordiale è la stessa natura della mente primordiale e costituisce l’essenza della nostra esistenza che alla fine si dissolve in questo spazio.
Come detto ieri la porta di entrata indispensabile per tutto questo è la consapevolezza e non può esserci consapevolezza senza equilibrio, tranquillità, a cominciare dal livello grossolano nel corpo, nel pensiero, nel respiro, nella mente e per raggiungere questo equilibrio è necessario purificare tutte le energie negative e creare spazio alle energie positive che sono già parte della nostra natura.
Dobbiamo purificarci dalle energie negative a livello fisico, mentale e spirituale e questo può essere fatto in molti modi, il metodo essenzialmente utilizzato nello Dzogchen consiste nella pratica dei nove giri di respiro, quello strumento che riporta la calma, il contatto diretto con la propria natura profonda, come lo specchio d’acqua limpida di un lago, non intorbidita da alcuna brezza o vento.
Il metodo meditativo dei nove respiri è molto semplice, eppure potentissimo, rientra nella pratica Mantrayāna che non ha bisogno di campane, musica, danze, tanto frastuono, al contrario necessita solo di silenzio e tranquillità, è la più silenziosa, la meno apparente, infatti è detta anche il segreto del Mantrayāna, inconoscibile, perché nulla appare all’esterno e il vento sottile attraverso corpo e mente purifica corpo e mente grossolani.
Per iniziare la pratica dei neve respiri dobbiamo innanzitutto visualizzare il canale centrale e i due laterali uno a destra e l’altro a sinistra, poi con la mano chiudere alternativamente una narice. Cominciamo inspirando profondamente dalla narice destra e quando il respiro giunge al fondo espiriamo dal canale di sinistra e lo facciamo per tre volte, poi alterniamo l’ordine e per altre tre volte inspiriamo dalla narice sinistra ed espiriamo dalla narice destra; infine per tre volte inspiriamo da entrambi i canali laterali ed espiriamo da quello centrale. In questo modo il vento sottile di purificazione ha aperto e liberato tutti i canali del corpo dalle loro impurità.
Questo esercizio ci rende consapevoli dei tre canali del nostro corpo sottile, sediamoci dunque nella corretta postura come un vecchio albero ben radicato, con la schiena diritta in modo che il flusso energetico possa fluire senza intoppi, ma sempre senza alcuna forzatura, con il corpo rilassato naturalmente, stabile, come fossimo una montagna e concentriamo l’attenzione sul corpo sottile visualizzando i canali: sinistro bianco, centrale blu e destro rosso e cominciamo la respirazione come appena descritto ricordando che nell’inspirazione si immette energia positiva ed espirando si espelle quella negativa.

(segue pratica)

Ora siamo rilassati in questo corpo sottile purificato consapevoli della sua naturale essenza di compassione e attraverso questa consapevolezza troveremo la libertà della mente, naturalmente protetta da ogni influenza negativa, riconoscendo con gioia profonda che in questa pratica abbiamo potuto godere di un piccolo momento di perfezione.
Lo Dzogchen è tradotto in italiano con “Grande Perfezione”, cioè una perfezione completa che è esclusivamente nella vacuità, che non significa vuoto o nulla, bensì spazio infinito in cui c’è perfezione, qualità, opportunità, libertà e noi lo realizziamo trasformando la nostra mente nello spazio infinito.
Invece noi generalmente tendiamo a fare l’esatto contrario, rinchiudiamo la nostra mente in uno sgabuzzino buio, angusto e in cui manca l’aria, ci rendiamo schiavi nella nostra ristretta quotidianità, oppressi da preoccupazioni e pensieri, incapaci di guardare al di là dell’apparenza immediata e nella nostra ottusità non capiamo che soltanto realizzando la qualità ultima della mente possiamo essere realmente liberi.
Per rendere la propria mente spazio infinito dobbiamo liberare la mente dalla mente, lo Dzogchen, la pratica di Mahāmudrā, Mantrayāna, non ha bisogno di iniziazioni né di nessun rituale esteriore, è naturale, libera, segreta, è la più semplice e l’unico strumento necessario per realizzarla è la stessa mente.
Il più grande praticante di Dharma in Tibet è stato Milarepa, vissuto nella stessa epoca di san Francesco d’Assisi, è l’unico praticante, oltre al Buddha naturalmente, che ha raggiunto l’illuminazione in quella stessa vita, una vita umilissima, semplice, in cui si nutriva solo ortiche che cucinava in un coccio che un giorno cadendo si ruppe, ma lo strato di ortiche ormai consolidato divenne a sua volta una pentola.
Milarepa si spostava continuamente per non essere distratto dall’afflusso di gente che insistentemente veniva a cercarlo, ma aveva una sorella che voleva prendersi cura di lui e si preoccupava per la sua condizione misera e per il suo corpo nudo o ricoperto solo da qualche straccio, così un giorno gli portò un bel taglio di stoffa affinché ne facesse un abito e lui promise che avrebbe provveduto, ma quando la sorella ritornò dopo un po’ di tempo trovò la sua stoffa tagliata tutta in piccole strisce assolutamente inutili e di fronte allo sconcerto della sorella lui rispose cantando con un meraviglioso insegnamento che quello era il suo abito.
La sorella non riusciva a capire che tipo di Dharma lui praticasse e gli chiese perché i Lama importanti in Tibet erano ben nutriti e con tutte le comodità possibili, attorniati da attendenti e servitori e circondati dai ricchi doni dei discepoli, mentre lui era l’esatto opposto, l’ultimo dei pezzenti e a questa domanda Milarepa rispose che la sua pratica di Dharma era raggiungere l’illuminazione nella stessa vita e non aveva bisogno di null’altro, aveva tutto il necessario nella realizzazione della Bodhicitta e della vacuità ultima della mente.
Questa è la pratica diretta, umile, silenziosa, nascosta e io consiglio davvero di studiare e meditare l’insegnamento di questo grande maestro e di leggere la “Vita di Milarepa” e “I centomila Canti di Milarepa” che in realtà non sono centomila, bensì indicano la collezione completa di tutti i suoi poemi spirituali. Una traduzione dei canti più recente è stata fatta a Torino dalla professoressa, tibetologa, Carla Gianotti.





I nove yāna dello Dzogchen

Nella tradizione tibetana vi sono molteplici correnti di pensiero e ogni scuola ha un proprio lignaggio con modalità differenti nelle forme per esprimere il Dharma: la scuola più antica è quella dei Nyingmapa, importata dall’India, così come quella che segue, la scuola Kagyüpa fondata sulla trasmissione orale, poi la scuola Sākyapa nata in Tibet e infine la scuola Gelugpa, degli studiosi.
In realtà la scuola fondamentale alla base di tutte quelle appena elencate, anche se non è mai stata istituzionalizzata, è quella degli antichi maestri Kadampa, nata dalla pratica di Atīśa e basata unicamente sulla naturalezza dell’addestramento mentale, il Lo Jong, il cui centro è la pratica di Bodhicitta, la Compassione, e si articola in sette punti che sono il cuore del Dharma, fondamento in tutte le diversificazioni interpretative degli gli insegnamenti.
Il buddhismo tibetano, in tutte le interpretazioni e correnti affonda comunque le proprie radici nell’antica religione Bön che poi è stata assorbita passando attraverso varie fasi di modificazioni reciproche e integrazioni per cui le differenze sono più formali che sostanziali e lo Dzogchen è di fatto presente in tutte le tradizioni, anche se ciò che ne identifica nello specifico la pratica è la presentazione attraverso nove yāna, veicoli o percorsi spirituali.
La base è l’insegnamento del Buddha storico contenuto in tre veicoli: del sūtra, del tantra esteriore e del tantra interiore.
I praticanti di Dharma a loro volta praticano su diversi yāna, quelli del primo gruppo sono quello degli uditori che ricercano il nirvāna solo per liberare se stessi rinunciano al samsara, ascoltano gli insegnamenti, li condividono, ma l’unica motivazione, il loro obiettivo, è raggiungere il nirvāna tramite la concentrazione nella meditazione sul singolo punto, Shiné, permanendo nella calma dimorante, la saggezza della realizzazione della vacuità del sé.
Il secondo veicolo è quello dei Buddha solitari e il terzo quello dei Bodhisattva e tutti sono compresi nello Dzogchen che è la pratica al più alto livello.
E’ importante comprendere che lo Dzogchen si fonda sui nove veicoli che racchiudono l’intero insegnamento del Buddha. Il primo gruppo di tre comprende quello degli uditori, dei Buddha solitari e dei Bodhisattva, poi seguono altri sei che appartengono al veicolo Mantrayāna suddiviso in due categorie, Mantrayāna estero e Mantrayāna interno. Nel Mantrayāna esterno abbiamo il gruppo di tre, il kriyātantra, caryātantra e yogatantra, nel Mantrayāna interiore troviamo i tre yoga, mahayoga, anuyoga e atiyoga e quest’ultimo è lo yoga supremo l’essenza del più puro Dzogchen.
La pratica dello Dzogchen presenta due vantaggi, nel primo si giunge all’obiettivo senza dover fare un lungo percorso e nel secondo si arriva ancora in modo ancora più diretto saltando spontaneamente tutte le tappe, perché la nostra mente è pura sin dall’origine e quindi è semplicemente necessario riconoscere questa purezza.
Non è necessario per noi dover realizzare tutti i nove veicoli, già il primo, quello degli uditori, è più che sufficiente, ognuno deve calibrare il proprio interesse a ciò che è adeguato alla propria capacità e maturazione, senza voler raggiungere forzatamente obiettivi non consoni.
In qualsiasi livello di pratica ci sono tre aspetti fondamentali di cui tener conto, sempre sul fondamento della compassione e dell’amore: la pratica del comportamento etico verso se stessi e verso gli altri, la pratica della concentrazione meditativa per aprire la mente alla chiara visione e la pratica della saggezza che è la conoscenza della realtà ultima che non si ferma alla superficie dell’apparenza, ma va oltre e giunge all’essenza delle cose.
Già solo diventare uditori significa avere la motivazione della rinuncia al samsāra tramite il percorso dei cinque sentieri: dell’accumulazione, della preparazione, della visione, della meditazione, del non ritorno.
La rinuncia al samsāra implica fondamentalmente la rinuncia dell’attaccamento più forte, l’attaccamento al sé, e l’unica possibilità di lavorare su questo punto preponderante è tramite la conoscenza dell’io e la sua consapevolezza.
Consapevolezza e saggezza insieme rendono tutto possibile e ogni ostacolo può essere superato.
Abbiamo lavorato molto in questi due giorni e qui vi ho potuto dare solo un accenno a questa pratica così completa nel buddhismo tibetano e articolata in mille sfaccettature, ma l’essenziale è vederne la sua grande, semplice naturalezza ed è ciò a cui ci siamo impegnati.
Per concludere dunque dedichiamo tutti i meriti a beneficio degli esseri senzienti.

Grazie a tutti.




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