Thursday 1 April 2021

Le sedici leggi umane pure di Songtsen Gampo

Le sedici leggi umane pure (Tib. མི་ཆོས་གཙང་མ་བཅུ་དྲུག་, Wyl. mi chos gtsang ma bcu drug), furono stabilite per decreto durante il regno del primo imperatore del Tibet, il re del Dharma Songtsen Gampo -VI secolo. 

1. Sviluppare la devozione per i Tre Gioielli. 

(ལྷ་དཀོན་མཆོག་གསུམ་ལ་མོས་གུས་བསྐྱེད་པ་, lha dkon mchog gsum la mos gus bskyed pa) 

2. Cercare e praticare il sacro Dharma. 

(དམ་པའི་ཆོས་བཙལ་ཞིང་བསྒྲུབ་པ་, dam pa'i chos btsal zhing bsgrub pa) 

3. Ripagare la gentilezza dei propri genitori. 

(ཕ་མ་ལ་དྲིན་ལན་འཇལ་བ་, pha ma la drin lan 'jal ba) 

4. Mostrare rispetto ai dotti. 

(ཡོན་ཏན་ཅན་ལ་ཞེ་མཐོང་ཡོད་པ་, yon tan can la zhe mthong yod pa) 

5. Essere rispettosi con quelli di alto livello e con i propri anziani. 

(རིགས་མཐོ་བ་དང་རྒན་པར་བཀུར་སྟི་ཆེ་བ་, rigs mtho ba dang rgan par bkur sti che ba) 

6. Essere benevoli con i propri vicini. 

(ཡུལ་མི་ཁྱིམ་མཚེས་ལ་ཕན་གདགས་པ་, yul mi khyim mtshes la phan gdags pa) 

7. Essere onesto. 

(བཀའ་དྲང་ཞིང་སེམས་ཆུང་བ་, bka' drang zhing sems chung ba) 

8. Essere fedeli agli amici più stretti. 

(ཉེ་དུ་མཛའ་བཤེས་ལ་གཞུང་རིང་བ་, nye du mdza' bshes la gzhung ring ba) 

9. Emulare coloro che sono educati e decenti. 

(ཡ་རབས་ཀྱི་རྗེས་བསྙེག་ཅིང་ཕྱི་ཐག་རིང་བ་, ya rabs kyi rjes bsnyeg cing phyi thag ring ba) 

10. Avere cibo e ricchezza moderati. 

(ཟས་ནོར་ལ་ཚོད་འཛིན་པ་, zas nor la tshod 'dzin pa) 

11. Ripagare coloro che hanno precedentemente mostrato gentilezza. 

(སྔར་དྲིན་ཅན་གྱི་མི་རྩད་གཅད་པ་, sngar drin can gyi mi rtsad gcad pa) 

12. Essere onesti riguardo a pesi e misure. 

(བུ་ལོན་དུས་སུ་འཇལ་ཞིང་པྲེ་སྲང་ལ་གཡོ་མེད་པ་, bu lon dus su 'jal zhing pre srang la g.yo med pa) 

13. Avere poca gelosia. 

(ཀུན་ལ་ཕྲག་དོག་ཆུང་བ་, kun la phrag dog chung ba) 

14. Non essere influenzato da compagni malvagi. 

(ངན་པའི་གྲོས་ལ་མི་ཉན་ཞིང་རང་ཚུགས་འཛིན་པ་, ngan pa'i gros la mi nyan zhing rang tshugs 'dzin pa) 

15. Parlare con moderazione e in modo gentile. 

(ངག་འཇམ་ཞིང་སྨྲ་བ་ཉུང་བ་, ngag 'jam zhing smra ba nyung ba) 

16. Essere paziente e lungimirante e sopportare le difficoltà. 

(ཐེག་པ་ཆེ་ཞིང་བློ་ཁོག་ཡངས་པ་, theg pa che zhing blo khog yangs pa)




Wednesday 31 March 2021

Il DHARMA, L’INSEGNAMENTO DEL BUDDHA



LA VIA DEL NIRVANA
Il Dharma del Buddha
2003
Lama Geshe Gedun Tharchin

1° Il DHARMA, L’INSEGNAMENTO DEL BUDDHA


Ogni volta che veniamo a contatto con qualcosa di nuovo, di diverso da ciò di cui abbiamo diretta conoscenza ed esperienza, ci viene spontaneo guardarlo con paura e sospetto, e questo accade perché ancora non lo capiamo. Tuttavia, paura e sospetto possono costituire un ostacolo alla nostra comprensione.

Alle domande e alle critiche di chi gli si accostava per esprimere i propri dubbi riguardo ai suoi insegnamenti, il Buddha, al tempo in cui elargiva la propria conoscenza, rispondeva così: «Su ciò di cui non avrete voi stessi realizzato esperienza, nutrirete sempre dubbi ed incertezze. Di conseguenza, vi dico: venite e sperimentate, prima di decidere se accettare quello che insegno».

Analogamente, voi che  state leggendo, dovrete capire cosa ha detto il Buddha prima di pensare se sia o meno giusto accettarne i suoi fondamenti. Il Buddha, nel corso di quarantacinque anni, ci consegnò molti insegnamenti, e se studiando ed investigando ne troverete qualcuno che vi porta beneficio, allora fatelo vostro, abbandonando invece ciò che ritenete superfluo o poco convincente.

Il Dharma, l’insegnamento del Buddha,  è uno stile di vita che si basa sulla coltivazione della saggezza; in verità, quindi, se si desidera praticarne la via non è necessario diventare buddhisti.

Buddha disse spesso: «Io non sono che una guida che vi mostra la via per la liberazione, ma dovrete essere voi a conquistare la».

Il Buddha non viene, quindi, considerato un salvatore del genere umano, ma una guida ed un maestro il cui esempio può essere seguito da chiunque.

Nel corso delle sue vite il Buddha ha praticato altrettante perfezioni morali e pratiche ascetiche fino a che i suoi sforzi sono divenuti fruttuosi, permettendogli di raggiungere l’Illuminazione. Se anche noi desideriamo liberarci dai legami e dalla sofferenza e raggiungere saggezza e illuminazione possiamo seguire il suo esempio, qualunque sia la nostra condizione di vita.

Anche se il Buddha non può salvare nessuno, egli costituisce un esempio ispirato del modo in cui si può ottenere la saggezza che conduce all’Illuminazione e alla Liberazione. Chi desidera veramente approfondire i principi del Dharma dovrà farlo con mente aperta ed indagatrice; in questo modo ogni iniziale senso di sospetto finirà per scomparire.

Quando il giudizio non sarà più condizionato dalla diffidenza, ogni timore sarà fugato.

Secondo il Dharma, ci si rivolge al Buddha come ad un’autorità, ad un maestro, perché è una diretta conseguenza dell’aver investigato ed esaminato criticamente il suo insegnamento essenziale: le Quattro Nobili Verità. Solo dopo aver operato l’esame dell’autenticità ed affidabilità della sua Dottrina che accettiamo il Buddha come guida degna di fiducia. A questo punto potremo dire «Prendo rifugio nel Buddha».


Una volta Buddha affermò: «Ognuno è salvatore oppure nemico di se stesso». Questo vale per ciascuno di noi: quando cerchiamo di coltivare la bontà e pensieri positivi ci salviamo, e, d’altro canto, quando permettiamo alla negatività di dominarci, distruggiamo noi stessi.


Secondo le scritture buddhiste il mondo come noi lo conosciamo è creato dalla maturazione della forza delle nostre azioni precedenti, o karma. Qualunque nostra azione lascia una traccia nella mente, traccia che contribuisce alla nostra futura evoluzione. I buddhisti credono che lo scopo di ogni essere sia l’ottenimento dell’Illuminazione, della Buddhità, uno stato interiore di felicità e benessere infiniti.


Seguendo l’insegnamento del Buddha, c’è l’intento di definire i problemi che incontriamo nella quotidianità, e di indicarne le soluzioni. Secondo questa dottrina, i mali o i disagi che affliggono la società sono di due tipi: fisici e mentali.

A questo proposito il Buddha affermava che, seppur libero a lungo dal male fisico, non vi è alcun essere nel Samsara, o esistenza mondana, che sia libero dal disagio mentale. Per disagio intendiamo quello stato in cui veniamo a trovarci quando ci viene recato danno. Quando il desiderio, l’ira, la gelosia,  imperversano nella nostra mente, allora questa prova disagio. Tutti gli uomini sono esseri sociali: è un fatto che nessuno può vivere al di fuori della società. Ogni volta che i nostri sensi vengono a contatto con un oggetto della percezione, reagiamo con piacere o ripugnanza, desiderio o avversione. Ogni volta che emozioni negative emergono in noi, proviamo disagio.

Se sperimentiamo dolore o infelicità, ci lamentiamo.  E’ a quel punto che la nostra coscienza è attraversata da sentimenti negativi.

Quando qualcuno ci contrasta, ci arrabbiamo, e questo accade non solo a causa del comportamento dell’altra persona, ma anche perché diveniamo facile preda dell’ira. Se tali sentimenti non ci appartenessero non li svilupperemmo in seguito ad azioni o parole che subiamo.  Il Buddha disse che siamo  responsabili sia della nostra sofferenza che della nostra felicità: siamo noi che creiamo il paradiso o l’inferno. Di conseguenza, consideriamo, per usare una metafora, il Buddha un grandissimo medico, colui che ha saputo diagnosticare la nostra malattia e prescriverne la cura appropriata. Egli, di conseguenza, diviene il nostro rifugio.


La medicina prescritta dal Buddha è il Dharma.


Esso presenta tre aspetti:

  • Sila la moralità; 

  • Samadhi la concentrazione;

  • Prajna la saggezza.


In generale, Sila significa regola morale. Tradizionalmente, queste norme etiche vengono raccolte in diversi precetti destinati a guidare la condotta dei laici o dei religiosi. Esistono poi i precetti Pratimoksha o di liberazione individuale del piccolo veicolo (chiamato anche Hinayana), i precetti del Bodhisattva o della salvezza universale del Grande Veicolo (Mahayana), ed i precetti della tradizione del Buddhismo tantrico (Vajrayana).

Sila, la moralità, in sintesi significa non fare alcun male. Nessuna nostra azione o parola dovrebbe arrecare danno ad altro essere senziente, renderlo infelice, recargli dispiacere. Nel momento in cui arrechiamo danno ad un essere e lo rendiamo infelice stiamo contravvenendo a Sila.

Il Buddha insegnava a trattare anche le creature più infime come nostri uguali.

Conseguentemente, tutta la teoria e la pratica dell’insegnamento del Buddha può essere sintetizzata in due principi:


  • sviluppo di una visione del mondo basata sulla comprensione dell’origine interdipendente di tutti gli eventi;

  • come conseguenza di ciò, la pratica di una vita non violenta, compassionevole ed innocente.


Samadhi, o concentrazione, corrisponde alla meditazione. Questa è il mezzo che ci consente nella  vita quotidiana, di controllare emozioni, pensieri e sentimenti. Se non siamo in grado di tenere a bada la nostra mente ed i nostri sentimenti, come possiamo tener fede ai precetti morali? Qualunque azione virtuosa noi compiamo dobbiamo ricordarci che il Dhammapada inizia così:


La mente è il precursore di ogni stato negativo, la mente è sovrana.

Chi parla o agisce con mente corrotta, sofferenza lo segue.

Chi parla o agisce con mente pura, lo segue la felicità.


Buddha ha detto anche:


«Conquistare milioni di nemici in battaglia non è vera conquista.

In verità il più nobile eroe è colui che vince se stesso»


Prajna, saggezza, significa qui la comprensione della vera natura della nostra vita. Quando capiamo che l’esistenza è per sua natura mutevole, densa di sofferenza e priva di un sé permanente, tale cognizione può scacciare tutte le nostre energie negative: quando sorge la saggezza è possibile sradicare tutti i difetti e le disposizioni negative latenti. E’ proprio come quando appare una luce e l’oscurità viene dissipata. Tale forma di saggezza può essere conseguita attraverso la meditazione, e rappresenta il  modo in cui il Dharma guarisce i nostri mali.


Chiunque pratichi Sila, Samadhi e Prajna, e così facendo abbia in qualche misura purificato la propria mente, si può dire essere entrato a far parte del Sangha, la comunità santa. Se vogliamo guarire dalla nostra malattia dovremo seguire l’esempio di tale comunità e prendervi rifugio.


Se si comprende il significato reale della triplice presa di rifugio, si scoprirà che non esiste, in effetti, alcun Buddhismo. Chiunque  desideri curare il proprio disagio può e deve praticare il triplice Dharma; chiunque lo pratichi condurrà una vita pura e felice. 


L’essenza degli insegnamenti del Buddha è riassunta così  nel verso 183 del Dhammapada :


Impara a fare il bene

cessa di fare il male,

rendi pura la mente.

Questo è l’insegnamento di ogni Buddha.


Così, i buddhisti affermano che Saggezza e Compassione sono virtù complementari, e dovrebbero essere esercitate contemporaneamente se si vuole raggiungere la verità finale. Questa non dipende dal tempo o dallo spazio, dalla cultura o dalla geopolitica, anche se l’espressione che gli uomini possono darle può essere molto diversa. Nel suo primo discorso Buddha ha introdotto le Quattro Nobili Verità, ed anche il Vangelo dice: «Conoscete la Verità e la Verità vi renderà liberi».

Raggiungere la conoscenza della Verità è lo scopo più degno per un essere umano, dovunque ed in ogni tempo; tuttavia essa non può essere conosciuta attraverso una fede cieca. «Vedere è credere», questa è la regola della visione profonda, che nessuno dovrebbe trascurare.


A tal proposito vi presento un breve apologo. Il grande sovrano buddhista Ashoka, che visse in India nel terzo secolo prima di Cristo, fece iscrivere su di un pilastro di marmo posto in un luogo speciale a Sarnath, vicino Benares, questo editto: «Chi non rispetta la religione degli altri non rispetta neppure la propria. Chi rispetta la religione degli altri, rispetta anche la propria». Anch’io ne sono convinto, e questa convinzione costituisce una delle mie pratiche principali.


Finché durerà lo spazio

e finché rimarranno esseri viventi,

possa anch’io rimanere

per eliminare la sofferenza dal mondo.

 

LA SAGGEZZA

 LA VIA DEL NIRVANA
Il Dharma del Buddha
2003
Lama Geshe Gedun Tharchin 

16° LA  SAGGEZZA
 

Se voi state leggendo questo testo è perché siete alla ricerca di pace, di tranquillità, di un significato della vostra presenza nel mondo. Per arrivarci la prima cosa da fare è imparare a tirare fuori qualcosa di concreto durante il vostro passaggio in questa vita. Per questo la motivazione che ci spinge nella vita dovrebbe essere positiva, tale da fornirci gli strumenti per cercare l’essenza della vita, ed è proprio questo il senso della sesta Paramita.

Quando ci impegniamo in questa pratica, come abbiamo già detto in precedenza, non è per  acquisire qualcosa di nuovo, qualcosa che si trova al di fuori di noi, ma, al contrario, l’obiettivo è quello di trovare, di risvegliare quella risorsa di tranquillità e di felicità che è già dentro di noi. 

In questo senso il Dharma è innato, non è esterno alla nostra coscienza. Quindi anche la sua pratica deve sgorgare dalla nostra interiorità. Ciò significa che la tranquillità, la pace e la felicità si devono cercare dentro di noi. I semi delle sei Paramita sono già dentro di noi, dobbiamo soltanto ritrovarli, cercare di risvegliarli per poterli coltivare, per poter comprendere l’essenza della vita. Abbiamo parlato in precedenza di cinque Paramita; l’ultima che abbiamo considerato è la Samatha: la concentrazione. Ora parleremo della sesta Paramita: la Prajna, cioè la conoscenza.


Abbiamo già visto che la pratica della prima Paramita, la generosità, significa avere un cuore aperto, un’attitudine generosa, saper dare oltre le nostre risorse materiali e fisiche e  vuol anche dire generosità degli insegnamenti. L’opposto della generosità è l’avarizia che significa voler tenere tutto per sé. Atteggiamento che è generato dall’attaccamento. 

La seconda Paramita ha a che vedere con l’etica e la moralità. Sviluppandola si impara a disciplinare il proprio corpo, la propria mente e le proprie parole e si apprende la maniera corretta di agire con pensieri, parole e azioni. L’opposto è l’immoralità.

La terza Paramita è la pazienza. L’opposto della pazienza è la rabbia che distrugge la nostra pace interiore.

La quarta Paramita è lo sforzo gioioso, la perseveranza volenterosa. Il suo opposto è la pigrizia che ci fa fallire il conseguimento di qualsiasi obiettivo ci siamo proposti. 

La quinta Paramita è la concentrazione. L’opposto è la confusione, l’agitazione, la mente che vaga. 

La sesta Paramita è la conoscenza, la Prajna, il suo opposto è l’ignoranza intesa come non conoscenza, l’incapacità di vedere le cose come esse sono (nescienza). Un altro suo opposto è la mente oscurata, quella che non ci permette di vedere le cose in se stesse. Quando studiamo la sesta Paramita dobbiamo richiamare alla memoria gli opposti delle altre Paramita e tener presente quali sono i loro vantaggi e svantaggi. Buddha Sakyamuni, il nostro maestro, ha insegnato ai suoi discepoli le sei Paramita perché potessero conoscerle e praticarle e perché i semi delle sei Paramita, che sono dentro ognuno di noi, fossero riconosciuti e sviluppati. Per questo insisto nel dire che il Buddha non ha insegnato qualcosa di nuovo; Egli non ha fatto altro che mettere in evidenza quelle che sono le buone qualità insite in ogni essere umano e che devono essere seguite. 


Una volta sono stato a Padova per un incontro in cui ricordo di aver detto che il Buddha differisce da ricercatori come Guglielmo Marconi o Leonardo da Vinci perché questi hanno fatto delle nuove scoperte mentre Egli ci consente semplicemente di imparare a riconoscere quelle qualità interiori che già sono dentro di noi e ha indicato come il loro sviluppo ed il loro potenziamento portino alla suprema, permanente felicità. Ed è per questo che si potrebbe pensare che Leonardo da Vinci sia stato più intelligente del Buddha, dato che ha inventato cose nuove, mentre Buddha ha scoperto cose che già esistevano in precedenza. Ciò è avvenuto, naturalmente, a causa dei loro diversi obiettivi. 


Lo scopo del Buddha era quello di illuminare se stesso e l’essere umano, quello di far sì che la nostra vita di ogni giorno fosse migliore, quindi il suo interesse era quello di scoprire la fonte di questa illuminazione. Per questa ragione ha indicato due diversi aspetti che coesistono dentro di noi: una serie di elementi che ci portano alla felicità ed una serie di elementi che ci portano alla sofferenza. Essere generosi, avere una buona disciplina, essere pazienti, essere capaci di sforzo gioioso, essere concentrati e sviluppare la saggezza sono tutti lati positivi di noi stessi che ci portano alla felicità. 

Spesso non ci è chiaro quali possano essere i vantaggi dello sviluppo delle nostre qualità positive ed è qui che interviene la sesta Paramita cioè la conoscenza, la saggezza.


Il fatto di non essere generosi, di essere avari è generalmente riconosciuto come un aspetto negativo da ognuno di noi, e, al contrario, essere generosi è considerato da tutti una qualità positiva che porta felicità a noi stessi e agli altri. Lo stesso vale per la disciplina: il fatto di avere una buona disciplina sia mentale che fisica è reputata una qualità positiva. Ed è per questo che quando meditiamo sulle sei Paramita dobbiamo tenere conto di questi argomenti. 


Le prime tre Paramita (la generosità, l’etica, la pazienza) sono consigliate ai laici, riguardano l’accumulo dei buoni meriti e possono rientrare nell’aspetto del metodo; invece la quarta e la quinta (lo sforzo gioioso e la concentrazione) appartengono all’aspetto della saggezza e sono raccomandate a coloro che stanno in qualche ordine monastico. 


La quinta Paramita, la concentrazione, può essere divisa in altre tre categorie: la prima è la Samatha, la concentrazione della mente che risiede nella calma, la mente tranquilla o Scinè. La seconda categoria è la Vipassana, la concentrazione analitica, la concentrazione sull’analisi della realtà suprema. La terza categoria è il Samadhi sia della Samatha che della Vipassana. 


La sesta Paramita è la saggezza, in sanscrito Prajna e in tibetano Scerap. La saggezza è la maggiore di tutte le sei Paramita. Nelle scritture si dice che la Prajna corrisponde all’organo della vista e tutte le altre Paramita agli altri organi dei sensi. Senza la saggezza tutte le altre Paramita sono cieche, e ciò accade perché se pratichiamo le cinque Paramita senza la comprensione e senza la saggezza non possiamo sapere da dove originano le altre, per questo la sesta è la più importante. 


La Prajna è la comprensione suprema della realtà e può essere suddivisa in tre categorie: la prima è la conoscenza della natura convenzionale dei fenomeni, la seconda è la comprensione della suprema realtà dei fenomeni e la terza è la comprensione dei mezzi per aiutare tutti gli esseri senzienti. 

La prima categoria riguarda la legge naturale di causa ed effetto, la legge del Karma e anche la conoscenza della natura interdipendente dei fenomeni. Ciò vuol dire comprendere che ogni cosa che esiste non esiste di per sé ma esiste in quanto prodotto di una serie di fattori che l’hanno generata. Per esempio: quando andiamo in un giardino e guardiamo un fiore la prima cosa che notiamo è che il fiore sta lì ma, se lo suddividiamo in diverse parti togliendogli qualche elemento e subito dopo lo ricomponiamo, ci accorgeremo che questo fiore non è più lo stesso di prima. Allora guardandolo di nuovo ci domanderemo dove è andato a finire quel fiore, eppure tutte le sue parti sono lì, ma quello ricomposto non è più un fiore. Quindi c’è una grossa differenza tra come era il fiore prima e come è adesso che lo abbiamo scomposto e ricomposto pur non essendoci differenza fra le parti costituenti. La stessa considerazione la possiamo fare per un grande albero che ha molti rami ma che è comunque nato da un semplice seme. Questa è una maniera per poter meditare sull’esistenza interdipendente. Quindi la prima categoria della Prajna è la comprensione della reale natura delle cose e qualsiasi elemento del mondo fenomenico soggiace a questo tipo di comprensione e a questo tipo di legge. Qualsiasi nuova conoscenza può sviluppare la nostra saggezza e può aprire sempre di più il nostro cuore. Ciò significa che non stiamo più in uno stato di mente oscurata ma che ci stiamo liberando dell’ignoranza. Comprendere qualcosa di nuovo fa parte del nostro processo di acquisizione della saggezza. Non importa se si ha un oggetto positivo o negativo, la comprensione di qualsiasi cosa, la sua analisi è comunque un processo positivo di saggezza. In questo senso si dice che tutti i fenomeni sono compresi nel Dharma. Ciò non vuol dire che qualsiasi cosa sia una pratica del Dharma ma che, invece, la comprensione di ogni cosa fa parte della pratica del Dharma. 


Il secondo livello è la comprensione della suprema realtà dei fenomeni. E’ una comprensione più profonda che va al di là della conoscenza convenzionale. Significa comprendere la natura vuota di ogni esistenza. 

Quando meditiamo profondamente su di un oggetto o su di fenomeno, al termine della pratica, non riusciremo più a trovare quell’oggetto o quel fenomeno. È una reazione molto naturale, succede a tutti. Però, è importante capire che investigare la natura vuota di un fenomeno o di un oggetto non vuol dire che le cose non esistano: sarebbe un grave errore. Affermare che un oggetto non esista - in modo assoluto -  equivale a cadere nella trappola del nichilismo. Allo stesso modo, è un segnale che ci dovrebbe far comprendere che non abbiamo realizzato una comprensione profonda. 

L’attaccamento non è un’attitudine che sorge in modo intenzionale ma è qualcosa che sorge spontaneamente, senza che noi ne abbiamo consapevolezza, ed è una cosa che ci causa molti problemi. L’atteggiamento di attaccamento al sé è ciò che ci fa considerare il nostro sé la cosa più importante al mondo, come se non esistesse nessun altro essere senziente. Questo attaccamento al sé è il contrario dell’esatta realtà delle cose. Se seguiamo questo atteggiamento ci verrà a mancare qualsiasi possibilità di essere in pace. Per questo nella pratica buddhista il principale obiettivo è eliminare l’attaccamento al sé. Il fine della pratica del Dharma è quello di saper riconoscere e valutare l’attaccamento al sé e poi lasciarlo andare, eliminarlo completamente. Compiere  questo tipo di investigazione ci porta in uno stato di pace maggiore; non è cosa facile ma è già un buon passo avanti ed è positivo per noi. 


Il terzo livello è quello di aiutare tutti gli esseri senzienti. Questo è molto importante nella pratica del Bodhisattva. La comprensione dei modi per aiutare gli altri vuol dire individuare il sistema più appropriato per raggiungere tale obiettivo. Per esempio, se c’è una persona che soffre di mal di testa e la vogliamo aiutare comprando delle medicine, ciò non vuol dire che questa sia la cosa più giusta da fare. Se faremo così potremo sentirci bene, sentirci felici ed essere convinti di aver fatto qualcosa per quella persona però, in realtà, non le abbiamo risolto il problema. Ed è questa, come dicevamo prima,  la saggezza, l’occhio di tutte le altre Paramita. Possiamo essere generosi quanto vogliamo ma, se non abbiamo l’occhio della saggezza che ci indica la maniera giusta per aiutare gli altri, mancherà sempre qualcosa alla generosità. E’ per questo che, per soddisfare completamente i bisogni degli altri, abbiamo bisogno della comprensione e della maniera appropriata per aiutarli. In questo consiste la pratica del Bodhisattva e cioè il giusto modo di praticare le sei Paramita. Si può praticare la prima Paramita, la generosità, insieme con tutte le altre; la completa generosità sarà quella che si pratica, con pazienza, con moralità, con sforzo gioioso, con concentrazione e con saggezza. Lo stesso vale per tutte le altre Paramita. Può sembrare alquanto complicato però quando si acquista familiarità con questi concetti diventa molto più facile. In genere, quando parliamo della pratica, ci prefiguriamo stati mentali estremamente puri, estremamente chiari e ciò ha un effetto opposto perché ci scoraggia perché ci convinciamo che non arriveremo mai a quel livello. Ciò è da considerare un ostacolo perché provarci, fare i primi passi in questa direzione è invece un fatto molto produttivo verso l’obiettivo della distruzione delle qualità negative e delle illusioni. Anche solo sapere che esiste una pratica così pura ci porterà un grande aiuto e un grande cambiamento nella vita. Per questa sera ci fermiamo qui.


Domanda: vorrei sapere, quando parlavi del superamento del sé se ti riferivi all’io o all’ego? Perché molti autori considerano il sé il superamento dell’io.


Risposta: è qualcosa di simile, anzi si può dire che è la stessa cosa. In generale l’attaccamento al sé è più facile da comprendere che non l’attaccamento all’ego perché quando si parla dell’ego sorge l’idea dell’io, invece l’attaccamento al sé comprende più del semplice io. L’attaccamento al sé è il più importante, come se non esistesse altra cosa al mondo. Questo tipo di attitudine è soltanto apparente e illusoria. Il momento migliore per accorgersi del nostro attaccamento è quando sorgono momenti di rabbia perché in quel momento tale attaccamento raggiunge l’apice. Il problema è che, quando siamo veramente arrabbiati, siamo completamente oscurati e non siamo in grado di vedere l’attaccamento al sé. Ecco perché quelle sono occasioni speciali, allora tale attaccamento può essere riconosciuto. E’ una questione di pienezza mentale e di consapevolezza: se una persona è abbastanza addestrata nella concentrazione, anche nel momento in cui è arrabbiata può vedere il proprio attaccamento al sé. Un’altra situazione nella quale è possibile vederlo è quando abbiamo ottenuto un grande successo e siamo orgogliosi di noi stessi; quella è un’altra situazione nella quale l’attaccamento al sé è molto visibile ed evidente. In quel momento dovremmo osservarci come delle spie che guardano dal buco della serratura e provare a fare considerazioni del tipo: io non sono quella persona lì, io posso essere in un’altra maniera. Questa è la maniera in cui si può investigare l’attaccamento al sé. Questo è il momento in cui si osserva come l’attaccamento al sé considera il sé. Per esempio: adesso voi mi state guardando e io mi dico “Adesso tutti mi guardano”, però voi non state guardando realmente me ma state guardando il mio corpo, i miei vestiti, ecc. perché l’io non si vede; ho difficoltà io stesso a vederlo, figuriamoci voi! Questo del cercare dove sia l’io è un approccio utile nel considerare l’esistenza del sé e può essere ancora più utile in situazioni di particolare stress. 

Se non ci sono altre domande possiamo iniziare la meditazione.

LA COMPASSIONE E LA SAGGEZZA

LA VIA DEL NIRVANA
Il Dharma del Buddha
2003
Lama Geshe Gedun Tharchin

  

8° LA COMPASSIONE E LA SAGGEZZA


Desidero ringraziare tutti per questo incontro e per la discussione che ne seguirà. La ragione per cui siamo qui è in realtà molto comune, è la stessa ragione che inseguiamo costantemente nella nostra vita quotidiana: abbiamo l’istinto innato di trovare un po' di felicità e di risolvere i nostri problemi, una intenzione che permea tutto il nostro vivere quotidiano. Questa è la ragione principale per cui siamo qui. Così, dobbiamo lavorare insieme per trovare una qualche soluzione, un metodo per aumentare la nostra felicità e per ridurre la nostra sofferenza. 

Questo è lo scopo di ciò che è chiamato Dharma. Dharma è una parola derivante dalla tradizione buddhista, però non è necessariamente legata alla pratica buddhista e consiste piuttosto in una pratica per risolvere questi nostri problemi di natura spirituale.


Oggi ci occupiamo di un argomento che verte su due termini e due questioni fondamentali: compassione e saggezza. In realtà compassione e saggezza sono qualità mentali che dovremmo sviluppare ed aumentare dentro di noi con un vero e proprio  allenamento spirituale. 

Spesso, nella nostra vita quotidiana, ci manca proprio l’opportunità, la possibilità, di dedicarci a questa crescita perché il nostro tempo è assorbito da questioni e problemi di natura materiale. Questa condizione di disequilibrio può essere la causa di problemi di natura spirituale. Per cui la prima condizione per risolvere i problemi della nostra vita dev’essere quella di investire il nostro tempo in maniera equilibrata sia per la soluzione dei problemi di natura spirituale sia per quelli della vita materiale. 

Possiamo notare come nel mondo ci sono alcuni luoghi in cui si dedica la maggior parte del tempo, se non la totalità, alla soluzione di problemi pratici e all’acquisizione di guadagni materiali. Allo stesso modo altrove c'è magari un’attenzione quasi esclusiva a problemi di natura spirituale. Di fatto è molto difficile che si dedichi la stessa attenzione a tutti e due gli aspetti. Questa mancanza di equilibrio è una delle ragioni principali dei tanti conflitti sociali ed è anche la causa dello squilibrio della nostra vita interiore.


Sono lieto di essere in un posto come questo, un centro dove si ha la possibilità di studiare e di confrontare differenti tradizioni spirituali, un’esigenza molto importante nella società di oggi. Confrontarsi e praticare per l’accrescimento del nostro spirito senza essere limitati dalle appartenenze a singole tradizioni spirituali è una cosa importante, soprattutto in questi tempi. È veramente fondamentale perché oggi ci sono molte istituzioni religiose che hanno una mentalità troppo chiusa, troppo esclusiva, per cui spesso se si è buddhisti si può solo essere buddhisti, fare pratica buddhista e non interessarsi ad altre vie, ad altre pratiche. Questo è, appunto, uno specchio della chiusura mentale che è all'origine di conflitti sociali. 

Tale atteggiamento riflette  una mentalità molto antica; nella stessa società tibetana si intendevano le cose in questo modo. Ma questi schemi di pensiero e questa visione delle cose non si addicono e non si adattano ai sistemi democratici della società moderna. Per sviluppare una buona qualità spirituale ed essere il più possibile liberi, spiritualmente e mentalmente, dobbiamo liberarci anche di questo genere di confini e settarismi religiosi. Tale apertura della mente è una delle condizioni principali per lo sviluppo della nostra qualità interiore. Per quanto mi riguarda penso che una persona può essere tranquillamente buddhista, ebrea, islamica. Dietro al concetto per cui, per essere buoni buddhisti, buoni cristiani o quant'altro, si debba essere esclusivamente buddhisti o cristiani eccetera, c’è una cattiva interpretazione della dottrina principale. Questo causa, appunto,  una serie di limitazioni alla nostra crescita spirituale, alla possibilità di aprire il nostro cuore, al nostro sviluppo come esseri umani. 

Così questo centro «Simmetria», qui a  Roma, per quanto piccolo è importante. In genere molte delle cose preziose che troviamo sono in realtà piccole e, proprio perché sono piccole e rare, sono preziose.


Entriamo ora nell'argomento vero e proprio della conferenza. Nel momento in cui si comprende che tutte le tradizioni spirituali sono ugualmente degne di rispetto, allora ci si può applicare pienamente alla pratica e alla comprensione di concetti come compassione e saggezza. 

Ci sono  quattro allenamenti preliminari prima di potersi considerare pronti per la vera e propria pratica della compassione, per comprendere la compassione.

Prima di tutto, è  fondamentale il rispetto di tutte le diverse tradizioni buddhiste e delle altre religioni.


Il primo allenamento preliminare : la preziosa rinascita umana


La condizione successiva è quella di essere consapevoli della preziosità della vita umana. Ogni cognizione religiosa sorge da questa coscienza. 

Come possiamo comprendere quanto è rara e preziosa la vita umana? Per questo caso la tradizione buddhista individua tre caratteristiche. Per ottenere la rinascita umana devono essere realizzate tre condizioni: la prima condizione è la pratica di una perfetta moralità, di una corretta etica. La seconda condizione si ottiene attraverso la pratica delle cinque moralità perfette che sono: generosità, pazienza, perseveranza entusiastica, concentrazione e, in ultimo, saggezza. Queste prime due condizioni non sono sufficienti; la terza condizione che le completa è la dedizione, o aspirazione. 

Sommando i primi tre punti, cioè la pratica di una perfetta etica, accompagnata e supportata dalle altre cinque perfezioni in cui è condivisa, abbiamo sei pratiche. Queste sei pratiche devono essere tutte alimentate dall’aspirazione, da un desiderio vivo. Queste tre condizioni possono dar luogo a una rinascita umana pienamente qualificata.


Naturalmente si può rinascere senza aver praticato la corretta etica con le sue cinque perfezioni e con dedizione. Ma, se per esempio non si è praticata la generosità, si può rinascere in un luogo in cui si ha una estrema difficoltà per trovare abiti e cibo. Da questo discende una catena di conseguenze perché le condizioni difficili ostacolano la possibilità di dedicarsi serenamente alle questioni spirituali. Inoltre, se nelle vite precedenti non si è praticata la pazienza, diventa davvero difficile seguire un cammino spirituale ad ogni livello e con qualsiasi risultato perché si è soggetti all’ira o alla rabbia che distolgono dalla pratica. 


Il punto cruciale per una pratica spirituale è la necessità della pazienza. In realtà la pazienza è determinante in qualsiasi nostra attività: nella carriera, nello studio… Così, se non abbiamo praticato la pazienza nella vita precedente, in quella attuale può essere molto difficile dedicarsi a un’attività con successo e, per quello che ci riguarda qui, ottenere dei risultati nella crescita spirituale. In italiano si parla di «santa pazienza». Mi è piaciuta questa espressione perché caratterizza in modo quasi divino questa qualità. 

La terza paramita (o perfezione)  è la perseveranza entusiastica, che si può definire semplicemente come uno sforzo gioioso, un applicarsi con gioia. C'è un potere, una forza che nasce dalla gioia, una forza legata alla volontà; il cui frutto è darci una grande forza, un grande entusiasmo senza perdere energia, cosa che succede normalmente quando ci applichiamo con grande sforzo ad uno scopo, difatti applicarsi con gioia ci dà un potere che non svanisce. Comunque, se non si ha una sufficiente concentrazione, per quanto si possa provare a praticare è difficile che si ottengano dei risultati, si può fare ben poco. 

L'essenza della concentrazione è la consapevolezza. Saggezza in realtà significa intelletto, la conoscenza che può discriminare il buono e il cattivo, ciò che è giusto o sbagliato. Per ottenere una rinascita umana pienamente qualificata dobbiamo praticare pienamente tutte e sei le perfezioni. Noi pratichiamo queste sei perfezioni per ottenere dei benefici per gli altri e questa è la causa della dedizione, l’aspirazione. 

La forma umana ha le migliori capacità ed abilità per produrre benefici per gli altri. Potremmo tranquillamente praticare le sei perfezioni per ottenere la rinascita pienamente qualificata solo per noi stessi ma questo non è giusto, non rispecchia la terza condizione, quella appunto della dedizione. È per dare benefici agli altri che dobbiamo praticare e la forma umana ha le migliori qualità per realizzare questo scopo. 

Penso che la gente che vive a Roma, in questo senso, in passato deve aver fatto un buon lavoro per vivere le sei condizioni. La realizzazione ottenuta dalla corretta pratica di queste sei perfezioni è definita come la conoscenza della preziosità della forma umana. La ragione fondamentale per cui dobbiamo praticare è portare avanti questa missione. 

Missione tanto importante quanto difficile.



Il secondo allenamento preliminare: l’impermanenza


La seconda delle pratiche preliminari necessarie a evolversi nella vera e propria pratica della compassione è la conoscenza, o la realizzazione della impermanenza.

Primo significato dell’impermanenza è che il nostro corpo cambia nel tempo, è un processo naturale, ogni cosa cresce e decade, invecchia. Nulla può arrestare questo processo perché è naturale, non possiamo fare assolutamente niente per interrompere o contrastare questo processo naturale. Questo è il principio della natura impermanente dei fenomeni. 

Dobbiamo realizzare che il nostro corpo, per quanto prezioso, non dura per sempre e che  il decadimento dei fenomeni materiali illusori non si ferma mai. Il significato  di questa presa di coscienza consiste nel realizzare che non c’è tempo da perdere e che dobbiamo usare il nostro corpo per averne i vantaggi nel presente: qui e ora. 

Questa è la seconda pratica preliminare, essere consapevoli della impermanenza della vita umana e del corpo umano.



Il terzo allenamento preliminare: Il karma ovvero la legge di causa-effetto


La terza pratica preliminare è la realizzazione, la comprensione  della legge di causa-effetto. La legge di causa-effetto è ciò che nella tradizione buddhista chiamiamo normalmente karma. Si basa su tre caratteristiche. 

La regola del karma fissa la sequenzialità degli eventi: rapporti di causa-effetto positivi non possono in alcun modo causare risultati negativi, viceversa rapporti di causa-effetto negativi producono solo risultati negativi. È ovvio che se piantiamo semi di riso può nascere solo riso. Un seme diverso non potrà produrre riso, è una legge della natura, nessuno e niente la può cambiare; e anche noi viviamo immersi in questa legge naturale. 

Così ogni momento gioioso o doloroso che viviamo in questa vita è il risultato delle nostre azioni, delle relazioni di causa-effetto poste precedentemente. 

La seconda caratteristica della legge di causa-effetto consiste nel fatto che non possiamo andare incontro a nessuna esperienza che non sia il prodotto di una qualche nostra scelta volontaria antecedente; è impossibile che l’accumulo di azioni negative da parte mia si traduca in risultati negativi su qualcun altro, ma solo su di me. 

Dobbiamo renderci conto che ogni esperienza alla quale andiamo incontro nel tempo presente è il risultato esclusivo dell’accumulo delle nostre azioni e delle nostre responsabilità nel passato.

La terza caratteristica riguarda il futuro: è inevitabile andare incontro a esperienze create da noi stessi; non c’è modo di far scomparire i risultati delle nostre azioni del passato. Queste sono le tre caratteristiche della legge di causa-effetto che descrivono il funzionamento di tutti i fenomeni. 

È una legge universale di natura, non è una legge applicabile solo a Roma o in Inghilterra. Questa comprensione della legge naturale di causa-effetto è la terza pratica preliminare per evolversi e arrivare al passo successivo della compassione.



Il quarto allenamento preliminare:il samsara


Il quarto pensiero fondamentale è la condizione della vita. In Sanscrito ci si riferisce al Samsara come ciclo delle esistenze. Non è semplicemente esistere ma esistere in dipendenza da qualcos’altro. La nostra vita quotidiana è definita da un processo ciclico. Com’è possibile che si sia vincolati a questo processo ciclico? Perché non ne usciamo? Abbiamo sempre un sacco di cose da fare, molti impegni ed enormi frustrazioni ed impedimenti; com’è possibile? 

Per ciascuno il problema principale è la necessità di nutrirsi per sopravvivere, per cui sarei felicissimo se non avessi questa schiavitù; penso che ci libereremmo da diverse frustrazioni ed avremmo molto più tempo da dedicare alla pratica se non avessimo la necessità di alimentarci. Questa è la nostra vita concreta e materiale, anch’essa prodotta da noi, causata da noi stessi. 

Se comprendiamo il principio di causa-effetto possiamo vedere con sufficiente chiarezza come abbiamo prodotto da noi stessi questa dimensione di vita. Questa è la quarta pratica preliminare della nostra condizione di vita. 

Dal momento che questa condizione è qualcosa che abbiamo prodotto noi stessi c’è poco da essere dispiaciuti, sofferenti o arrabbiati con altri; ho comprato una bottiglietta d’acqua e ne sono deluso, però non posso biasimare nessuno se non me stesso perché sono stato io a comprarla. Questo è un significato particolare, in dettaglio, della conoscenza della nostra vita. Per quanto breve possa essere questa descrizione la pratica di queste quattro condizioni deve essere completa prima di potersi dedicarsi alla vera e propria pratica della compassione. 


La compassione


Non c’è modo di praticare la compassione nella filosofia buddhista se prima non abbiamo praticato queste quattro condizioni. In realtà la compassione dovrebbe sorgere spontaneamente, quasi come risultato dell’attuazione di queste quattro pratiche preliminari.


Ogni volta che parlo di compassione noto che la gente vuole soffermarsi su questo concetto a lungo; ritengo sia sbagliato perché in realtà la compassione è un risultato. Nel momento in cui raccogliamo i frutti dell’applicazione delle quattro pratiche preliminari la compassione sorge spontaneamente. 

Allora, vediamo come avvicinarci alla vera e propria pratica della compassione, una volta raggiunti e completati i risultati delle prime quattro pratiche preliminari. 

Ci sono diversi passi da seguire. La prima considerazione da fare è quella sugli svantaggi del nostro comportamento egoistico. A questo proposito le scritture tradizionali ci dicono che dovremmo bandire colui che si lamenta di tutto, di ogni cosa. Questo è l’atteggiamento egocentrico, concentrato su se stesso. Quando abbiamo dei problemi andiamo sempre alla ricerca di cause esterne e non troviamo mai la vera ragione che è solo in noi. 

È buffo perché questa visione rovescia il nostro modo di vedere abituale. In realtà è lavorando con molta semplicità e continuità su questo atteggiamento egocentrico che possiamo risolvere i problemi. 

Quindi una prima definizione di compassione è rispettare tutti, senza accusare nessuno e senza lamentarsi perché la causa dei nostri problemi non è al di fuori di noi, non è lì, ma qui, dentro di noi e questo aspetto della compassione è molto realistico. In questo caso la compassione ha due aspetti: il primo è rispettare gli altri, il secondo è compiangere i nostri atteggiamenti negativi. Questo non significa compiangere noi stessi ma solo i nostri atteggiamenti negativi. Anche rispettare noi stessi è compassione. 

Nella tradizione buddhista la difesa, e quindi la preservazione di noi stessi è cosa saggia; è importante che distinguiamo bene queste due cose: noi e i nostri atteggiamenti negativi. Questo aspetto della compassione è allo stesso tempo spirituale e pratico; può essere messo in atto a livello singolo, di gruppo o finanche per un’intera nazione.

Nel secondo verso delle scritture si dice: «Meditate sulla grande gentilezza di tutti gli esseri».

Perché dobbiamo quindi rispettare gli altri? Perché gli altri sono la causa della nostra felicità, di tutte le nostre qualità e di tutti i nostri guadagni. Sono sempre molto gentili con noi ed ogni cosa diventa oggetto di rispetto se meditiamo sulla grande gentilezza di tutti gli esseri. È molto facile comprendere questo concetto: se non ci fosse nessuno e fossimo completamente soli come potremmo essere felici? È molto semplice. 

Ciò vale anche riguardo alla mia esperienza personale, relativa alla mia venuta in Occidente e al fatto che ho sentito la mancanza dei miei amici. Gli altri sono l’unica causa della nostra felicità, tranquillità e persino della nostra posizione sociale: un primo ministro o un presidente, se fossero soli, chi governerebbero? Io sto parlando ma ci siete voi che mi ascoltate, altrimenti a chi parlerei? Anche una singola persona è necessaria. Questa condizione è prodotta dagli atteggiamenti noi tutti, insieme. Se riflettiamo con attenzione possiamo realizzare che ogni individuo è gentile con noi. 

Pensiamo al grande problema della guerra. Quello che dobbiamo assolutamente fare è difendere noi stessi. Ma come? Io non credo che le maschere antigas siano un grande mezzo di difesa, anche perché sono molto scomode da portare. La compassione è già una prima grande tecnica di autodifesa: ci libera dalla paura. 

Riassumendo, ci sono questi due aspetti della pratica della compassione: il primo è non accusare gli altri come causa della nostra sofferenza perché l’unica causa risiede nei nostri atteggiamenti negativi; il secondo è rispettare tutti gli altri esseri per la loro estrema gentilezza nei nostri confronti. Nel momento in cui abbiamo sviluppato i quattro aspetti preliminari e i due aspetti della compassione dobbiamo praticare in concreto. In tibetano si chiama Tong Len, la pratica del dare e ricevere. Significa dare tutte le nostre buone qualità agli altri e prendere su di noi tutte le responsabilità dei nostri problemi. Poiché gli altri sono molto gentili con noi non possiamo fare altro che sviluppare un atteggiamento altrettanto gentile nei loro confronti. Non c’è una verità numerica perché «gli altri» è indefinito, l’io è uno, quindi rivolgere questo atteggiamento di compassione agli altri è la cosa più grande che si  possa fare. 

Così forse si comincia a capire cos’è la compassione e quanto grande è la mente compassionevole: è la cosa più grande che possiamo fare dal momento che possediamo questa forma umana. 


Per quanto riguarda la tradizione buddhista, lo scopo più alto è sviluppare e coltivare questa attitudine che si definisce compassione e praticarla. Se la pratichiamo correttamente essa diventerà la causa primaria, la fonte della nostra piena gioia, felicità e tranquillità, e diventa anche la fonte di gioia, felicità e tranquillità per gli altri. Tra tutti i fenomeni dell'universo il più prezioso è quello della compassione. Perché è il solo e unico fenomeno che dà gioia e tranquillità universali. E si basa su fatti concreti, sulla realtà, non stiamo creando nulla di nuovo. 

Quindi dalla definizione di compassione, nella tradizione buddhista, deriva anche la definizione delle azioni negative: semplicemente è ciò che va nelle direzione opposta alla compassione. Le azioni negative sono quelle che arrecano infelicità a noi e agli altri, quelle  positive invece vanno nella direzione dello sviluppo della compassione, portano felicità e potenziano ulteriormente lo sviluppo della compassione. Queste sono cose basate su fatti concreti, su quei quattro principi di cui parlavamo all’inizio.


In tibetano la saggezza si traduce con “she-rab”,  un termine che definisce un tipo di intelletto, di conoscenza, capace di discriminare il buono dal cattivo. Dividiamo la saggezza in due parti: da un lato quella che si definisce conoscenza del livello convenzionale della verità, e dall’altro la conoscenza della verità ultima. Queste due conoscenze sono legate a queste due realtà di fatto: la realtà convenzionale e la realtà ultima, superiore. Queste due realtà sono collegate, sono due aspetti di ciascun singolo fenomeno. Sul livello di verità convenzionale i due aspetti buono e cattivo, sofferenza e felicità, esistono realmente, sono veri ad un livello convenzionale; ma quando andiamo più in profondità, al livello della verità ultima, essi coincidono.

Nella tradizione buddhista sul piano di verità convenzionale ci sono delle differenze ma sul piano della verità ultima tutto è uguale. Significa anche che non c’è nulla di completamente nero o completamente bianco, ogni cosa può cambiare, la natura è trasformazione. Da questo punto di vista non c'è nulla a cui rimanere vincolati, a cui aggrapparsi o da odiare profondamente. Non ci sono nemici o amici assoluti. Si tratta della duplice natura, di due aspetti di una sola cosa. Se riflettiamo su questo principio e lo paragoniamo al nostro modo di pensare quotidiano troviamo una differenza enorme; ciò significa che le percezioni, i pensieri e i giudizi che abitualmente abbiamo sulle cose sono opposti alla vera realtà delle cose. 

Quindi, le nostre percezioni istintive non sono normalmente corrette e non dovremmo seguirle. Dopo una valutazione, una percezione, dovremmo fermarci sempre un attimo a pensare, non dovremmo mai agire senza riflettere. Attraverso questo tipo di indagine ed attenzione un uomo può interrompere ed evitare molti problemi che derivano dal comportamento irriflessivo. Questo è ciò che chiamiamo propriamente saggezza. La chiave per aprire gli occhi della saggezza, dell’intelletto, è conoscere la realtà ultima dei fenomeni ed è strettamente  collegata al concetto di compassione. Non c’è possibilità di praticare una completa compassione senza una reale saggezza e, senza una completa pratica della compassione, non c'è possibilità di praticare ed ottenere una completa saggezza. Questi due atteggiamenti mentali sono complementari. Sono necessari l’uno all’altro per svilupparsi. 


Ogni tipo di pratica che riguardi compassione e saggezza deve svilupparsi in tre passaggi: per prima vi è una fase di studio, di lettura e di apprendimento; la seconda è una fase di osservazione e la terza è di contemplazione. Questi tre livelli, tre gradini, sono molto importanti per seguire una pratica corretta. La ragione per cui dobbiamo praticare la compassione è suscitata dagli aspetti del vero intelletto, della vera saggezza, ed è la stessa ragione per cui dobbiamo arrivare a discernere la verità ultima dei fenomeni.


Domanda: esiste una spiegazione del termine "gentilezza" dell’altro e/o verso l’altro, ed è possibile metterla in rapporto con il termine «sacralità» dell’altro?


Risposta:  è giusto considerare gli altri come sacri, più che gentili, anche quando non ci appaiono tali. Non è facile ovviamente sviluppare questa considerazione ma, per quanto possa non essere facile, dobbiamo continuare a pensare ai tanti  benefici che ci derivano  dalla semplice esistenza degli altri.


Domanda: si è parlato di persone che non si contentano mai, che si lamentano sempre, dobbiamo averne compassione, cercare di parlar con loro o emarginarli?

Risposta: nel  Buddhismo si ritiene che sia molto difficile giudicare una persona dall’esterno; se abbiamo di fronte un perfetto Buddha o uno stupido non possiamo saperlo. Quindi un buon modo per avvicinare una persona è intanto quello di rispettarla e cercare di capire il motivo per cui si lamenta. Nel momento in cui le mostriamo  rispetto è probabile che in tale persona si sviluppi qualcosa di speciale. In realtà è molto più facile che il nostro prossimo sia buono più che cattivo e, se riusciamo a rispettarlo, gli diamo una maggiore possibilità di manifestarsi come tale. Questa è una buona pratica sia per noi che per gli altri. C’è un parallelismo con i Vangeli dove c’è scritto: "non giudicate per non essere giudicati", il Buddha ha detto qualcosa di simile: "nessuno può giudicare un altro se non è un Buddha”.


Domanda:  rispetto al karma è stato detto che un’azione positiva va nella direzione dello sviluppo della compassione e invece una negativa ovviamente se ne allontana e, una volta compiuta, è impossibile tornare indietro. Vorrei chiedere due cose: per quanto riguarda l’azione negativa nella religione cristiana c'è la remissione del peccato, che non è un tornare indietro ma, in qualche modo, un riscatto del debito che si è acquisito compiendo una determinata azione negativa. 

Esiste qualcosa del genere nel Buddhismo? La seconda è una domanda rivolta anche a me stesso: come faccio o discriminare l’azione che sto compiendo: se è buona o cattiva?

Risposta: non c’è in effetti nella tradizione buddhista un concetto come la remissione del debito ma una cosa che può avere la stessa funzione: la purificazione. Anche se il danno relativo all’azione negativa compiuta rimane, attraverso la purificazione si possono incrementare le qualità positive. Lo sviluppo delle qualità positive è automaticamente la purificazione delle azioni negative. Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, l’unico criterio per discriminare le azioni negative da quelle positive è osservare se producono felicità e  tranquillità negli altri oppure disturbi e problemi. In generale, prima di coinvolgersi in una qualsiasi azione bisogna fermarsi e pensare, senza seguire l’istinto. Questo significa sviluppare la consapevolezza. La meditazione è il grande aiuto per sviluppare la consapevolezza.

Domanda: ad un certo punto ha parlato di difesa, come possiamo difenderci?


Risposta: sviluppando la compassione.


Domanda: se le azioni buone e cattive sono due aspetti di una stessa realtà quando io compio un’azione pensando di essere nel giusto ma questa crea, realmente o potenzialmente, danno agli altri, in che posizione mi trovo rispetto allo sviluppo della compassione?

Risposta: indipendentemente dal risultato, dal danno arrecato agli altri,  quando l’intenzione è giusta si tende a considerare l’azione in modo un po' più positivo che negativo. 

Ci sono sempre due livelli nella motivazione: il primo livello, quando si compie un’azione positiva, senza arrecare danno al prossimo,  con una motivazione positiva, compassionevole; il secondo livello, quando,  pur essendo guidati da una motivazione compassionevole, si arreca del danno agli altri. In entrambi i casi, si compie comunque un’azione positiva.