Saturday 31 January 2015

Beatitudine della solitudine nella vacuità














Beatitudine della solitudine nella vacuità







Geshe Gedun Tharchin
Insegnamenti Intensivi 2006
Istituto Lamrim/Fondazione Maitreya Roma


















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INDICE


Roma 2006 - Insegnamenti Intensivi








Parte Prima: *gennaio - luglio 2006*

La Visione del Sé nella Mādhyamika   (prima sessione)
                                                              (seconda sessione)

Meditazione e insegnamento di Dharma   (prima sessione)
                                                                   (seconda sessione)

Origine interdipendente nel Su Hri Da Le Kha   (prima sessione)
                                                                                   (seconda sessione)

Ottuplice sentiero nel Su Hri Da Le Kha   (prima sessione)
                                                                         (seconda sessione)

Amore universale e armonia sociale


Parte Seconda: *settembre - dicembre 2006*

Benedizione e Suprema Beatitudine

Il Maestro interiore

Dharma e Consapevolezza   (prima sessione)
                                                 (seconda sessione)

Meno desideri meno sofferenza 

Beatitudine della solitudine nella vacuità


Testi annessi: 
Dedica - Preghiera del Lam Rim, di Geshe Gedun Tharchin
Lettera ad un Amico, di Nagarjuna

















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PRIMA   PARTE
Roma   *   Gennaio  -  Luglio 2006   *




La visione del Sé nella Mādhyamika


(Prima Sessione)

Buon giorno a tutti, oggi siamo qui con la forte determinazione di praticare il Dharma, e non solo per apportare vantaggi a noi stessi ma a favore di tutti gli esseri senzienti.
Il Dharma deve essere praticato utilizzando i mezzi abili che consistono nel coinvolgere se stessi in attività a beneficio del prossimo il cui risultato naturale sarà l’appagamento dei propri desideri.
Il principio, l’essenza del Dharma, è la grande compassione perché ogni azione compiuta in essa è positiva per gli altri e per se stessi.
Generalmente noi pensiamo, sbagliando clamorosamente, che il nostro interesse sia contrapposto a quello altrui e che uno escluda l’altro, ma qualsiasi azione compita secondo questa visione errata sarà automaticamente causa di situazioni conflittuali e negative per tutti.
Anche se inizialmente può risultare difficile, nella pratica del Dharma dobbiamo dedicare ogni istante a beneficio del prossimo, al di là di ogni dualismo, perché il bene altrui corrisponde esattamente al nostro e viceversa.
La visione dualistica che, distorcendo la realtà, crea contraddizione tra il proprio benessere e quello altrui, deve essere abbandonata, è necessario comprendere con chiarezza che agendo con altruismo si sta aiutando se stessi.
Sarebbe davvero impossibile, irreale, pensare di poter ottenere la felicità solo per sé vivendo in mezzo alla sofferenza di tutti gli altri. È radicato in noi l’errato concetto di voler essere felici a qualsiasi costo, indifferenti alla sofferenza altrui, ma questa attitudine egocentrica, l’attaccamento al sé, è la radice stessa di ogni sofferenza.
L’egoismo e l’egocentrismo sono il risultato della separazione di se stessi dagli altri, del considerare se stessi e i propri interessi prioritari in una netta divisione costruita al proprio interno e che non risponde alla realtà.
L’attaccamento al sé si fonda dunque sull’errore, sul modo deformato in cui percepiamo noi stessi, incapaci di investigare, di analizzare la vera essenza dell’io che consideriamo un’entità a se stante, autonomo, in grado di essere felice in modo indipendente.
Per questo Candrakīrti nell’introduzione alla Via di Mezzo, Madhyamakāvatāra, parla della meditazione come compassione rivolta alla sofferenza delle persone, che non è causata dalla mancanza di oggetti materiali, di cibo, di riparo, ma essenzialmente dall’attaccamento all’io che, a sua volta, determina la concezione del mio, in un circolo vizioso che fa affondare sempre più nel dolore.
Riflettendo su questa situazione possiamo espandere la compassione compiendo il primo fondamentale passo, la rinuncia, che nasce dall’osservazione della sofferenza prodotta dall’attaccamento all’io e che mostra come soltanto liberandoci da questa schiavitù infinita troveremo la pace.
Avendo sperimentato in noi questa condizione possiamo estendere il naturale sviluppo della compassione agli altri.
La rinuncia e la compassione autentiche e pure matureranno in noi parallelamente alla consapevolezza che la sofferenza su cui meditiamo non è causata dalla mancanza di beni materiali, bensì dall’attaccamento all’io.
Quando vediamo persone povere, affamate, senza un riparo, proviamo pietà nei loro confronti, mentre non abbiamo alcuna pena per coloro che posseggono troppo, ciò significa che la nostra attitudine mentale è ancora estremamente labile e superficiale, non si tratta di vera compassione.
Solamente comprendendo la vera natura samsarica della sofferenza che permea ugualmente tutti gli esseri senzienti si può sviluppare la compassione equanime e non discriminante.
Questa è la base della rinuncia e della compassione, perché riconoscendo che la sofferenza degli esseri è generata dall’attaccamento all’io, da cui scaturisce l’attaccamento al mio, sorge spontanea la genuina compassione nei confronti degli altri e, applicando lo stesso ragionamento alla nostra condizione, ci impegniamo automaticamente nella rinuncia.
La rinuncia e la compassione sono la motivazione, il metodo, i mezzi abili, perché altrimenti non c’è modo di ottenere la saggezza, e nella loro realizzazione si matura la consapevolezza della sofferenza come inevitabile conseguenza dell’attaccamento al sé.
Candrakīrti nel Madhyamakāvatāra afferma che il praticante in primo luogo cercherà di eliminare il sé, sapendo che la visione errata di un sé intrinsecamente indipendente è la causa di tutte le sofferenze.
Eliminare il sé non significa togliere qualche parte del nostro corpo, implica semplicemente un mutamento della visione. La visione è il modo in cui percepiamo la realtà e non è rivolta ad oggetti esterni, bensì alla nostra interiorità.
Tendenzialmente focalizziamo esclusivamente l’attenzione al di fuori, siamo determinati a cambiare ciò che non ci piace, ma non cerchiamo mai di modificare la visione del sé, e questo è un grossolano impedimento, una realizzazione impossibile.
Mutare la visione del sé significa trasformare la visione di tutte le cose e per questo è fondamentale riflettere e meditare sulla necessità di modificare la percezione del sé, un’analisi che invece non siamo assolutamente disposti ad affrontare, ci concentriamo esclusivamente sull’apparenza esteriore nella speranza di vedere un Buddha o una divinità e non appena intravvediamo qualche risultato ci esaltiamo, convinti di aver raggiunto l’illuminazione, pensiamo che questa esperienza sia il segno di una nostra reale trasformazione, ma si tratta di una grande illusione.
Soltanto nella trasformazione stabile della percezione del sé, raggiungeremo un vero obiettivo.
Questi argomenti non sono facili, stiamo tentando semplicemente un primo approccio in cui osserviamo gli aspetti correlati alla sesta pāramitā, la perfezione della saggezza, che è il risultato delle cinque precedenti.
L’interrelazione di causa effetto, l’interdipendenza, è imprescindibile in ogni fenomeno e non sarebbe possibile acquisire la sesta pāramitā senza la pratica di tutte le altre.
La sesta pāramitā può essere realizzata soltanto in concomitanza con le cinque precedenti che ne costituiscono le fondamenta; potremmo paragonarle alla crescita di un albero, dal seme si formano le radici, poi il tronco, i rami, le foglie, i fiori e infine i frutti.
Questa realtà convenzionale osservabile all’esterno è applicabile alla nostra crescita interiore, dobbiamo partire dalle radici per poter raccogliere i frutti.
Le sei pāramitā sono fondamentali per lo sviluppo umano, si inizia con la generosità che costituisce il terreno fertile in cui seminare; poi si piantano i semi della moralità, dell’etica; la pazienza è la cura della pianticella che spunta dal terreno e che bisogna annaffiare, proteggere dagli uccelli, attendendo la sua piena maturazione; questi sforzi e cure ininterrotte che permettono la formazione e il rafforzamento del tronco, dei rami, lo spuntare delle foglie, sono la perseveranza entusiastica; quando finalmente spuntano i fiori siamo nella concentrazione; infine i frutti maturi sono la saggezza.
La generosità contrasta l’attaccamento, la moralità contrasta l’avversione, la pazienza contrasta l’intolleranza, la perseveranza entusiastica contrasta la pigrizia, la concentrazione contrasta l’eccitazione e l’ottusità mentale, e la saggezza è opposta all’ignoranza, non relativa alla mancanza di nozioni, ma all’errata percezione del sé.
In diversi ambiti oggi si approfondiscono interessanti teorie su come conoscere se stessi, nell’antropologia la prima domanda è: “chi sono io?”, ma l’illusione di poter ottenere risposte immediate, di raggiungere istantaneamente la saggezza senza applicare le precedenti pāramitā, vanifica ogni possibilità di successo, è impossibile.
Nel cammino del praticante ci sono due tipi di accumulazioni, dei meriti e della saggezza. L’accumulazione dei meriti si basa principalmente sulla pratica delle prime tre pāramitā, mentre l’accumulazione della saggezza riguarda essenzialmente la sesta, ma tutti i passaggi sono inscindibilmente correlati.
L’accumulazione della saggezza si fonda sull’accumulazione dei meriti perché senza questa base non si realizzerà mai. Metaforicamente, se desideriamo fortemente un fiore o un frutto non possiamo costringere la pianticella appena germogliata a produrli istantaneamente, né cercarli forzatamente al suo interno, otterremmo soltanto il suo rinsecchimento.
Così, se abbiamo una coltivazione di fragole e desideriamo gustarne i frutti cosa dobbiamo fare? Sarebbe sciocco voler accelerare il processo di maturazione inondando il campo di acqua o bruciando i germogli con una tonnellata di fertilizzante, dobbiamo semplicemente praticare le sei perfezioni, accudirli senza attaccamento, con generosità e con etica, liberi da intolleranza, da ogni competizione o avversione e poi attendere con pazienza la naturale evoluzione e vigilare con attenzione sulle necessità della pianticella, nei tempi e nei modi dovuti, secondo il metodo della perseveranza entusiastica.
Colui che vuole sviluppare la saggezza dunque cosa deve fare?
Oggi siamo fuorviati dalla modalità iperveloce del supermercato che propone prodotti pronti e impacchettati, come se venissero dal nulla, mentre in realtà sono il risultato di un lungo procedimento, dobbiamo dunque concentrarci sulle cinque perfezioni che consentono l’autentica realizzazione della saggezza nella contemplazione dell’interdipendenza di ogni fenomeno e che si ottiene grazie alla concentrazione che a sua volta è il risultato della perseveranza entusiastica; la perseveranza entusiastica è il risultato della pazienza; la pazienza è il risultato della moralità e la moralità è il risultato della generosità.
Senza la generosità non possiamo praticare la moralità e senza la moralità non possiamo praticare la pazienza, senza pazienza non raggiungiamo la perseveranza entusiastica e senza perseveranza entusiastica non otteniamo la concentrazione, senza concentrazione non possiamo realizzare la saggezza.
Noi invece cerchiamo incessantemente e inutilmente scorciatoie, risposte facili, automatiche, ad esempio pensiamo “non sono paziente, devo sviluppare la pazienza, acquisterò un libro su questo tema così saprò come ottenere rapidamente il risultato”, ma non funziona così, è un pesante fraintendimento.
L’argomento che dobbiamo affrontare è ben più complesso, riguarda la visione del sé e, per poterlo comprendere pienamente è necessario avere assimilato completamente il concetto dell’imprescindibile necessità della costante pratica delle sei pāramitā.
La prima cosa che il praticante deve fare è eliminare il sé,  ma quale sé?  Il sé che è oggetto dell’attaccamento al sé.
Questo sé esiste oppure no? Grandi filosofi del passato, come Lama Tsong Khapa o Candrakīrti, dissero che se l’oggetto della negazione, il sé, non esiste, allora non vi è nulla da negare in quanto non esiste ciò che bisogna negare….
Il sé è l’origine di tutte le miserie, e allora, se esiste, come lo si può negare?  ma se non esiste non c’è niente da negare, però se esiste è impossibile negarlo.
E’ un complesso argomento filosofico, come rispondete a questi interrogativi?
Risposte: E’ un’illusione…..; Si nega soltanto l’esistenza di un io autonomo, indipendente, non si nega l’esistenza di un io interdipendente…..; Non si nega il sé, ma l’attaccamento al sé tramite la conoscenza effettiva del sé…..; Ma il sé esiste o non esiste?....; Convenzionalmente esiste……; Se non esiste l’illuminazione è istantanea……; Bisogna riconoscerlo, lasciarlo andare……
Lama: Esiste o non esiste? se non esiste non c’è nulla da riconoscere, se esiste, invece?
Risposta: Tu hai detto la prima cosa che deve fare il praticante è l’eliminazione del sé! 
Lama: Si questa è un’affermazione certa, un dato di fatto, ma questo sé che è l’oggetto dell’attaccamento al sé, è semplicemente un’illusione o è un sé che esiste veramente? o non esiste? questa è la domanda. Se esiste realmente non possiamo negarlo, ma se non esiste non c’è nulla da negare. Questa è una grande questione che, già presente all’epoca di Candrakīrti, è tuttoggi attualissima.
Nei giardini dei monasteri tibetani si assisteva frequentemente a lunghi dibattiti, che potevano proseguire anche per l’intera notte, su questi temi e non era infrequente che i monaci, immersi completamente in tali riflessioni, ottenessero repentinamente realizzazioni. Per alcuni l’approfondimento dei concetti basati sulle prime cinque pāramitā diventava la principale meditazione e molti realizzarono la visione della vacuità in un istante, proprio durante il dibattito.
Un famoso yogi in una di queste discussioni filosofiche ebbe coscienza di aver perduto il sé, e gli parve di precipitare da una roccia così, istintivamente, si aggrappò ad una falda dell’abito e a quel contatto ebbe conferma di esistere. Nell’istante immediatamente precedente aveva sperimentato l’assenza del sé e aveva afferrato il vestito perché il sé smarrito è semplicemente il sé a cui siamo soliti attaccarci, mentre ciò che in realtà si perde è l’attaccamento.
Questa non è ancora la liberazione completa, ma è un pallido barlume della luce della liberazione, della vacuità, del non sé.
Abbiamo due domande a cui rispondere, il praticante deve eliminare il sé, ma quale sé?, il sé che è l’oggetto dell’attaccamento al sé? e, esiste il sé o non esiste? Se non esiste non c’è niente da negare, ma se esiste non lo si può negare.
Credo che a questo punto una pausa per il caffè possa aiutarci a chiarire le idee…

(Seconda Sessione)

Riprendiamo con la lettura degli “Otto Versi di Trasformazione della Mente” (V. Testi Annessi pag. I).

Nel Madhyamakāvatāra di Candrakīrti sono illustrate due modalità di approccio alla compassione genuina, la prima consiste nell’omaggio agli esseri senzienti soggiogati alle infinite sofferenze dell’attaccamento al sé, all’io e al mio; la seconda presenta la visione dell’impermanenza degli esseri senzienti.
Si osservano gli esseri non solo nella loro sofferenza causata dell’attaccamento al sé, all’io e al mio, ma anche in quanto impermanenti, sia a livello grossolano che a livello sottile, soggetti ad una mutazione costante e completa. Questo concetto è illustrato da Candrakīrti nella metafora in cui compara gli esseri senzienti al riflesso della luna sull’acqua increspata, in continuo movimento.
Con questa immagine la nostra compassione verso gli esseri è più profonda, non si tratta soltanto di una risposta emotiva allo stato di sofferenza, ma è un atteggiamento integrato, congiunto alla realizzazione dell’impermanenza.
C’è poi un terzo aspetto della compassione che concepisce gli esseri senzienti come vacui, privi di sé.
È necessario comunque ricordare sempre che è indispensabile percorrere tutte le tappe, sarebbe assolutamente impossibile ricercare la saggezza in modo diretto, saltando questi tre passaggi e cercando scorciatoie.
La saggezza si basa sulla compassione, poi sulla compassione unita all’impermanenza, per giungere alla compassione unita alla saggezza che contempla la vacuità degli esseri senzienti, privi di sé, non esistenti in maniera indipendente.
Realizzando che il nostro sé non esiste abbiamo contemporaneamente coscienza della non esistenza di quello altrui.
In questa comprensione la nostra compassione nella saggezza è più completa e ci porta al primo bhūmi, la prima terra del Bodhisattva.
Quando i Bodhisattva, che sono i figli dei Buddha, raggiungono il primo livello il loro cuore è completamente assorbito dalla grande compassione, dal desiderio di liberare gli altri dalla sofferenza, come descritto nella preghiera e nella dedica di Samantabhadra riproposta nel decimo capitolo del Bodhicaryāvatāra di Sāntideva.
La preghiera di Samantabhadra sul retto comportamento è stata insegnata dal Buddha in un sūtra, la regina della preghiere sulla buona condotta, ed è magnifica.
I Bodhisattva non debbono necessariamente essere dei filosofi, sono soprattutto persone che pregano notte e giorno, dedicando ogni beneficio a tutti gli esseri senzienti, il loro cuore si consuma totalmente nella grande compassione, che non è pietà, ma pienezza fondata sui tre tipi di compassione: la compassione nella motivazione; la compassione nella saggezza dell’impermanenza; la compassione nella saggezza della vacuità.
Così si diventa Bodhisattva del primo bhūmi.
Alcuni praticanti, con superficialità e faciloneria, pensano di essere Bodhisattva, ma non sanno in quale bhūmi trovare collocazione, probabilmente in nessuno dei dieci, non bisogna infatti confondere il titolo di Bodhisattva con la loro reale essenza.
Ritorniamo all’argomento di questa mattina. Stabilito che lo yogi deve negare innanzitutto il sé, il sé che è l’oggetto dell’attaccamento al sé, resta la domanda circa l’esistenza o meno di questo sé, perché se esiste non lo si può negare e se non esiste non vi è nulla da negare.
Le negazioni sono due, perché se ci limitassimo ad osservarne una sola rimarremmo nella confusione, vi è la negazione del sé esistente e la negazione del sé non esistente.
C’è dunque una negazione esistente e una negazione non esistente, la negazione riguardante il sé, che è l’oggetto dell’attaccamento al sé, è non esistente, mentre è esistente la visione errata, che concepisce il sé come se esistesse realmente.
Se osservando noi stessi in profondità riusciamo a negare questo concetto sbagliato giungiamo all’eliminazione del sé che, seppur non esistente, ci è di pesante disturbo perché permane nella visione errata che lo concepisce come esistente.
Per eliminare il sé non è necessario contrapporsi forzatamente ad esso, basta semplicemente percepirlo con precisione nella sua realtà di apparenza e non esistenza.
Nel momento in cui rivolgiamo lo sguardo al sé non lo troviamo, ma nell’istante in cui distogliamo l’attenzione ecco che immediatamente si impone, questo è il nostro problema, ci circondiamo di molte protezioni esteriori, ma il vero ladro è già all’interno, e fino a quando non lo scacceremo definitivamente non saremo mai realmente protetti.
Quando avvertiamo un freddo interiore dobbiamo controllare da dove proviene e domandarci quale io, e perché, lo sente, e come riscaldarlo. Non si tratta del freddo avvertito dal corpo fisico, ma di quello più sottile, profondo, ed è una buona occasione per analizzare, cercare l’io, possiamo coprire il nostro corpo, ma non siamo in grado di coprire questo io che non esiste.
Quando formuliamo il pensiero, “io ho freddo”, la nostra affermazione è sbagliata perché se trovassimo il vero io questo non proverebbe freddo.
Il Buddha nella sua ricerca un giorno seppe di aver trovato qualcosa di molto sottile e prezioso che però non sarebbe stato così facilmente comprensibile agli altri e per questo preferì rimanere in silenzio. I suoi compagni lo osservavano sconcertati e cominciarono a tempestarlo di domande: “perché sei cambiato? cosa è successo?”  allora il Buddha, dopo una meditazione di quarantanove giorni, offrì loro la spiegazione delle Quattro Nobili Verità.
Oggi invece, se qualcuno pensasse di aver raggiunto degli ottenimenti, forse l’illuminazione, darebbe fiato alle trombe, apparirebbe in ogni programma televisivo, vorrebbe la massima pubblicità.
Le realizzazioni nella pratica del Dharma si presentano nel giusto momento, dipendono dal karma maturato nell’accumulazione dei meriti. Il karma fa parte della natura interdipendente, per questo i tibetani sono attentissimi nel compiere atti dedicati al buon auspicio del karma. Ogni fenomeno è interdipendente e quelli di buon auspicio sono particolarmente importanti, perché producono accumulazione di meriti e dunque buon karma.
Adesso leggeremo il Sūtra del Cuore riflettendo e meditando sulla connessione di questo testo con le domande relative alle due negazioni, in quanto l’unico modo di eliminare il sé è essere in grado di vederlo chiaramente.
La negazione del sé, della visione errata, non si fonda su nessuna teoria filosofica, è semplicemente basata sul modo naturale, spontaneo, di percepire il sé e leggiamo il Sūtra del Cuore cogliendone in ogni riga la connessione. (V. Testi annessi pag. II).

Segue lettura

Quando un individuo raggiunge il primo bhūmi significa che ha realizzato il vero lignaggio di Buddha.
Tutti gli esseri posseggono il lignaggio di Buddha, o, se preferite un termine più familiare, la natura di Buddha, ma fino a quando non si eliminerà il sé, il sé che è l’oggetto dell’attaccamento al sé, il sé della negazione, la natura di Buddha rimarrà oscurata, non si renderà manifesta, non sarà attiva.
Colui che ha raggiunto il primo bhūmi del Bodhisattva ha anche eliminato i tre principali ostacoli, causa di attaccamento al samsāra, alla liberazione.
Il primo ostacolo è l’attaccamento al sé costruito su speculazioni mentali, perché noi concepiamo questo sé sia spontaneamente, istintivamente, e ciò avviene a un livello più sottile, che tramite un’elaborazione intellettuale, teorica.
La seconda causa che ci incatena al samsāra è una moralità scorretta che induce ad una pratica errata.
Il terzo ostacolo è il dubbio connesso alle illusioni mentali.
Il primo ostacolo non ci permette di procedere verso l’illuminazione, di raggiungere la liberazione, il secondo ostacolo ci fa sbagliare strada e, infine, il terzo ostacolo, anche se siamo incamminati sul giusto sentiero, insinua incertezze, non sappiamo più se stiamo procedendo correttamente.
Questi tre ostacoli ci bloccano nel samsāra e soltanto raggiungendo il primo bhūmi ne saremo liberati, con il vantaggio di non correre più il rischio di rinascere nei regni inferiori. Inoltre, da questo momento, non ricadremo nei livelli ordinari, ma avanzeremo progressivamente.
Questi sono i benefici della realizzazione della vacuità.
Il primo bhūmi dei Bodhisattva a quale dei cinque sentieri appartiene?
Nel Mahāyāna ci sono cinque sentieri: 
il sentiero dell’accumulazione;
il sentiero della preparazione;
il sentiero della visione
il sentiero della meditazione, o familiarizzazione;
il sentiero della cessazione dell’apprendimento, o illuminazione.
Dunque, a quale di questi sentieri appartiene il primo bhūmi?
Risposta: Al terzo…. 
Lama: Perché?
Risposta: Perché si è realizzata la visione della vacuità. 
Molto bene, bravo, il primo bhūmi appartiene a due sentieri, della visione e della familiarizzazione.
Nel mantra del Sūtra del Cuore: “Tadyatha Om Gate Gate Paragate Parasamgate Bodhi Svahail primo Gate corrisponde al sentiero dell’accumulazione, il secondo Gate a quello della preparazione, Paragate al sentiero della visione, Parasamgate alla meditazione-o familiarizzazione, e infine l’ultimo al sentiero dell’illuminazione.
Sul sentiero dell’accumulazione c’è la possibilità di vedere, o non vedere, la vacuità e si accumulano meriti tramite la pratica della generosità, della moralità e della pazienza; con la percezione della vacuità, non a livello intuitivo, si è nel sentiero della preparazione; mentre, nella visione della vacuità ad un livello intuitivo si raggiunge il terzo sentiero.
E’ possibile entrare nel primo sentiero del Bodhisattva avendo sviluppato pienamente la Bodhicitta nei tre tipi di compassione.
Questi sono i livelli della realizzazione da costruire interiormente, sulla base dei cinque sentieri Mahāyāna e dei dieci bhūmi, ed è sufficiente assimilare il significato del mantra: “Tadyatha Om Gate Gate Paragate Parasamgate Bodhi Svaha”, per conoscere l’intero insegnamento Lam Rim.
Om raffigura la natura di Buddha, l’identità fondamentale della nostra natura con quella del Buddha, è il simbolo della purezza di corpo, parola e mente. Pronunciando Om riconosciamo in noi i semi che ci permetteranno di raggiungere le stesse realizzazioni del Buddha. Il nostro corpo, la nostra parola, la nostra mente posseggono tutti gli elementi per realizzare le stesse qualità del Buddha, solamente mancano i cinque sentieri che quindi bisogna intraprendere: Gate prima tappa, Gate seconda tappa, Paragate terza tappa, Parasamgate quarta tappa, Bodhi ultima tappa. Svaha significa stabilizzare il livello ultimo della Bodhi avendo purificato completamente corpo, parola e mente.
Per questo nella tradizione del Dharma eterno, del Buddha primordiale, è fondamentale la sillaba OM, non si deve tentare di avere visioni esterne del Buddha o delle divinità, bensì rivolgere lo sguardo alla propria interiorità, saper vedere in se stessi le potenzialità dei Buddha e avanzare con gioia e sicurezza nei cinque sentieri. 
Dobbiamo cercare consapevolmente l’autentico sé, perché se ci facciamo abbagliare dalla sua apparenza ci trascinerà dove vuole, in situazioni terribili. Quando l’io illusorio tenta di imporsi dobbiamo affrontarlo e chiedergli “chi sei?” “ che cosa vuoi?” “lasciami in pace, smetti di essere causa di sofferenza e problemi”.
Così praticavano gli antichi maestri Kadampa, consapevoli che se l’io restava calmo anche loro lo sarebbero stati, se invece si fosse infuriato questa rabbia li avrebbe travolti, non accusavano altri né puntavano il dito contro se stessi, ma riconoscevano la vera origine di ogni sofferenza in questo fantomatico io.
Solamente seguendo l’esempio dei saggi maestri Kadampa potremo cambiare la nostra consueta visione del sé.
Le persone che affermano: “nel buddhismo non c’è il sé, non c’è l’io”, anche se pensano di conoscere tutto, in realtà non hanno compreso nulla.
Commento: Veramente, neanche noi abbiamo capito molto!…..
Lama: Molto bene! vuol dire che state cominciando a capire davvero.

Dedichiamo dunque l’accumulazione di meriti maturati oggi a tutti gli esseri senzienti, per benefici a breve e a lungo termine e leggiamo la preghiera di dedica del Lam Rim, (V. Testi Annessi pag. IV).





Meditazione e insegnamento del Dharma

(Prima Sessione)

Nella meditazione dobbiamo calmare la mente, respirare profondamente e coscientemente per aprire un chiaro canale centrale di consapevolezza, rinfreschiamo tutti i nostri sensi purificandoli in modo che recepiscano solo cose positive e si trasformino in un filtro che rigetta automaticamente tutto ciò che è negativo, non virtuoso.
Attraverso i sensi riceviamo tutte le buone realtà spirituali che penetrano in noi attraverso canale centrale nella consapevolezza dissolvendosi nella mente-cuore che diviene così totalmente pura e positiva.
In questo modo si crea in noi l’altruismo da cui sorgono l’amore e la compassione che ci spingono ad offrire completamente noi stessi, il corpo, la mente, la parola e tutte le azioni virtuose dei tre tempi, passato, presente e futuro, per il beneficio di tutti gli esseri senzienti.
Siamo qui per praticare il Dharma nella meditazione al fine di raggiungere l’illuminazione quanto prima possibile e non soltanto per noi stessi, ma per il bene di tutti gli esseri senzienti, per essere così in grado di condurli all’illuminazione.
Dobbiamo sviluppare un cuore puro, coscienti che è un nostro preciso dovere raggiungere l’illuminazione in modo da potervi accompagnare gli altri, è una precisa responsabilità personale che non può essere delegata a nessuno, ognuno deve impegnarsi seriamente nell’adempimento di questo compito tramite la pratica della meditazione e del Dharma con l’indescrivibile gioia di avere l’opportunità di servire tutti gli esseri senzienti.
Avendo riportato alla mente lo sviluppo dell’altruismo leggeremo ora lentamente e con ponderazione gli “Otto Versi di Trasformazione della Mente” (V. Testi Annessi pag. I)

Segue lettura

Dovremmo dunque cercare di sviluppare una motivazione quanto più pura possibile, volta all’altruismo e all’abbandono dell’attaccamento al sé, spesso invece durante la pratica siamo tesi, scontenti e ciò significa che ci stiamo preoccupando per noi stessi, per la nostra felicità o sofferenza, impantanati in una macroscopica contraddizione, perché la pratica del Dharma è rivolta alla ricerca del bene altrui e non alla cura egoistica dei propri interessi. Questo conflitto crea in noi tensione, dolore.
Abbandonare l’attaccamento al sé, anche momentaneamente e per breve tempo, dà una stupenda sensazione di libertà e malgrado ciò possa verificarsi solo a livello superficiale in quanto la nostra stessa pratica è superficiale, usufruiremo comunque del beneficio di una liberazione superficiale.
Anche la pratica superficiale è importante, soprattutto all’inizio, perché costituisce un passaggio obbligato verso una più autentica. Spesso ci domandiamo che senso abbia fermarsi un’ora nel tentativo di diventare dei Buddha, dei Bodhisattva, considerando che nella vita ordinaria abbiamo atteggiamenti ben diversi, ma questa sfiducia è insensata perché assumere, seppur per pochissimo tempo, l’attitudine di Buddha e di Bodhisattva costituisce una grande accumulazione di meriti e di azioni virtuose. Già solo sul piano psicologico emergono evidenti benefici nell’equilibrio delle emozioni. Generalmente invece vediamo una sola faccia della medaglia e ignoriamo completamente l’altra provocando così uno squilibrio emotivo che è causa di sofferenza.
Questa pratica riporta ad una fondamentale condizione di equilibrio che permette di procedere sicuri nel cammino. Ad esempio sull’Himalaya per i trasporti si utilizzano animali da carico, ma è necessario essere attenti nel sistemare esattamente lo stesso peso da entrambi i lati del dorso altrimenti non saranno in grado di avanzare.
Noi su questo pianeta siamo come quegli animali e portiamo carichi pesanti, che lo vogliamo o no, in quanto la sofferenza è parte naturale della vita e l’unica cosa che possiamo fare per attenuarne gli effetti è essere in grado di gestirla con l’equilibrio, prerogativa dell’essere umano, non siamo animali, possediamo la capacità di praticare il Dharma e di liberarci dal giogo che ci limita e opprime.
Dobbiamo avere consapevolezza della preziosità della forma umana dotata di qualità uniche che devono essere utilizzate pienamente, senza sprechi. E’ importantissimo vigilare costantemente e riflettere sulle capacità che stiamo usando e su quelle che invece ignoriamo, perché proprio queste qualità definiscono la nostra umanità e imprimono senso all’esistenza o, se negate, lo vanificano.
Il solo possesso della condizione umana non è sufficiente a infondere significato alla vita, il vero senso di esseri umani è inciso dall’uso compiuto delle capacità straordinarie che ci rendono completamente soddisfatti e felici.
A questo punto sorge spontanea la domanda: “che cos’è la felicità?” la risposta può nascere soltanto in ognuno, personalmente, io posso solo darvi dei consigli.
Lama: Dunque, che cos’è la felicità?
Risposte: Rimanere sempre sereni in qualsiasi circostanza della vita, sia bella che brutta, senza esaltarci né deprimerci…; 
ricordo una frase già ripresa altre volte, dimorare in uno stato di soddisfazione, comprendere ciò che è necessario e ciò che non lo è, accettando la sofferenza inevitabile...;
la felicità è qualcosa che si acquisisce con il tempo, con la pratica, a differenza del piacere che invece è assolutamente effimero, senza basi…;
è accontentarsi…;
è la pace…;
è prendere le cose positivamente…;
è saper sorridere…;
è essere in armonia con se stessi e con gli altri…;
è realizzare la propria natura…;
non pensare di aver sempre bisogno di qualcosa in più…;
saper cogliere, comprendendolo nel preciso momento, un attimo della propria vita…;
è qualcosa che comprendi solo quando ti succede qualcosa di doloroso…;
è il giusto rapporto tra equilibrio, logica ed energia…;
io penso che sia non interrogarsi sulla felicità…
Lama: Nel Ratnāvalī, La Preziosa Ghirlanda, Nāgārjuna dice che tutta la felicità del mondo proviene dall’altruismo, ovvero dal desiderare la felicità altrui, mentre tutta la sofferenza è il frutto dell’attaccamento al sé, ovvero del volere la felicità per sé stessi.
Nel buddhismo si parla della saggezza che realizza la realtà ultima dei fenomeni e della compassione, termine che il linguaggio occidentale traduce con amore, nel compimento di queste due qualità si ottiene la felicità.
L’amore e la compassione si realizzano nella scoperta in modo indiretto della propria vera natura, perché concentrarsi direttamente sulla propria sofferenza o felicità è già di per sé sofferenza, mentre porre ogni attenzione sulla felicità o infelicità altrui apre il cuore a un’attitudine che si trasforma automaticamente in felicità per sé stessi.
La percezione del sé autentico è la saggezza che realizza la realtà ultima dei fenomeni, poiché se osserviamo attentamente noi stessi vediamo qualcosa di diverso da ciò che pensavamo di essere, così nell’esplorare la propria reale essenza, la prospettiva muta completamente.
L’aspetto della saggezza è difficile da capire, richiede una maggiore conoscenza intellettuale, che pure è certamente necessaria per la comprensione dell’amore e della compassione, ma meno impegnativa; ambedue gli aspetti sono complementari ed è indispensabile raggiungere la perfezione in entrambi, è impossibile separarli, la compassione e la saggezza sono comparate alle ali di un uccello, possederle significa essere nella felicità genuina.
La felicità è liberazione dalla schiavitù dell’attaccamento al sé corrisponde allo sviluppo di qualità interiori, spirituali, e dunque procede gradualmente, non la si può ottenere istantaneamente tramite la magia o la chirurgia plastica.
La sua edificazione dipende anche dalle differenze individuali risultanti dal diverso passato. Coloro che precedentemente hanno praticato costantemente avranno una più rapida manifestazione della felicità, mentre coloro che non hanno accumulato tale esperienza dovranno sforzarsi maggiormente e impiegheranno più tempo ad ottenerla.
Ognuno deve essere in grado di conoscere le proprie capacità, le qualità spirituali interiori e procedere di conseguenza.
Questa è la felicità da un punto di vista dharmico ed ha un significato molto profondo, la pratica del Dharma non è facile, è quanto di più difficile possiamo fare su questo pianeta.
Vi leggo alcuni versi dalla “Lettera ad un Amico” di Nāgārjuna:
Così come spegneresti subito un fuoco che improvvisamente si sprigiona dai tuoi vestiti o dalla testa, sforzati allo stesso modo nel porre fine alla rinascita tramite la rinuncia alle azioni: non c’è altro scopo più eccellente di questo.
Nāgārjuna è molto saggio nel suggerire di cercare all'istante la soluzione al problema, senza lasciarsi divorare dalle fiamme interiori e fronteggiare invece immediatamente la questione così da costruire buone basi per gli sviluppi successivi.
Questo è un consiglio generale, però entrando nel particolare, ci suggerisce di potenziare senza indugio la rinuncia, unico modo per contrapporsi alle schiaccianti sofferenze del samsāra, per poter troncare il ciclo ininterrotto delle rinascite, e nel verso successivo spiega il metodo per la sua realizzazione:
Attraverso la moralità, la saggezza e la concentrazione otterrai il pacificato, controllato e incontaminato stato del nirvāna che è eterno, immortale, inesauribile e privo di terra, acqua, fuoco, aria, sole e luna.
La rinuncia non è semplicemente aspirare al nirvāna per abbandonare o sfuggire il samsāra, ma è desiderare il nirvāna tramite la pratica dei tre addestramenti superiori, confrontandosi con la realtà, è un mezzo per interrompere il ciclo delle rinascite.
C’è molto su cui riflettere, facciamo dunque una breve pausa e nella prossima sessione seguiremo nell’approfondimento di alcuni passaggi di questo testo.


(Seconda Sessione)

Riprendiamo la “Lettera ad un Amico” di Nāgārjuna, nel verso seguente indica le cause che conducono al nirvāna; la suddivisione in sette rami segue il metodo classico:
I sette rami dell’illuminazione: consapevolezza, discriminazione dei fenomeni, sforzo, gioia, purificazione, concentrazione e predisposizioni, sono la raccolta delle virtù: la causa per ottenere il nirvāna.
La dicitura “raccolta delle virtù” può anche essere espressa con “consapevolezza delle Quattro Nobili Verità”, perché ogni passaggio vi è strettamente collegato; la discriminazione dei fenomeni riguarda la saggezza che li realizza; lo sforzo è la perseveranza entusiastica che deve essere applicata a tutte le quattro nobili verità, sia alle due che debbono essere abbandonate: le verità della sofferenza e della causa della sofferenza, che alle due che devono essere realizzate: le verità della cessazione della sofferenza e del sentiero che porta all’illuminazione; la gioia è il risultato della felicità mentale, ma ne è diversa, è la sensazione permanente che si sperimenta nella pace e tranquillità.
La gioia è il risultato delle qualità precedenti, la consapevolezza, la saggezza e lo sforzo che, insieme, creano la felicità mentale da cui sorge appunto l’esperienza della gioia, ed è particolarmente interessante sottolineare che, se la pratica del Dharma dona naturalmente la felicità, il livello della gioia va oltre, non si tratta di attivare meccanicamente qualcosa, ma semplicemente di godere dei frutti del proprio operato.
Metaforicamente si può comparare questo fenomeno con l’azione di nutrirsi, nel momento in cui si gusta il cibo si compie un atto meccanico, ma nella fase successiva in cui si è sazi, si riposa nella soddisfazione. Quindi durante la pratica si raggiunge la felicità, e in questo stato non è più necessaria alcuna attività, né sforzo, si è naturalmente nella pacificazione duratura.
Durante la meditazione si sta praticando e si assapora la felicità, ma anche nella fase successiva, quando la meditazione cessa, si sperimenta quello stato di gioia saldo che ci è di aiuto in ogni circostanza della vita.
La felicità dunque è la sensazione che si avverte durante la pratica in quanto in quel momento non c’è sofferenza, e il suo risultato è la gioia, che non è un’alternativa alla felicità, ma ne è conseguenza in grado di trasformare ogni istante vitale nello spirito del Dharma. Se la gioia finisce significa che bisogna ricominciare la pratica.
Quindi ogni volta che pratichiamo produrremo una gioia sempre più intensa che trasformerà tutte le situazioni in positive, questo è il suo segreto.
Il termine tibetano per indicare la purificazione potrebbe essere tradotto con perfezione mentale e fisica, infatti nella fase iniziale della meditazione si possono ancora avvertire dolori di vario tipo e comunque ci si deve sforzare, ma addentrandosi nella propria mente la concentrazione si fa più profonda, si diventa più flessibili e si manifesta la gioia.
La flessibilità mentale e fisica fa sì che durante la meditazione il corpo e la mente rimangano concentrati senza sforzo anche per lungo tempo.
Alla concentrazione sul singolo punto segue il settimo ramo, quello dell’equanimità, la predisposizione alla via di mezzo tra ottusità mentale ed eccitazione. Questo infatti è un ostacolo sempre presente nella meditazione, momento in cui la mente è affollata da pensieri che la agitano, oppure un torpore sonnolento la obnubila completamente, stare al centro tra questi due estremi significa essere nell’equanimità.
I sette rami per raggiungere l’illuminazione sono causa del nirvāna.
La consapevolezza, il primo ramo, è il luogo in cui risiede la saggezza; la saggezza che realizza l’assenza di sé, il secondo ramo, è la natura del nirvāna; lo sforzo o perseveranza entusiastica, il terzo ramo, è il mezzo con cui si abbandona il samsāra per procedere verso il nirvāna; la gioia, il quarto ramo, è il risultato dell’illuminazione; mentre gli altri tre rami: la flessibilità mentale e fisica o purificazione, la concentrazione e l’equanimità o predisposizione sono uno stato libero da tutte le illusioni perché, seppur solo a livello momentaneo e superficiale, nella meditazione concentrata ed equanime siamo totalmente liberi dalle illusioni mentali.
Queste sette pratiche, riconosciute come classiche e diffusissime, sono le cause per ottenere l’illuminazione.
Ora leggiamo il verso successivo riferito all’unione della pratica della saggezza e della concentrazione:
Senza saggezza non c’è concentrazione e, ancora, senza concentrazione non c’è saggezza, ma per chi le possiede, l’oceano dell’esistenza diventa come l’acqua nell’impronta dello zoccolo di un bue.
Per coloro che posseggono la saggezza e la concentrazione tutto l’oceano del samsāra è piccolo come una coppa d’acqua e quindi non incute paura, non c’è nulla da temere, lo possiamo controllare.
Tra i maestri indiani Nāgārjuna è stato riconosciuto come il secondo Buddha, è un grandissimo filosofo e noi dovremmo essere orgogliosi e grati per questa possibilità di apprendere il suo pensiero, che trascende persino il buddhismo in senso stretto.
Domanda: In che secolo visse Nāgārjuna?
Lama: Non è chiaro, pare sia nato alla fine del primo secolo dopo il Buddha Sākyamuni e sia vissuto per seicento anni…
Nāgārjuna è stato un magnifico interprete degli insegnamenti del Buddha, articolati in moltissimi discorsi, perché li ha presentati con estrema chiarezza, secondo una sistematicità logica che permette un accessibile approccio a chiunque. Senza questa raccolta ordinata ognuno potrebbe ricordarne solo una parte, ma non saprebbe collocarli correttamente nel contesto generale e non potrebbe averne una conoscenza completa.
Nāgārjuna riassume con grande chiarezza tutti gli insegnamenti del Buddha esponendone i principi essenziali, egli è il fautore della filosofia della via di mezzo, era un vero genio.
I discorsi del Buddha Sākyamuni sono raccolti in molti volumi, ma Nāgārjuna li ha riassunti tutti in un concetto fondamentale: “la Via di Mezzo”.
La compassione è la via di mezzo, la saggezza è la via di mezzo, la bodhicitta è la via di mezzo, nessuna cosa non è la via di mezzo, la perfezione stessa è la via di mezzo.
Dovremmo essere immensamente felici e grati di poter accedere all’insegnamento di un così grande maestro.
La saggezza senza la concentrazione è vana e non porta al nirvāna e, altrettanto, la concentrazione priva della saggezza non può condurre al nirvāna, la loro unione è inscindibile, per questo nelle raffigurazioni buddiste la saggezza è rappresentata come una spada, non certamente intesa come strumento di offesa, ma come elemento di eliminazione dell’ignoranza, della propria ignoranza fondamentale.
Il solo possesso della spada però non può tagliare l’ignoranza, perché è necessario possedere anche la giusta concentrazione che guidi la mano e permetta di colpire con precisione l’oggetto, le due qualità sono inseparabili.
La meditazione, avulsa da saggezza e concentrazione congiunte, non scioglie il nodo della sofferenza.
Concludiamo per oggi, ma vi invito a leggere ripetutamente la “Lettera ad un Amico”, perché ogni volta acquisirete nuove perle di saggezza, è come dissetarsi con l’acqua fresca di un pozzo, più la si studia più si scoprono cose da studiare.
Domanda: Quando si inizia a praticare, anche se in verità io lo faccio poco, ci si accorge di essere più coscienti dei pensieri che agitano la mente, però è molto difficile andare al di là di questo, è veramente arduo tranquillizzare la mente, quale metodo posso utilizzare?
Lama: La compassione è il metodo per ogni cosa, pensare al modo di comprendere, di eliminare le sofferenze degli altri, dell’universo; trovare quella forza interiore, la calma che ci consenta di affrontare questo dolore, perché nella pace tutto è risolvibile. Si ottiene la calma solo nella pratica dell’amore e della compassione che sono il metodo per fronteggiare positivamente qualsiasi problema e raggiungere l’illuminazione. Questo è il grande messaggio di tutti i maestri del passato, non ci può essere errore, solamente dobbiamo avere fede. La fede unita alla comprensione diventa una forza che ottiene la saggezza. La fede non è concentrarsi sui propri problemi chiedendo l’aiuto divino per risolverli, questa è un’attitudine miserevole.
Domanda: Spesso siamo severi con noi stessi, non ci accettiamo, non ci piacciamo, ci disprezziamo, anche in questo caso la compassione verso noi stessi è la risposta?
Lama: Sicuro, ma la compassione non può essere applicata a se stessi in senso stretto, perché è sempre inesorabilmente rivolta agli altri, ma questo stesso senso giudizio di cui parli è segno di una mancanza di compassione, indica che siamo concentrati su di noi e non sulle sofferenze degli altri. Nella compassione è impossibile avere disprezzo e non accettazione di se stessi.
Grazie, concludiamo dedicando l’accumulazione dei meriti di questa pratica a beneficio di tutti gli esseri senzienti, affinché sia causa di illuminazione nella consapevolezza, nella saggezza, nella perseveranza entusiastica, nella gioia, nella purificazione, nella concentrazione e nell’equanimità.







Origine interdipendente nel Su Hri Da Le Kha 

(Prima Sessione)

Benvenuti, soprattutto ai sono nuovi amici, siamo a Roma, una magnifica città, il tempo è gradevole ed è domenica, un giorno speciale, sacro, adatto alla meditazione. Una giornata trascorsa nell’intensa pratica del Dharma è particolarmente significativa perché i consueti atteggiamenti si trasformano radicalmente.
In genere, non intenzionalmente ma naturalmente, nello scorrere della vita ordinaria tendiamo a mettere sempre noi stessi al primo posto, tutto il resto è secondario, non ce ne rendiamo neppure conto perché è un’abitudine ormai consolidata, al contrario la motivazione dharmica comporta, senza eccezione, la consapevolezza di una condizione profondamente diversa da quella ordinaria.
Se durante la meditazione osserviamo con presenza mentale il nostro abituale atteggiamento interiore scopriamo che siamo inesorabilmente al centro di tutto, in un atteggiamento profondamente sbagliato, dovremmo dunque interrogarci sulla natura di questa visione distorta e constatare che essa sorge spontaneamente in ogni nostro atto proprio a causa della mancanza di consapevolezza e di presenza mentale.
L’attitudine dharmica implica che ci rapportiamo a ogni realtà con consapevolezza e presenza mentale trasformando naturalmente la disposizione interiore in altruismo e in questo stesso momento cominciare a liberarci dall’attaccamento a noi stessi sperimentando quell’enorme sollievo che è la rinuncia.
Possiamo utilizzare più termini, rinuncia, altruismo, in realtà si tratta sempre di un’unica cosa: l’abbandono dell’attaccamento al sé, un evento fondamentale, che non significa ignorare le proprie necessità, se stessi, al contrario è il miglior modo per prendersi cura di sé.
Ad esempio, se un genitore amorevole e pieno delle migliori intenzioni, soggiogasse completamente il proprio figlio in un inscindibile legame non farebbe assolutamente il suo bene ma gli creerebbe infiniti problemi. Il modo ottimale di amare questo bambino è offrirgli la sua indipendenza, la sua libertà, anche nel dolore del distacco, comunque positivo sotto tutti i punti di vista.
All’età di tredici anni ho lasciato il mio piccolo villaggio in Nepal per andare a studiare nel monastero di Gaden nel sud dell’India, distante cinque giorni di viaggio e il primo periodo di lontananza dalla mia famiglia, è durato fino ai diciassette anni, è indubbiamente stato molto doloroso sia per i miei genitori che per me, ma al contempo ci ha stimolati, arricchiti di esperienza; se i miei genitori non avessero avuto il coraggio di lasciarmi andare così lontano non avrei potuto ricevere un’educazione completa, quindi lasciandomi libero hanno avuto una particolare amorevole cura per me.
Le condizioni di allora erano ben più dure di quelle attuali in cui tutti i bambini posseggono cellulare e computer e comunicano quotidianamente con le loro famiglie, noi potevamo solo scrivere lettere che impiegavano almeno due o tre mesi per giungere a destinazione, ma è stata un’esperienza fortemente positiva che ha aiutato nella crescita e nello sviluppo delle capacità personali e familiari.
Queste considerazioni inducono a riflettere sulla necessità di operare lo stesso distacco nei confronti dell’io a cui siamo aggrappati con tutte le forze, non riusciamo a prendere le dovute distanze e a scioglierci dal suo giogo, ecco la fonte di tutti i problemi e le confusioni esistenziali.
Anche l’attaccamento possessivo a Dio o al Buddha è negativo, però l’attaccamento al sé è veramente devastante.
La radice del Dharma consiste nel trasformare questo atteggiamento distruttivo in un’attitudine positiva che favorisca il distacco da sé stessi.
Un ulteriore livello di liberazione dall’attaccamento all’io è connesso alla realtà ultima del sé, dell’esistenza del sé, perché aggrappandoci al sé siamo assolutamente incapaci di conoscerlo, non lo vediamo, ecco il grande problema. Volendo usare una diciamo che per poter leggere un libro, è necessario tenerlo alla giusta distanza, se invece lo afferriamo con bramosia incollandolo al naso non riusciamo a vedere nulla.
L’attaccamento fuorvia, impedisce la visione, è basato sull’ignoranza, sulla mente oscurata, che impedisce di mantenere la giusta distanza tra soggetto e oggetto che, così afferrato, non è più visibile, e se non vediamo il sé come possiamo prenderci cura di noi stessi? Essendo completamente ciechi è inevitabile sbagliare, inciampare, cadere.
Inoltre questo sé a cui ci inchiodiamo non è realmente esistente, siamo attaccati a un sé che non è il nostro vero sé, affermiamo l’immagine illusoria del sé, ma la realtà è altrove, confondiamo il riflesso con la realtà.
E’ dunque necessario ribaltare completamente la consueta concezione, abbandonare ogni insensato attaccamento, altrimenti faremo disastri ottenendo l’esatto contrario delle nostre aspirazioni: desideriamo felicità e troveremo sofferenza, vorremmo allontanarci dalla sofferenza e invece le stiamo correndo incontro.
Questo aspetto è stato evidenziato da tutti i maestri del passato, senza distinzione di scuole e di percorsi.
Oggi possiamo considerarci molto fortunati perché viviamo a Roma, una delle città più belle al mondo, la giornata è magnifica, abbiamo ogni bene e non ci manca nulla, ma altrettanto siamo sfortunati perché non possediamo la saggezza, non abbiamo la capacità di vedere la realtà nella sua essenza e soccombiamo alle attività quotidiane a cui sacrifichiamo tutto.
I paesi occidentali sono i più sviluppati nel mondo, e sarebbe bello potervi realizzare la combinazione dell’antica saggezza con il benessere della modernità, così da diventare una società super civilizzata, il miglior sistema di vita.
La saggezza non muta nel tempo, è eterna, il termine indù, sanatanadharma, la definisce come verità che dura per sempre; il mondo, le civiltà cambiano, non la saggezza. Indipendentemente da ogni possibile evento mondiale, non muta la possibilità di permanere stabili nella saggezza.
La saggezza è i nostri occhi perché nella cecità non sarebbe possibile intraprendere alcun viaggio spirituale.
L’attitudine altruistica è il metodo per ottenere la saggezza poiché, se anche possedessimo la vista ma non le gambe, non potremmo ugualmente marciare sul sentiero.
La saggezza e l’attitudine altruistica sono due aspetti complementari, inscindibili, diversi, ma parte della stessa realizzazione.
Dobbiamo sviluppare l’attitudine altruistica, il metodo per aprire il cuore, e ciò dipende dalla saggezza che elimina le oscurità della mente, ma non si ottiene saggezza senza attitudine altruistica.
L’altruismo è simile alla luna, nella prima fase è invisibile, poi cresce giorno dopo giorno sino a splendere nella sua pienezza, questa evoluzione è il risultato della saggezza.
L’altruismo si espande grazie alla saggezza, ma la saggezza può ampliarsi solo grazie all’altruismo, devono dunque camminare di pari passo, sono inseparabili e il loro sviluppo dipende dal perfetto equilibrio della loro complementarietà.
Ciò avviene in noi a condizione che non ci sia attaccamento al sé, perché possiamo anche aspirare alle realizzazioni più elevate, desiderare di diventare Buddha, ma se siamo dominati dall’attaccamento è assolutamente impossibile raggiungere l’obiettivo in quanto la contraddizione è intrinseca, assoluta.
Dobbiamo distaccarci da noi stessi e per poterlo fare è necessario avere consapevolezza, presenza mentale.
Questa consapevolezza non riguarda le sensazioni superficiali, fisiche, ma scende a livello profondo, è la consapevolezza della mente, suo moto, e solo con questa capacità di osservazione siamo realmente in grado di trasformare gli atteggiamenti stratificati nella polvere della consuetudine.
La piena consapevolezza della mente è fondamentale perché ci permette di eliminare l’attaccamento al sé in un percorso graduale, lento ma sicuro.
Nel mondo moderno, dominato dalla tecnologia, siamo abituati ad operare velocemente con immediatezza, ma questa dinamica non è applicabile alla maturazione della mente, alla sua mutazione profonda.
In occidente si pubblicano libri, pienamente conformi alle leggi del mercato espressione della mentalità corrente, che propinano ricette per ottenere la realizzazione della buddhità in cinque settimane, e molti lo ritengono possibile e ci si buttano con fervore, ma poiché si tratta di impossibili fantasie, di autentica follia, passano altrettanto superficialmente e velocemente all’atteggiamento opposto, abbandonano ogni impegno e ricerca, convincendosi che tutto sia soltanto una sciocchezza.
Nelle vetrine sono esposti libri, cd, dvd, dai titoli allettanti, “Come diventare Buddha in cinque giorni”, e la gente abituata alla modalità dei computer di ultima generazione, li compra convinta che esista realmente una via facile, veloce, non rendendosi conto che si tratta di un’ulteriore e macroscopica illusione assolutamente irrealizzabile.
Per comprendere l’assurdità di questo mercato del Dharma è interessante conoscere la vita di Milarepa, il più grande yogi, meditante e mistico tibetano, non un monaco, ma un comune laico che da giovane studiò e praticò con successo la magia nera per sconfiggere i nemici che avevano causato la rovina della sua famiglia.
La storia racconta che il maestro che lo aveva introdotto nei meandri segreti della magia nera lo ammonì dicendo “io con queste azioni ho accumulato un’enorme quantità di karma negativo e ormai sono vecchio e non posso più rimediare, però anche tu che sei giovane hai accumulato molto karma negativo, ma sei ancora in tempo per purificarti, dedicati completamente, pratica e predica il Dharma, potrai così raggiungere l’illuminazione eliminando completamente il tuo karma negativo e, in questo modo anche una piccola parte del mio”.
Così Milarepa si rivolse ad un grande maestro di Dharma il quale, dopo averlo ascoltato, gli dette istruzioni precise su come meditare una notte intera in modo da raggiungere il giorno successivo l’illuminazione, lo invitò quindi a ritirarsi in una grotta e praticare secondo le modalità convenute.
Il mattino seguente il maestro si recò da Milarepa e gli chiese come fosse stata la sua meditazione notturna, ma Milarepa riconobbe di non aver avuto nessuna realizzazione.
Il maestro quindi domando: “cosa hai fatto dunque?” 
Milarepa ammise: “ero così felice per aver prima incontrato un maestro di magia nera che mi ha permesso di ottenere risultati fantastici contro i miei nemici e poi per aver incontrato un grande maestro di Dharma che mi ha dato istruzioni per raggiungere l’illuminazione in ventiquattrore, una situazione meravigliosa, ma nella mia contentezza ero così agitato che non sono riuscito a meditare.”
Allora il maestro rispose: “oh mi spiace moltissimo, evidentemente non sei il tipo di persona a cui io possa insegnare, devi andare da un altro maestro molto qualificato e adatto a te, si chiama Marpa”.
Sicuramente il legame karmico con Marpa era fortissimo perché, al solo sentire il questo nome, Milarepa esultò e si mise immediatamente in cammino.
Anche Marpa aveva sognato che Milarepa sarebbe stato il suo più grande discepolo e quindi predispose tutto per accoglierlo molto bene, anche se per molti anni lo trattò con estrema durezza, ponendogli ostacoli e difficoltà insopportabili e negandogli ogni insegnamento.
Questa era in realtà l’istruzione dharmica di cui Milarepa aveva bisogno per purificare il karma negativo prodotto nel passato e soltanto dopo aver completato questa purificazione ricevette finalmente da Marpa tutte le conoscenze e infine si ritirò in a meditare in una grotta fino all’ottenimento dell’illuminazione.
La separazione tra Marpa e Milarepa fu pregna di sofferenza per entrambi e intensamente emozionante.
La relazione tra i due, iniziata in modo misterioso, si è conclusa nel distacco, in tutta l’umana tristezza e grande affetto, e il periodo intercorrente è stato riempito con un trattamento tremendo, dolorosissimo, da ciò possiamo dedurre che purificare la mente non sia affatto semplice e leggero.
Oggi navighiamo in internet, cerchiamo tanti centri di Dharma, valutiamo quali possano essere i maestri più famosi, quali programmi appaiano più potenti, efficaci e rapidi, esaminiamo tutto come se si trattasse di un menù, valutiamo i prezzi di ogni portata e poi scegliamo in base a costi e benefici il pacchetto che ci pare più promettente per risolvere velocemente tutti i problemi.
Dovremmo però essere in grado di distinguere il prodotto pubblicizzato dalla realtà effettiva che è tutt’altra cosa. Dovremmo sempre rammentare la storia di Milarepa; le istruzioni del primo maestro di Dharma erano vere, ma non possibili per lui, non corrispondenti alla sua capacità di ricezione.
Allo stesso modo, se crediamo nella pubblicità di un corso specialissimo che promette un metodo sicuro per raggiungere l’illuminazione in ventiquattrore e vi partecipiamo pieni di speranze, non facciamo che accrescere la confusione e gli errori, perché non siamo preparati, né così pienamente purificati da poterla realizzare.
Milarepa, un grande santo, ha dovuto dedicare completamente ogni istante della sua esistenza, per anni e anni, per purificarsi ed esaurire tutto il debito karmico e alla fine essere pronto per l’obiettivo finale. In realtà non vi era alcuna differenza tra gli insegnamenti del primo maestro di Dharma e quelli di Marpa, la vera differenza era costituita dallo stesso Milarepa.
Dobbiamo dunque essere consapevoli che la pratica del Dharma deve essere proporzionale alla nostra capacità, alla nostra raccolta di meriti. Ciò che otteniamo non dipende dalle istruzioni, bensì da noi stessi, da quanto abbiamo acquisito.
Ricordiamo che la fonte di tutti i problemi e le sofferenze è l’attaccamento al sé e soltanto iniziando a liberarcene ci accingiamo a intraprendere un viaggio verso la pace e la serenità.
Nell’incontro con il primo maestro di Dharma Milarepa era ancora attaccato al proprio sé e sprecò tutta la notte crogiolandosi nell’autocompiacimento di quanto fosse fortunato, per questo Marpa lo trattò così male, umiliandolo all’inverosimile, per aiutarlo a tagliare l’attaccamento al sé.
Alla domanda: “qual è l’uomo più coraggioso del Tibet”, la risposta univoca è: “Milarepa!”, non si cita nessun eroe, guerriero, né grande condottiero, perché l’umile Milarepa con un enorme sforzo riuscì a raggiungere l’illuminazione in una vita.
Liberiamoci dunque dall’attaccamento a noi stessi e sviluppiamo l’altruismo con la saggezza.
Solitamente quando osserviamo un oggetto si tratta di una forma tangibile e se non lo vediamo significa che non c’è, al contrario non appena rivolgiamo lo sguardo al sé, questo scompare, ma se non lo guardiamo riappare prepotentemente, questo è il segno che si tratta di un’illusione, di una visione sempre distorta, anzi si tratta di una doppia falsificazione perché è falso aggrapparsi al sé e allo stesso tempo il sé è falso.
Dov’è il vero sé allora?
Il sé non esiste in modo intrinseco, è mera imputazione, è indicazione convenzionale, non è sostanziale in noi, se così fosse sarebbe difficile da gestire, il sé esiste semplicemente come etichetta e ciò non significa che sia inesistente, perché anche il livello di etichetta è una maniera di essere però non in modo reale e autonomo come noi lo pensiamo.
Il sé esiste in modo interdipendente, tutto ciò che esiste è interdipendente e nulla può essere indipendente.
Invece noi siamo annebbiati e confusi e pensiamo che tutto esista in un sistema indipendente, ma è impossibile, è una visione falsa e illusoria perché ogni realtà è interdipendente.
Siamo fortemente attaccati al sé perché lo consideriamo un’entità autonoma, indipendente, è la grande illusione, la visione distorta su cui si fondano tutti i problemi e le sofferenze.
Riconoscere il sé nella sua natura interdipendente è il primo passo concreto per abbandonare la consueta attitudine di attaccamento e, giorno dopo giorno, conquisteremo una sempre maggior liberazione.
(Seconda Sessione)

Sulla base di quanto detto questa mattina leggeremo gli “Otto Versi di Trasformazione della Mente” (V. testo a pag. I), e subito dopo mediteremo.

(segue lettura e meditazione)

Nella mattinata abbiamo affrontato il tema dell’attaccamento al sé mostrando che ogni confusione e sofferenza vi affonda le radici in una condizione non dharmica, è invece dharmico tutto ciò che si basa su una autentica attitudine di non attaccamento all’io, sul naturale altruismo già presente in noi e mai imposto dall’esterno.
Tutto dipende da noi stessi, non dagli altri, la felicità e l’infelicità sono originate dall’atteggiamento del nostro cuore e se tentiamo di imputarne la responsabilità a fattori esterni significa che abbiamo la visione errata della realtà reputando ogni manifestazione come intrinsecamente esistente.
Leggiamo qualche brano della stupenda “Lettera ad un amico” di Nāgārjuna, cominciamo dal verso 108 in cui l’autore sprona a non perdersi in disquisizioni inutili:
Le quattordici asserzioni dichiarate dal Simile al Sole come essere inesprimibili nel mondo, non conducono alla pace della mente, per cui non speculare su di esse.
Le quattordici asserzioni non possono essere espresse e dunque è inutile fissarvi la mente perché in questo modo non giungeremo alla pace. Il termine tibetano con cui qui si definisce il Buddha sarebbe “Amico del sole”, una similitudine dovuta ad una sua precedente nascita all’interno di una foglia come verme che, grazie ai raggi del sole, ha potuto verificarsi.
Queste quattordici asserzioni riguardano la relazione tra l’io e il mondo, sono visioni neutrali, né positive né negative, e sono definite inesprimibili in quanto il Buddha, essere di intelligenza superiore, alle varie domande su questi temi non ha dato risposte.
Il primo quesito riguardava il passato, si voleva sapere se uno è eterno e l’atro no, oppure se sono entrambi eterni o non eterni, ma il Buddha rispose con un sorriso.
La seconda domanda era invece rivolta al futuro, si voleva sapere se l’io e il mondo avranno una fine, oppure se non l’avranno, oppure se né avranno una fine né non l’avranno.
La terza domanda riguardava il Tathāgata e il nirvāna, se il Tathāgata sarebbe esistito ancora dopo la sua morte, oppure no, o ancora se né continuava ad esistere né a non esistere, oppure entrambe le cose.
La quarta domanda chiedeva se l’anima intesa come io e il corpo, siano la stessa cosa oppure cose diverse e così via. Per questo le quattordici visioni non possono essere espresse, la mente non potrà mai trovare pace nella ricerca di una loro risposta e non ha senso perdersi in inutili questioni che non portano a nulla.
Sono domande fondamentalmente stupide, che senso ha chiedersi se c’è un’eternità o meno, porsi questioni su cose che non si conoscono, di cui non si ha ancora esperienza, volere una risposta ad ogni costo significa immergersi nel totale caos mentale, lontanissimo da ogni pacificazione e serenità.
Il motivo ulteriore per cui il Buddha non diede alcuna risposta deve essere letto in relazione alla persona che faceva queste domande e che credeva fortemente nell’esistenza di un io indipendente, per cui una risposta affermativa ne avrebbe rafforzato il fraintendimento, una risposta negativa lo avrebbe deluso e comunque non smosso dalla sua posizione, quindi inutile. L’autore suggerisce dunque di non speculare su questi concetti perché si otterrà solo una mente ancora più irrequieta.
Sia la risposta silenziosa del Buddha, sia il consiglio di Nāgārjuna sono il dono di persone estremamente intelligenti che ne rendono accessibile la comprensione profonda.
Nei versi successivi Nāgārjuna affronta la catena dei dodici anelli dell’origine interdipendente:
Il Saggio ha dichiarato: “Dall’ignoranza si originano le formazioni karmiche, da queste la coscienza, dalla coscienza nome e forma, e da queste le sei sorgenti e da loro il contatto.
Dal contatto si origina la sensazione, da questa la bramosia, da questa l’afferrarsi, dall’afferrarsi il divenire e da questo la nascita.
Quando c’è nascita ne derivano molte sofferenze quali: dolore, malattia, vecchiaia, frustrazione, paura della morte e così via. Mettendo fine alla nascita tutte queste cesseranno.”
Questo è il processo di generazione del samsāra e anche, viceversa, del suo disfacimento.
Osservando la generazione del samsāra fondata sull’ignoranza che produce l’azione da cui deriva la coscienza e così via si può vedere che, allo stesso modo, cessando la prima causa, l’ignoranza, non ci sarà azione e quindi nemmeno coscienza, ecc... Abbiamo dunque la visione del samsāra nel suo intero procedimento, ma anche la dimostrazione della saggezza che ci permette di porre fine a questo processo eliminando l’ignoranza e tutto ciò che ne consegue.
Che cos’è l’ignoranza?
In questo contesto si intende l’ignoranza fondamentale, la mancanza di consapevolezza, di comprensione della non esistenza inerente dell’io.
Domanda: Quando riusciamo a fermare l’ignoranza fermiamo l’intero ciclo del samsāra, però nel verso 111 si dice che essendoci nascita c’è sofferenza, quindi solo evitando la nascita evitiamo la sofferenza, ma la nascita è un ciclo naturale, come possiamo fermarla?
Lama: Eliminando l’ignoranza dal nostro continuum mentale eliminiamo la nascita, che è provocata dalla forza di tutti i passaggi samsarici, siamo finalmente liberi dal samsāra.
Domanda: forse è meglio dire rinascita….
Lama: Nei dodici anelli dell’origine interdipendente la nascita non è un elemento indipendente dalle forze del samsāra, bensì è dipendente principalmente dall’ignoranza e dall’azione, è la nascita che ci immette nella vita samsarica e quindi destinata alla sofferenza. Quando si riesce a spezzare questa catena si eliminano le cause prime, l’ignoranza e l’azione, si riesce ad avere una rinascita libera dal samsāra.
Si possono dare due letture della catena dei dodici anelli, una è relativa alla generazione del samsāra ed elenca nella loro consequenzialità tutti i fattori che la determinano; la seconda invece esamina il processo di riduzione, addirittura di interruzione del samsāra, partendo dalla cessazione dell’ignoranza e dunque di tutto ciò che consegue.
Nei dodici anelli, nucleo centrale dell’insegnamento del Buddha, è illustrato sia il sentiero del samsāra che quello della liberazione dal samsāra e, come dice il Buddha, chi è in grado di vedere la catena dei dodici anelli vede il Dharma e chi vede il Dharma vede il Buddha. Dall’ignoranza nasce l’azione, che qui è intesa con il termine tecnico di karma, laddove non c’è ignoranza non vi sono nemmeno formazioni karmiche; il karma venuto in esistenza pianta i semi nella coscienza, il terzo anello.
Domanda: Ma se è una catena io posso intervenire spezzando indifferentemente qualsiasi anello, non devo necessariamente partire dall’ignoranza….
Lama: Questa osservazione appartiene a una delle visioni inesprimibili, così sono quindici!... (risata).
Dall’ignoranza si origina la formazione karmica, l’azione che si impianta sulla coscienza, ma in quale dei dodici anelli troverà maturazione questo karma? Nel nono, quello della bramosia che induce all’afferrarsi, e su questo attaccamento si innesta il divenire che porta alla nascita.
La nostra coscienza è un campo ricoperto dai semi che abbiamo piantato, ma non tutti giungeranno a maturazione nello stesso periodo come una messe, matureranno uno per uno quando si presenteranno le condizioni adatte e ciò avviene nell’incontro con la bramosia, perché volendo afferrare qualcosa ci si attacca e questo determina inevitabilmente una rinascita.
Abbiamo livelli di cause distanti nel tempo. I primi tre livelli, o anelli, sono l’ignoranza, il karma e la coscienza e ricoprono un tempo lunghissimo, mentre le cause immediate che provocano quella determinata rinascita sono gli ultimi anelli della catena, la bramosia, l’afferrarsi e il divenire che sfocia nella rinascita. I dodici anelli sono cosi suddivisi:
I primi tre sono il risultato delle cause accumulate nelle vite precedenti e costituiscono le basi dell’esistenza:
Ignoranza;
Formazioni karmiche, (azione);
Coscienza.
I quattro successivi sono i fattori di questa esistenza, ne formano le condizioni e sono ciò che intercorre tra la nascita e la morte:
Nome e forma;
Le sei sorgenti dei sensi (vista, tatto, gusto, olfatto, udito, intelletto);
Contatto (incontro delle facoltà sei sensi con l’oggetto);
Sensazione (esperienze derivanti dal contatto).
I seguenti tre rappresentano le cause attuali per le prossime esistenze:
Bramosia o desiderio avido;
Afferrare, attaccamento;
Divenire,
Gli ultimi due sono i fattori prodotti:
Nascita o rinascita;
Vecchiaia e morte.
Quindi abbiamo in questa catena lo scorrere di tre esistenze, passato nei primi tre anelli, presente nei sette intermedi, e futuro negli ultimi due.
Come vedete ci sono più modalità di lettura della catena dei dodici anelli, si può procedere dal primo al’ultimo, o incrociarli o suddividerli per sezioni, si possono approfondire da infinite angolazioni e per questo chi vede l’origine interdipendente vede il Dharma e chi vede il Dharma vede il Buddha, non è possibile avere una chiara visione analizzando un unico aspetto.

Grazie a tutti, concludiamo con la lettura con la preghiera di dedica del Lam Rim, (V. testi annessi pag. IV).








Ottuplice Sentiero nel Su Hri Da Le Kha

(Prima Sessione)

Cominceremo il nostro incontro leggendo gli “Otto Versi di Trasformazione della Mente” (V. Testi annessi pag. I).
Segue lettura

Grazie a tutti per essere venuti a condividere con me una preziosa domenica nel Dharma.
La pratica del Dharma consiste nello sviluppare il buon cuore e la saggezza e certamente noi possediamo le basi per queste realizzazioni, ma siamo qui per approfondirle e svilupparle ulteriormente e non fomentano il nostro consueto atteggiamento egocentrico, al contrario lo riducono apportando in noi pace e tranquillità.
Non mi stanco mai di rammentare a me stesso e ai miei amici che è indispensabile essere costantemente vigili su questo punto, perché spesso accingendoci alla pratica del Dharma tendiamo a consolidare l’attitudine egocentrica assorbiti nell’illusione di essere superiori agli altri, di padroneggiare ottenimenti e capacità più elevate, ed è la principale causa del fallimento della nostra pratica.
La meditazione, il Dharma, producono calma mentale, serenità, gioia, altruismo, eppure proprio in questi momenti, se perdiamo consapevolezza e presenza mentale, l’atteggiamento egocentrico si impone in modo subdolo, ma prepotente.
Per questo è importante meditare ogni giorno sugli “Otto Versi di Trasformazione della Mente”, perché ogni pratica ha valore solo se è dedicata al benessere degli altri e non al rafforzamento del nostro già ingombrante ego.
La pratica del Dharma non è finalizzata a farci ottenere salute, mente più acuta, affermazione sociale ma, ricordando che esistono persone che vivono situazioni di grande sofferenza e privazioni, deve essere totalmente dedicata all’altrui beneficio, nel sincero auspicio della loro felicità, pace, serenità, autentica gioia.
E’ fondamentale predisporsi alla pratica del Dharma con questo atteggiamento mentale, in particolare oggi in cui celebriamo il Wesak, la ricorrenza più importante nel buddhismo tibetano. 
Oggi non è il Wesak ufficiale, bensì una particolare solennità tibetana e si dice che ogni buona azione compiuta in questa data comporti una ricompensa centomila volte superiore, è dunque un’ottima occasione da non perdere, smettiamo di concentrarci sui noi stessi, che siamo uno solo dedichiamo tutti questi meriti agli altri, che sono una moltitudine.
Oltretutto stagnando nei nostri problemi non facciamo altro che incrementarli, mentre con l’atteggiamento altruistico li riduciamo progressivamente; il Dharma è un mezzo abile e oggi nei monasteri tibetani c’è un grande fermento, la maggioranza delle persone pratica il digiuno, il problema è che, almeno a livello convenzionale, molti lo fanno per accumulare meriti per se stessi e non per il benessere altrui e questo non è bene, è soltanto l’espressione di una consuetudine sociale e non di una autentica pratica di Dharma.
La pratica del Dharma non può essere confusa con la cultura, con le usanze specifiche dei diversi popoli, è un valore universale dato a tutti equanimemente.
Esattamente, cosa significa Wesak?
Wesak è il nome del quarto mese dell’anno, periodo in cui il Buddha raggiunse l’illuminazione ed entrò nel paranirvāna. Il calendario non è preciso, per alcuni quest’anno cade a maggio, per altri a giugno. In generale il Wesak unifica in questa ricorrenza sacra la nascita, l’ottenimento dell’illuminazione, la morte e l’essenza nel paranirvāna del Buddha; nel buddhismo tibetano invece il Wesak corrisponde al giorno in cui il Buddha ha raggiunto l’illuminazione ed è entrato nel paranirvāna, mentre la sua nascita cade in altra data, ma queste differenze di interpretazione non sono rilevanti.
Quando nasciamo inizia la vita che dovrebbe essere un cammino verso l’illuminazione che ci condurrà al paranirvāna, perché l’illuminazione non è un evento che riguarda solo il Buddha, bensì tutti noi, nessuno è esentato da questo compito che porta alla conclusione di una vita proficua. Il paranirvāna si presenta nel momento in cui si lascia questo mondo avendo completato il sentiero nella totale dedizione agli altri.
Ricapitoliamo qual è dunque lo scopo dell’esistenza umana: con la nascita, tramite la pratica, si raggiunge l’illuminazione e con questo ottenimento ci si dedica totalmente ad aiutare gli altri, guidandoli, accudendoli, insegnando e soltanto dopo aver compiuto pienamente questo dovere si è pronti ad entrare nel paranirvāna.
Questo è il programma di vita per ogni essere umano, ma è particolarmente essenziale per i praticanti di Dharma.
Con la pratica si raggiunge l’illuminazione e solo allora si posseggono le necessarie capacità per aiutare sostanzialmente gli altri.
Che cos’è l’illuminazione? come raggiungerla? queste sono grandi domande.
Quando pensiamo all’illuminazione ottenuta dal Buddha crediamo che questo obiettivo sia alla nostra portata? o lo consideriamo estremamente lontano, irraggiungibile?
Il Wesak è il giorno in cui si commemora l’illuminazione del Buddha, la sua incondizionata e assoluta dedizione agli altri, si ammira la via da seguire, consapevoli che tutti possiamo e dobbiamo raggiungere quel traguardo. E’ troppo facile e vile continuare a piangere su noi stessi, sulla nostra debolezza, ignoranza e incapacità, chiedendo protezione al Buddha senza assumerci nessuna responsabilità né impegno nello sforzo del cammino.
Questa sterile autocommiserazione non è il modo adeguato per celebrare il Wesak, invece, ammirando la grandezza del Buddha e accogliendo riconoscenti il suo insegnamento dobbiamo iniziare il viaggio con entusiasmo perché non ci manca nulla per poterlo fare, Il Buddha non ha mai detto: “per voi è impossibile raggiungere l’illuminazione, io sono la sola salvezza” ma: “io sono esattamente come voi e tramite la pratica ho potuto liberarmi da ogni sofferenza, così potete fare anche voi”.
Seguire il sentiero del Buddha significa praticare il Dharma secondo le proprie capacità e condizioni; ogni essere senziente può raggiungere l’illuminazione, qualsiasi sia la sua forma, cultura, nazione, non ci sono discriminazioni e differenze di genere, di razza, di società, persino il peggiore criminale ha la possibilità di ottenere l’illuminazione tramite la pratica che può purificare le azioni più orrende, questa è la potenza del Dharma che scaturisce dalla qualità della mente capace di trasformarsi.
E’ fondamentale conoscere le qualità dello spirito e della mente e per sapere quale sia la nostra reale possibilità di ottenere l’illuminazione non è necessario fare divinazioni, rivolgerci a un guru, o agli astrologi, questo sarebbe un ennesimo errore frutto dell’ignoranza superstiziosa e non intelligente, dobbiamo invece comprendere che la nostra mente è qualcosa di misterioso, con grandi capacità, che soltanto volgendo lo sguardo attento al suo interno possiamo intendere.
Dobbiamo sviluppare la mente e il cuore abbandonando ogni atteggiamento sciocco di falsa potenza, l’illusione di essere importanti, più bravi degli altri, al contrario il Dharma è apertura nell’altruismo e nella saggezza.
Con queste considerazioni affrontiamo l’Ottuplice Nobile Sentiero secondo la “Lettera ad un Amico” di Nāgārjuna e leggiamo il verso 113:
Per ottenere la pace, pratica l’ottuplice sentiero: giusta visione, giusta condotta di vita, giusto sforzo, giusta consapevolezza, giusta concentrazione, giusta parola, giusta azione e giusto pensiero.
In questo contesto il termine “pace” descrive il nirvāna, lo stato al di là della sofferenza, al di là del samsāra, si riferisce alla feconda calma interiore ottenibile seguendo il Nobile Ottuplice Sentiero che oggi esamineremo nei suoi due livelli, nel primo affronteremo la specificità espressa nel verso 113 della Lettera ad un Amico di Nāgārjuna e nel secondo l’aspetto più generale.
Nāgārjuna, nel verso 113 si riferisce specificamente al quarto sentiero Mahāyāna, della “familiarizzazione”. Ricordiamo che i cinque sentieri Mahāyāna sono:
Il sentiero dell’accumulazione;
Il sentiero della preparazione;
Il sentiero della visione;
Il sentiero dalla familiarizzazione;
Il sentiero della cessazione dell’apprendimento.
Nel Nobile Ottuplice Sentiero si sviluppa, nel terzo sentiero Mahāyāna, la visione intuitiva della vacuità, della realtà ultima che, nel quarto sentiero è analizzata e meditata divenendo così familiare.
Non dimentichiamo di essere comunque nel samsāra, dunque di avere la necessità di provvedere a noi stessi e nel Nobile Ottuplice Sentiero troviamo le indicazioni fondamentali che ci permettono di procedere nel cammino vero l’illuminazione, non si tratta di norme o dogmi, ma di suggerimenti essenziali:
Retta Visione;
Retta condotta di vita nella giusta modalità di procurarsi i mezzi di sostentamento;
Retto Sforzo; 
Retta Consapevolezza;
Retta Concentrazione o Contemplazione.
Retta Parola;
Retta Azione;
Retta Attitudine mentale o Pensiero;
Il giusto sforzo, la giusta consapevolezza e la giusta concentrazione riguardano complessivamente la retta visione nella pratica del sentiero della familiarizzazione.
La retta parola si riferisce agli insegnamenti, ai consigli che offriamo agli altri relativamente a ciò cha abbiamo appreso; nel sentiero della familiarizzazione dunque non impegniamo tutto il tempo nella meditazione, ma una parte è dedicata all’insegnamento.
La retta azione è la moralità, l’etica, e la giusta attitudine mentale, così come la retta parola, riguarda l’insegnamento.
Questo è il Nobile Ottuplice Sentiero a cui si riferisce precisamente il verso 113, destinato a colui che ha realizzato la via della familiarizzazione che può essere applicata in qualsiasi fase della nostra pratica.
Continuiamo con la lettura del bellissimo verso successivo:
Tutto ciò che sorge è sofferenza e la bramosia è la sua grande sorgente; la sua cessazione è la liberazione e il sentiero per ottenerla è il nobile ottuplice sentiero.
Abitualmente la data del compleanno è festeggiata, però la nascita corrisponde al giorno in cui entriamo nel samsāra!...
Il Buddha ha insegnato le “Quattro Nobili Verità”, la prima è quella della sofferenza che, erroneamente, tendiamo sempre di imputare a cause estere, ma in realtà la sofferenza è in noi perennemente e la sua prima manifestazione concreta coincide con la venuta in questo mondo.
La seconda nobile verità è costituita dalle cause della sofferenza che affondano essenzialmente nel nostro attaccamento a questa vita, “tutto ciò che sorge è sofferenza e la bramosia è la sua grande sorgente”.
Le cause della sofferenza sono immense e produrranno inesorabilmente nuova sofferenza, per interrompere questo processo è necessario raggiungere lo stato del nirvāna, cioè realizzare la terza nobile verità, la cessazione della sofferenza.
La cessazione della sofferenza è però fattibile soltanto percorrendo, la via che porta alla cessazione della sofferenza, il Nobile Ottuplice Sentiero e questa è la quarta nobile verità.
Nāgārjuna dunque ci offre una sintesi pratica di introduzione alle Quattro Nobili Verità.
Con il termine “vita” ci riferiamo generalmente a questo corpo e ai cinque aggregati che lo costituiscono ed è la raffigurazione più pratica della verità sofferenza, l’attaccamento alle cinque denominazioni del sé è la verità della causa della sofferenza. Quando questi due tipi di esperienze sono superati e finiscono si realizza la verità della cessazione della sofferenza, e la via che conduce a questo risultato è il Nobile Ottuplice Sentiero.
Le Quattro Nobili Verità sono strettamente connesse alla nostra stessa esistenza, non dipendono da fattori esterni, Nāgārjuna avverte:
Così è. Sforzati sempre di realizzare le quattro nobili verità….
Comprendendo profondamente le Quattro Nobili Verità, si dovrebbe praticare il Dharma ininterrottamente. Il verso 115 continua:
…anche un laico che dimora nella prosperità può attraversare il fiume delle contaminazioni con questa conoscenza.
Coloro che comprendono la verità non sono caduti dal cielo, né cresciuti dalla terra come un raccolto: in precedenza erano persone soggette alle afflizioni.
Così è il modo con ci si accosta al Nobile Ottuplice Sentiero che, in questo contesto, rappresenta la pratica del Dharma.
Generalmente il termine “laico” indica una persona che vive normalmente svolgendo quotidianamente impegni di lavoro e di famiglia senza appartenere a nessun ordine religioso, ma qui è espressamente rivolto da Nāgārjuna al re di Oddiyāna che, malgrado i suoi molteplici doveri di sovrano, dedicava molto tempo all’ascolto dell’insegnamento del Buddha e alla sua pratica per raggiungere l’illuminazione. Ciò che l’autore vuole sottolineare è che, indipendentemente dai pressanti oneri che si possano avere, è sempre possibile praticare pienamente il Dharma, non esiste alcun limite o contraddizione, la necessità di procurarsi i retti mezzi di sussistenza non è un ostacolo, anzi è un mezzo per conquistare la liberazione, il necessario supporto per giungere al nirvāna.
La Lettera ad un Amico era destinata ad un amico, un re, e per questo si rifà all’esempio di un altro re del passato.
I praticanti di Dharma che hanno ottenuto l’illuminazione non sono marziani piovuti dal cielo, né spuntati dalla terra come un’erba, sono persone che nel passato erano ordinarie come noi, oberate da molte responsabilità e impegni mondani e hanno raggiunto l’obiettivo ultimo praticando il Dharma nel Nobile Ottuplice Sentiero.
Anche il Buddha non era diverso da noi e grazie alle sue immense buone azioni ha conquistato l’illuminazione percorrendo la via su cui noi stessi stiamo camminando, così dobbiamo ricordare il Wesak.
Oh senza paura, il Beato ha detto che la mente è la radice delle virtù, quindi disciplina la tua mente: questo è un consiglio vantaggioso e utile, che bisogno c’è di dire di più?
Con la frase “Oh senza paura” si riferisce al suo amico re e lo invita a domare la mente, perché questa è la radice della pratica del Dharma.
Anche per un monaco che vive isolato è difficile seguire i consigli che ti sono stati dati, tuttavia rendi questa vita significativa sviluppando le buone qualità di qualsiasi istruzione pratichi.
E’ importante questo verso perché Nāgārjuna è concreto rassicura l’amico di non dover necessariamente seguire perfettamente tutti i suggerimenti contenuti nella lettera, ciò sarebbe estremamente difficile anche per coloro che si dedicano esclusivamente alla pratica del Dharma, ma lo esorta a fare tutto ciò che è in grado di compiere rendendo così significativa la sua vita.
Quest’attitudine è lontanissima dalla mentalità occidentale che è costantemente pressata dai sensi di colpa, di inadeguatezza, dal timore di peccare, mentre Nāgārjuna offre semplicemente una visione panoramica delle possibili pratiche dharmiche e ognuno può scegliere quelle più congeniali e adeguate alle sue capacità e praticandone anche soltanto una è come se le praticasse tutte e imprime in questo modo significato alla propria esistenza.
Il testo conclude indicando la necessità di sviluppare ammirazione per le virtù e di dedicare l’offerta di sé.
Rigioisci delle virtù di tutti gli esseri viventi e dedica la tua triplice buona azione all’ottenimento dello stato di Buddha.
La triplice buona azione si riferisce all’azione della mente, della parola e del corpo, e l’ammirazione per le virtù di tutti gli esseri senzienti, dei Buddha, dei Bodhisattva, degli Ărya è un ulteriore metodo per accumulare meriti.
A Lhasa molte persone si recavano in pellegrinaggio per rendere omaggio ad una statua importantissima e un giorno, un nomade poco colto che non conosceva nessuna preghiera si trovò accanto ad una signora della capitale la quale, pregando con fervore, formulava belle orazioni, innumerevoli voti e richieste, così il nomade, intimidito e incapace di parlare, disse semplicemente: “vorrei dire tutto ciò che ha appena detto la signora di Lhasa” e in questo modo ottenne gli stessi meriti della persona che aveva pregato così bene e anzi, probabilmente li aumentò, perché il suo desiderio e ammirazione erano puri e autentici.
Dopo aver maturato sincera ammirazione è necessario dedicare ogni azione positiva a tutti gli esseri senzienti affinché possano ottenere l’illuminazione.
Diventerai un signore dello yoga per un incalcolabile numero di nascite, in tutti i reami di dei e di esseri umani e proteggerai molti esseri senza aiuto con le attività di Ărya Avalokiteśvara.
Quindi dopo aver estinto in una nascita finale la malattia, la vecchiaia, i desideri e l’odio, in una terra di Buddha diventerai come Amitābha, il guardiano del mondo dalla vita immortale.
Questa è una preghiera molto bella, immaginiamo la futura esistenza in una terra di Buddha quando saremo nello stato dell’illuminazione, e già sin d’ora possiamo utilizzare questa visione come mezzo per accumulare meriti, rivolgendo la nostra pratica per la realizzazione e protezione degli altri e di noi stessi.
Infine, gli ultimi due versi sintetizzano l’intero contenuto del testo:
La grande fama immacolata, sorta dalla saggezza, moralità e generosità, si diffonderà nelle terre dei deva, nel cielo e sulla terra, quindi pacificherai definitivamente la delizia (degli uomini sulla terra e dei deva nei reami superiori) nel godere di splendide fanciulle e il compiacimento di sé.
Dopo aver ottenuto il rango di conquistatore che pacifica la paura, la nascita e la morte della moltitudine di esseri senzienti afflitti dalle contaminazioni, otterrai uno stato sovramondano, pacifico, puramente nominale, senza paura, eterno e senza errori.
Questa conclusione suggerisce all’amico re che la saggezza, la moralità e la generosità sono la fonte della fama, purificano tutte le illusioni e trasformano la terra in terra pura e con queste perfezioni potrà liberare tutti gli esseri da paura, attaccamento, nascita e morte portandoli allo stato di pace.
Così termina la lettera di Nāgārjuna ad un amico, leggiamo ora l’intero testo dall’inizio (V. testi annessi pag. V).

Segue lettura

Come avrete notato nella spiegazione abbiamo saltato interamente la parte che descrive i tipi di sofferenza degli esseri nei sei reami, perché le illustrazioni offerte sono formulate in un linguaggio corrispondente alla mentalità del tempo e oggi per essere comprese nel loro vero significato necessiterebbero di una lunga reinterpretazione, una lettura superficiale e veloce come potremmo fare qui sarebbe sicuramente ostica e fuorviante, non adatta alla mentalità moderna.
(Seconda Sessione)

Il Nobile Ottuplice Sentiero è direttamente connesso alle due verità: della cessazione della sofferenza e delle sue cause.
La verità della sofferenza riguarda essenzialmente il corpo e i suoi cinque aggregati, mentre le cause della sofferenza hanno radice nell’attaccamento al corpo e agli aggregati ed entrambe le sofferenze devono cessare.
Le Quattro Nobili Verità sono illustraste magnificamente, in modo lineare e chiarissimo e mostrano la naturale necessità di realizzare il nirvāna, lo stato che porta al di là del dolore.
Esiste un testo molto importante della tradizione Theravāda, in canone pali, che spiega con chiarezza il Nobile Ottuplice Sentiero, però gli otto aspetti sono disposti secondo un ordine diverso rispetto a quello riportato nella lettera di Nāgārjuna, (V. pag. 32) in cui, trattando il concetto della familiarizzazione nel Mahāyāna, il retto pensiero è collocato alla fine. L’ordine del canone pali è invece il seguente:
Retta Visione;
Retta Attitudine mentale o Pensiero;
Retta Parola;
Retta Azione;
Retta condotta di vita nella giusta modalità di procurarsi i mezzi di sostentamento;
Retto Sforzo;
Retta Consapevolezza;
Retta Concentrazione o Contemplazione.
La comprensione del Nobile Ottuplice Sentiero e delle Quattro Nobili Verità si contrappone naturalmente alle illusioni che alimentano il samsāra.
C’è la verità della sofferenza, ma qual è il suo opposto?
La verità della sofferenza è la sofferenza osservata nella sua essenza dagli Ārya, mentre noi esseri ordinari non la riconosciamo come tale, la confondiamo con la felicità, non siamo in grado di vederla, ma Nāgārjuna afferma che i cinque aggregati, le cinque denominazioni del sé, sono la verità della sofferenza in cui siamo nati.
Invece noi, esseri ordinari, consideriamo questi cinque aggregati come qualcosa di importante da salvaguardare a qualsiasi costo, vi dedichiamo ogni energia, perché crediamo che siano la felicità.
Gli aggregati a cui sacrifichiamo tutto sono i cinque oggetti del regno del desiderio, e ciò significa che siamo completamente ciechi, privi della retta visione, non li riconosciamo come sofferenza né comprendiamo che l’attaccamento che ne deriva è origine di sofferenza.
La verità della sofferenza possiede quattro caratteristiche:
la natura della sofferenza, in quanto è impermanente;
la natura del dolore, poiché non arreca alcuna soddisfazione;
la natura vacua, perché è interdipendente;
non ha nessun sé esistente intrinsecamente;
Noi, al contrario, a causa della nostra confusione, vediamo l’impermanenza come permanenza, ciò che non dà soddisfazione come fonte di felicità, la vacuità come intrinseca concreta esistenza, e la realtà priva di sé come fortemente ancorata a un sé, e in questo modo affondiamo sempre più nella nebbia della falsa visione della sofferenza.
Nāgārjuna sottolinea che le cause della sofferenza sono il nostro attaccamento ai cinque aggregati che non sappiamo riconoscere nella loro verità di sofferenza.
La retta visione è l’assenza di sé.
Il retto pensiero è l’atteggiamento.
Nāgārjuna descrive inoltre l’attitudine da mantenere nell’insegnamento, perché chi si trova sul sentiero della familiarizzazione deve insegnare il Dharma correttamente.
E’ importante anche vigilare sugli atteggiamenti complessivi relativi ad ogni azione: l’attitudine retta porta felicità, quella sbagliata infelicità, come ricordano i versi di apertura del primo capitolo del Dharmapada:
“I Dharma sono dominati dalla mente, hanno come elemento principale la mente e sono costituiti dalla mente.
Se un individuo parla o agisce con mente corrotta, ecco che l’infelicità lo segue come la ruota del carro segue l’orma di chi lo trascina.
I Dharma sono dominati dalla mente, hanno come elemento principale la mente e sono costituiti da mente.
Se un individuo parla o agisce con mente serena, ecco che la felicità lo segue come l’ombra che non si diparte mai.”
Il retto pensiero si riferisce essenzialmente alla attitudine di non odio, non attaccamento, non ignoranza.
Qual è la retta parola? 
“Parlare tanto è fonte di pericolo, il pappagallo che parla tanto è rinchiuso in una gabbia, mentre gli uccelli che tacciono volano liberamente. Parlare di Dharma e non di adharma; di ciò che è piacevole e non ciò che non lo è, di ciò che è vero e non le bugie, di solamente parole che non causeranno rimorso e male agli altri, questo è il buon discorso, veramente.
La verità è un discorso immortale ed è una legge antica, le parole di Buddha portano alla pace del nirvāna, alla fine della sofferenza, queste parole sono veramente buone”.
Il Nobile Ottuplice Sentiero è un argomento vastissimo e questi sono solo alcuni spunti.
Domanda: Sarebbe corretto considerare i versi della lettera di Nāgārjuna, dal 116 al 121, come un sentiero completo che parte dalla nostra condizione di mente ignorante per passare alla comprensione della pratica, attuarla, ottenere l’accumulazione di meriti e saggezza, entrare nel sentiero dei Bodhisattva e infine raggiungere lo stato di buddhità?
Lama: Eccellente!.. dipende da come lo si comprende, domanda veramente complicata. Terminiamo la sessione con la preghiera di dedica del Lam Rim (V. testi annessi pag. IV)







Amore universale e armonia sociale

(Prima Sessione)

L’incontro di oggi è dedicato al tema dell’amore universale e dell’armonia sociale, non ristretto all’ambito religioso o spirituale, ma in quanto bisogno e qualità naturale del genere umano.
Oggi siamo numerosi, ci sono amici nuovi e vecchi, ecco un piccolo mistero, io ero quasi certo che saremmo stati pochi, anche perché non avevo divulgato il programma, e invece….
Se non interpretiamo il mistero come evento straordinario al di fuori del normale, e impariamo a scorgerlo in ogni aspetto della vita abbiamo coscienza di essere noi stessi parte di un mistero.
Noi cerchiamo gli episodi misteriosi sempre all’esterno, negli alberi, nelle pietre, nel cielo, ma è un errore, la cosa più misteriosa sul pianeta è il corpo umano e per questo fatto tutti i maestri del passato insistevano sulla necessità di saper riconoscere sé stessi e, di conseguenza, il tutto: riconoscere, conoscere sé stessi è riconoscere, conoscere ogni cosa; se non siamo capaci di capire pienamente la nostra interiorità come potremmo comprendere ciò che è al di fuori?
In una conferenza un professore di anatomia raccontò che durante una sua lezione universitaria gli studenti avrebbero dovuto sezionare un cadavere per analizzare le funzioni e la correlazione dei vari organi, ma prima che procedessero il professore ricordò loro che stavano per scoprire il mistero di Dio, il suo capolavoro e un secondo studioso presente confermò che, malgrado gli enormi progressi della scienza, nessuno aveva la capacità di creare una sola goccia di sangue.
Noi siamo così affascinati dalla scienza, dai computer, da internet che non ci accorgiamo di essere schiavi di una tecnologia che ci rende sempre più indaffarati, stressati, agitati.
Nel passato le occupazioni erano calibrate sulle possibilità umane, oggi invece le macchine ci tengono occupati ventiquattro ore al giorno, non c’è limite, eppure non sappiamo creare neppure una goccia di sangue, che è parte del nostro corpo, questo è qualcosa di veramente misterioso!...
La non conoscenza del mistero umano ha causato in passato guerre di religione in cui sono stati massacrati milioni di persone. Imparare a conoscere, studiare, riconoscere sé stessi non è egocentrismo, bensì la chiave per comprendere l’intero universo.
Bisogna esplorare l’universo attraverso l’esplorazione di sé stessi e non il contrario, e nel tentativo di raggiungere questo obiettivo si aprono nuovi fronti di studio: la relazione tra scienza e spiritualità, tra mente e vita, tra mente e scienza.
Si parla sempre della mente, ma se è già così difficile creare una goccia di sangue, di cui conosciamo ogni aspetto concreto, pensate come sarebbe arduo riprodurre la mente umana!....
La pratica della meditazione è l’esplorazione della propria mente, non si tratta di indagare e manipolare la mente altrui, questo sarebbe un clamoroso macroscopico errore.
Le religioni tradizionali hanno operato per il bene, nel passato come nel presente, ma allo stesso tempo hanno creato e creano una pericolosa confusione e molti problemi che potrebbero permanere lungamente nel contesto umano.
Dobbiamo conoscere la nostra mente in modo di distinguere e comprendere questa condizione e seguire la religione con pienezza e libertà, evitando di cadere nella nebbia dalla confusione, delle visioni distorte e settarie, senza caricare ulteriori pesi che schiacciano le coscienze e la società. Questo è l’amore universale, non afferrarsi con bramosia alle proprie credenze e tradizioni, ma saperle vivere integralmente con apertura mentale.
Ad esempio io sono buddhista, e se cercassi di farvi credere che l’amore universale è prerogativa del buddhismo, commetterei un grossolano errore, frutto dell’attaccamento alla mia tradizione, e aumenterei la vostra confusione ponendo ulteriori ostacoli alla vostra crescita personale.
Nell’amore universale, non possiamo essere schiavi della bramosia, dobbiamo avere un distacco equanime dalla nostra fede, da Dio, da Buddha….
L’Amore e la Compassione sono opposti all’attaccamento, lo riducono naturalmente. Gli attaccamenti a Dio, al Buddha, al maestro…. sono i più pericolosi, perché in loro nome si sono scatenate guerre, bruciati al rogo e massacrati tanti esseri senzienti. 
Dio, Buddha, non sono certamente pericolosi in sé, ma lo è l’attaccamento che chiude la mente, che ci rende incapaci di vedere, di riconoscere, di amare, e il livello di attaccamento è inoltre particolarmente pericoloso perché è proporzionale alla potenza dell’oggetto a cui si rivolge.
L’attaccamento è ottuso, è legato all’ignoranza e in questo possiamo vedere come la mente umana possa essere incredibilmente stupida.
Buddha, Gesù, Maometto hanno dato insegnamenti magnifici e noi, credendo di seguirli, facciamo esattamente il contrario e costituiamo gruppi settari per diffondere come unica verità le nostre limitate e ingiustificate certezze. Questo è forse il più grande problema della società, però anche un minimo barlume di luce può cominciare a disperdere le fitte tenebre.
In un articolo di giornale si diceva che Gesù, Buddha, Gandhi avevano fallito la loro missione perché in India, il paese in cui era nato, il buddhismo era quasi completamente scomparso, Gandhi era stato ucciso e Gesù crocifisso, eppure evidentemente il fallimento non era in loro,  ma nella nostra incapacità di riconoscere il messaggio del vero amore. 
La pratica dell’amore è difficile.
Dopo queste riflessioni che idea abbiamo dell’amore universale?
Se rivolgiamo l’attenzione ai suoi effetti positivi ne ricaviamo una visione fantastica, ma se ci soffermiamo sulla difficoltà di attuarlo ne siamo immediatamente scoraggiati, dobbiamo dunque aver sempre presente entrambi gli aspetti.
L’amore universale non è un fenomeno esterno, dipende esclusivamente dalle qualità spirituali interiori.
Sviluppare amore universale è creare armonia sociale in cui si rispettano tutti gli esseri in modo uguale senza distinzione di razza, di genere, di nazionalità, e non li si separa più nel consueto dualismo: amici e nemici, parenti ed estranei. L’amore universale considera con assoluta equanimità tutti gli esseri appartenenti ai sei regni, siano deva, asura, esseri umani, animali, preta, esseri infernali.
La descrizione dei sei reami può risultare ostica alla mentalità occidentale, ma al di là del linguaggio usato, è validissima per tutti in egual misura, l’amore universale non è destinato soltanto ai tibetani o agli indiani o agli abitanti della terra, ma è rivolto indistintamente a tutti gli esseri del samsāra, non esclude nulla e nessuno.
L’osservazione dei sei reami del samsāra non deve essere riferita ad una semplicistica collocazione nello spazio, è piuttosto la descrizione del livello di sofferenza degli esseri. Ad esempio il regno degli dei (deva) può anche manifestarsi in una forma umana in cui, seppure si è liberi dai condizionamenti del corpo, le sofferenze samsariche colpiscono la mente.
Alle popolazioni del terzo mondo gli abitanti dei paesi industrializzati appaiono come deva perché godono di ogni privilegio e benessere, ma ciò non significa che abbiano minori sofferenze sul piano spirituale.
La descrizione degli asura o semidei è altrettanto significativa, mostra persone che vivono una vita piacevole e lussuosa, eppure rosi dall’invidia e dall’insoddisfazione, si cimentano in interminabili conflitti e guerre. Dove pensiamo di poter trovare questo livello di sofferenza sul pianeta oggi? Ad esempio nel medio oriente dove Israeliani e Palestinesi non riescono a far cessare una crescente violenza, malgrado le condizioni di vita potrebbero essere buone.
Qual è la sofferenza del regno degli umani
La sofferenza umana si fonda su quattro caratteristiche fondamentali: nascita, malattia, vecchiaia e morte. Non lo ricordiamo, ma nell’istante in cui siamo venuti al mondo abbiamo affrontato un’immensa sofferenza, si dice che il grembo materno sia un luogo estremamente piacevole, caldo e dolce e, abbandonandolo, anche se riceviamo immediatamente le cure più attente, è come se fossimo punti da aghi, chissà, forse è questa la ragione del pianto dei neonati, la via è un grande mistero.
Dopo la nascita affronteremo la della malattia, la sofferenza dell’invecchiamento che è estremamente complessa perché non riusciamo a comprendere in quale modo consumi la nostra vita, e non esiste nessun antidoto o medicina, è un processo inesorabile e ininterrotto. Ogni volta che torno a casa vedo i miei genitori sempre più vecchi e così loro vedono me, eppure vivendo costantemente insieme non si coglie questo cambiamento ineluttabile. L’invecchiamento è dunque una sofferenza molto sottile.
La sofferenza della malattia è più palese e il più delle volte abbiamo strumenti per combatterla, per arrestarla.
Poi c’è la sofferenza della morte. Qualcuno dice che la morte in realtà non sia un grande problema e che la vera sofferenza sia vivere.
Poiché noi siamo esseri umani e apparteniamo a questo regno il nostro compito è quello di affrontare le quattro sofferenze, su queste considerazioni è sorto il buddhismo, infatti il principe Siddhārtha, posto di fronte ad ognuna di esse, si rese conto che colpivano indistintamente tutti gli esseri, compreso se stesso e, ricolmo di compassione, senti imperioso il dovere umano, oltre a quello di governatore di una regione, di cercare il modo per superarle.
Domanda: Queste quattro sofferenze sono essenzialmente legate al corpo, ma quella che sperimentiamo costantemente è la sofferenza mentale che deriva dall’attaccamento a modelli di vita, anche le religioni sono modelli e quindi possibili motivi di sofferenza se ne restiamo attaccati…..
Lama: Verissimo, questa è sofferenza.
Ciò che vorrei ribadire è il compito che ognuno di noi deve portare a termine nella propria esistenza, deve imparare ad osservare con attenzione le sofferenze dei sei reami così da poter sviluppare naturalmente la compassione e l’amore universale.
E’ interessante studiare la vita del Buddha, il suo scopo non era certamente quello di creare un’istituzione, di volere che tutti vi aderissero, il suo obiettivo era rendere tutti liberi, partecipi di ciò che aveva verificato, e così essere in grado di oltrepassare i limiti delle quattro sofferenze.
La riflessione sulle quattro sofferenze che dominano il regno degli umani è molto potente e porta, come primo risultato, alla rinuncia di questa vita.
Noi spendiamo tutto il tempo e le energie per il benessere del nostro corpo, per non ammalarci, per rimanere giovani il più a lungo possibile e avere una lunga vita, per non soffrire, ma nonostante tutti questi sforzi non possiamo sfuggire a nulla di tutto ciò.
Negli ospedali si tenta di aggiustare il corpo umano come se fosse una macchina, cambiando i pezzi difettosi, cuore, fegato, reni…, eppure non c’e nessun senso in questo, è un estremo e dissennato modo di nascondere la testa nella sabbia e non è affatto un mezzo per vincere la sofferenza.
In questo palazzo vive una cara amica che ha centouno anni e ultimamente ha discusso con il medico rifiutando il ricovero in ospedale perché desidera morire in modo naturale nel suo letto. E’ una signora lucidissima, determinata e forte, legge molto, cucina, pulisce, e la figlia le rimprovera di essere egocentrica, troppo dura, ma non vi è nulla di negativo nel suo atteggiamento perché non procura problemi ad altri, non litiga con nessuno ed è invece una persona profondamente spirituale.
Il Dharma non appartiene esclusivamente al buddhismo, credere questo sarebbe davvero sciocco, il Dharma è in ogni cosa, è la stessa mente umana che, gestita nella giusta maniera, ci introduce automaticamente nella pratica.
Quando ci ammaliamo, invecchiamo, moriamo, soffriamo a causa dell’attaccamento e l’unico mezzo per superare questo ostacolo è l’amore universale.
Dovremmo riflettere costantemente sulle quattro sofferenze da cui non si sfugge e che sono parimenti condivise da tutti coloro che popolano il pianeta, siano ricchi o poveri, potenti o umili, e così sviluppare naturalmente la compassione e l’amore universale. In questo modo diminuiscono automaticamente la gelosia, l’attaccamento, la rabbia, l’odio.
Sāntideva disse: “come è possibile che tu ti arrabbi profondamente con una persona dal momento che tu sei impermanente e quella persona ugualmente è impermanente? o, come è possibile che tu ti attacchi profondamente a una persona dal momento che tu sei impermanente e quella persona ugualmente è impermanente?”
Tutti siamo soggetti all’impermanenza, dunque perché sprecare tante energie, incrementando la nostra infelicità, per qualcosa che comunque finirà?
Se leggiamo la storia dell’umanità, dei grandi personaggi, del potere alternante nelle diverse dominazioni, ci rendiamo conto di come tutto sia effimero e caduco.
Il Buddha disse che riflettendo sull’impermanenza ci libereremo da tutte le sofferenze di questa vita posando finalmente i piedi per terra.
L’amore universale riguarda tutti, anche i cosiddetti “uomini più potenti del mondo” che, nell’arco di trenta - quarant’anni, sono già parte della storia, soltanto un ricordo.
L’equanimità ci permette di vedere che tutti siamo soggetti all’impermanenza e in questo modo attaccamento, rabbia, invidia, svaniscono automaticamente.
Dobbiamo affrontare la vita complessivamente, dall’inizio alla fine e non limitarci soltanto a quelle piccole porzioni in cui siamo felici, in salute. La vita è semplice, non bisogna complicarla e se siamo in grado di comprendere la sua natura impermanente tutto diventa facile.
La vita semplice è la più felice ed essendo sereni, gioiosi, infonderemo naturalmente armonia negli altri. La nostra situazione interiore è strettamente connessa agli avvenimenti esterni e dunque è fondamentale, durante la meditazione e la riflessione su questi fenomeni, non escludere mai la realtà esteriore, non ciò che appare ed è illusorio, ma l’essenza vera delle cose.
Ora esaminiamo il regno animale, qual è la sua sofferenza?
Gli animali patiscono a causa dell’oscuramento mentale, non posseggono le capacità dell’intelligenza speculativa tipicamente umana, non possono sviluppare consapevolmente compassione, comprensione, saggezza, questa è la loro sofferenza.
Un altro reame di sofferenza è quello degli spiriti affamati, il loro tormento è l’impossibilità di nutrirsi, se hanno cibo non lo possono digerire o se lo cercano non lo trovano, e non è necessario cercare simili situazioni fuori dal pianeta, sono proprio qui.
Infine c’è il reame degli inferi in cui gli esseri sono afflitti da pesanti tormenti che molte persone stanno già vivendo sulla terra proprio ora.
Questi sei regni non sono dunque soltanto collocabili soltanto in una visione spaziale, sono ben presenti nei livelli di sofferenza che tutti potremo essere costretti a sperimentare; io ad esempio nell’infanzia ero spesso malato e ricoverato in ospedale perché non riuscivo a nutrirmi, non digerivo ed ero debolissimo.
Le sofferenze dei sei reami possono presentarsi in qualsiasi momento e anche tutte contemporaneamente.
E’ vero ciò che si ripete spesso: prevenire è meglio che curare, ma se è impossibile evitare il decadimento fisico, a livello spirituale possiamo prepararci a questi eventi mantenendo la pace interiore, questa è prevenzione.
Esistono luoghi particolarmente pregni di sofferenza: le regioni devastate dalle guerre e dalle carestie, gli ospedali, gli hospice per malati terminali, e visitandoli non si deve pensare “io sono qui per aiutare, dunque sono un Bodhisattva”, ma riflettere su di sé, sulla propria impermanenza, sulla concreta possibilità di essere soggetti alla stessa sofferenza e pertanto sviluppare amore e compassione universale, una ricchezza che appartiene all’intero genere umano, senza alcuna etichetta confessionale, né buddhisti, né cristiani, né musulmani o altro ancora, io ho incontrato spesso persone che si dichiaravano atee ed erano più gentili e amorevoli di molte altre che si proclamavano religiose o addirittura Bodhisattva.
L’amore universale è una capacità condivisa da tutta l’umanità e di fronte alle situazioni di dolore dovremmo ricordare che anche noi un giorno potremmo patire le stesse pene.
Oggi invece sono molti coloro che, avendo appreso qualche nozione di buddhismo, si sentono immediatamente specialisti in materia di sofferenza, pensano di possedere superiori capacità per aiutare gli altri, strumentalizzando e usando in modo improprio l’insegnamento del Buddha; l’aiuto al prossimo non è una questione di buddhismo o di qualsiasi altra religione, è una naturale qualità umana.
Il mondo industrializzato offre una buona preparazione professionale alle persone che devono assistere i morenti e questo è indubbiamente positivo dal punto di vista scientifico, ma a livello spirituale l’unico vero addestramento può scaturire solo dal cuore umano e in nessun caso essere indotto dall’esterno.
Nella morte ognuno di noi è solo, è un fatto naturale, e ciò che ci può aiutare a viverlo pienamente non è al di fuori, ma esclusivamente nelle nostre qualità spirituali, possiamo vivere la morte positivamente se abbiamo maturato amore e compassione.
In occidente siamo ossessionati dalla necessità di catalogare, di etichettare con il solo risultato di potenziare l’ego individuale, e l’ego celato dall’etichetta del buddhismo è pericolosissimo e fortissimo, più di quello nascosto dall’etichetta del cristianesimo che è parte di questa cultura, delle sue radici. Dobbiamo stare molto attenti a non cadere in queste sottili trappole. Spesso nell’illusione di organizzare, istituzionalizzare, rendere più operativa la società perdiamo completamente il senso spirituale della realtà.
L’amore universale è fondamentale in quanto condizione primaria per ottenere quell’armonia sociale che non fa alcuna distinzione tra buddhisti, cristiani, musulmani, ebrei, credenti e atei.
La pace mentale è l’eliminazione di ogni discriminazione, divisione, visione errata e ristretta, mentre ogni etichetta che vogliamo insistentemente appioppare è il risultato della nostra insensata e ottusa chiusura mentale.
Siamo tutti ugualmente soggetti alle quattro sofferenze e sulla base di questa consapevolezza possiamo facilmente sviluppare l’equanimità e l’amore universale. Abbandoniamo l’ossessione di conoscere, di avere certezze, su cosa avverrà dopo questa esistenza terrena, il paradiso, la terra pura, il nirvāna… e concentriamoci invece sull’amore universale, sviluppiamolo interamente, perché soltanto così raggiungeremo automaticamente il posto che ci compete.
Al di fuori dell’amore universale non troveremo nulla, ma se lo estendiamo ogni cosa apparirà. Che cos’è la spiritualità, il Dharma, la religione?  - L’Amore universale!
L’amore universale e l’armonia sociale camminano di pari passo e portano la pace, sia interiore che esteriore. La pace interiore è l’amore universale e la pace esteriore è l’armonia sociale che ne deriva, dunque ogni etichetta e categorizzazione, laica o religiosa, non ha alcun significato.
Domanda: Tu dici che molti conflitti che tormentano questo pianeta sono provocati da convinzioni di tipo religioso, io però non sono d’accordo, riconosco che storicamente ciò sia avvenuto a causa della commistione tra potere politico e religioso, come nelle crociate e così via, ma oggi ritengo che le vere motivazioni siano puramente economiche, anche se nascoste dietro vessilli apparentemente più nobili, come quello della religione, o no?
Lama: Invece di affermare che i conflitti avvengono a causa delle religioni è più corretto dire che sono costruiti in nome delle religioni, e dietro non sappiamo cosa realmente ci sia, quali siano le motivazioni effettive.
Intervento: Prima hai detto che in Israele e in Palestina c’è un buon livello di vita, ma non è così, in Israele si, ma in Palestina il livello di vita è bassissimo e la povertà assoluta, e anche questo può essere un motivo per cui l’odio alimenta la guerra in nome della religione, se stessero meglio, se vivessero in condizioni più umane probabilmente questo conflitto non ci sarebbe.
Intervento: Io non sono così convinto che lo scontro sia legato unicamente alla condizione sociale, a me sembra che credenze, convinzioni, attaccamenti, non solo religiose ma anche culturali, ci unifichino in un’identità in cui possiamo riconoscerci, e trovandoci di fronte ad un gruppo diverso scatta immediato un meccanismo di paura e di difesa a cui contrapponiamo rigidamente e ottusamente i gonfaloni tradizionali più forti. Dovremmo superare questo tipo di attaccamento e trovare i punti di incontro.
Lama: E’ molto difficile analizzare situazioni come quella di Israele e Palestina, l’unica cosa che possiamo vedere è la sofferenza delle popolazioni coinvolte; con un termine buddhista diciamo che queste persone stanno vivendo il loro karma e dunque soltanto loro possono trovare il modo per purificarlo e maturare condizioni diverse per ottenere quell’armonia e pace che in nessun caso possono essere imposte con interventi esterni. Coloro che devono trasformare il proprio karma trovano la pace solo sviluppando l’amore universale dal quale deriverà l’armonia sociale. L’amore universale non cresce mai all’esterno, ma nei cuori.
I cristiani sono molto intelligenti, hanno capito che la carità è fondamentale e cercano di applicarla continuamente portando istruzione, salute e fede e tutto questo produce amore universale.
Domanda: Forse potremmo riservare l’attaccamento al nostro compagno di vita favorendo così l’armonia familiare, ma mi domando, un legame così ridotto può comunque diventare oggetto di analisi, di approfondimento, essere una palestra in cui imparare a distinguere ciò che è attaccamento da ciò che è amore?
Lama: L’attaccamento tra partner è meno rischioso e il rapporto può essere mantenuto in una certa armonia familiare, ma l’attaccamento non è mai positivo. All’inizio della vita di coppia l’attaccamento è più forte ma poi deve essere trasformato in amore genuino, questo è l’obiettivo, perché solo l’amore autentico può produrre vera armonia. L’attaccamento verso qualsiasi oggetto è negativo, fonte di confusione e problemi, anche l’insegnamento cristiano in proposito è inequivocabile, la dedizione gratuita, l’impegno nell’aprire scuole e ospedali in ogni parte del mondo per diffondere salute e istruzione è veramente significativo.
Intervento: A Calcutta nella casa di Accoglienza di Madre Teresa è scritta in tutte le lingue questa frase: “Tutto ciò che non è donato è perso.”
Lama: Il metodo dei cristiani è bellissimo e anche i buddhisti dovrebbero seguire questo esempio, essere più attivi nel dare salute e istruzione e, se non si può far altro, offrire aiuti concreti, e soltanto in seguito spiegare i principi della fede, perché non è pensabile di poter insegnare il Buddha Dharma e Sangha prescindendo dai presupposti di compassione e amore.
Domanda: La chiesa cattolica ha molte ricchezze e non si vergogna a chiedere sempre di più anche allo stato, quindi può realizzare ospedali, scuole, eccetera, ma per i buddhisti non è la stessa cosa, perché non chiedete di poter almeno usufruire del famoso otto per mille prelevato dalla dichiarazione dei redditi?
Lama: Il problema è politico, questo deve essere deciso dal parlamento, non dipende solo da un accordo tra UBI e ministero, ci sono anche altre religioni che lo possono richiedere. Personalmente io sono contrario, preferisco non avere il beneficio dell’otto per mille perché questo significa maneggiare denaro che proviene dalle tasse, carico di karma pesante, ed è una enorme responsabilità gestirlo, se non lo si usa bene la faccenda si fa seria. I buddhisti italiani hanno già un karma non leggero, se lo si aggrava ulteriormente ne saranno schiacciati come polpette.
Domanda: Perché i buddhisti italiani non hanno un karma leggero?
Lama: Perché non sono buddhisti genuini, se lo fossero non dovrebbero chiedere nulla, né dipendere da nessuno, dovrebbero essere assolutamente liberi, qui invece chiedono continuamente denaro per qualsiasi cosa, stabiliscono i prezzi di ogni insegnamento, creano in questo modo piccole istituzioni, organizzano consigli di amministrazione, tutto questo crea un karma davvero pesante.
Ho voluto appositamente essere provocatorio ma sono molto contento di questo piccolo dibattito, veramente interessante, comunque la pratica non dipende dall’essere buddhisti o cristiani, va oltre.
La pratica dell’amore universale esisteva prima della venuta di Buddha e di Gesù Cristo, è una realtà eterna, universale che esiste senza dipendere da nessun tempo e da nessuna persona e ci dà la possibilità di diventare Buddha e Gesù; la qualità di Buddha e di Gesù, è l’amore universale.
Dire cristiani, buddhisti, significa solo enunciare categorie che non hanno nulla a che vedere con la pratica che si manifesta invece nell’amore universale e nell’armonia sociale che produrranno pace interiore.
Grazie a tutti per questo bellissimo incontro, concludiamo con la preghiera del Otto Versi di Trasformazione della Mente (V. testi annessi pag. I) e dedichiamo le virtù dei tre tempi, del passato, del presente e del futuro, per il bene di tutti gli esseri senzienti auspicando la crescita dell’amore universale in noi stessi e negli altri. Questa è una dedica speciale, una preghiere per costruire pace e armonia sociale nel pianeta afflitto da drammatiche guerre, contrasti e sofferenze, dobbiamo dunque pregare affinché tutto ciò possa finire e si diffonda la pace e l’armonia.
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SECONDA   PARTE
Roma   *   Settembre  -  Dicembre 2006   *

Benedizione e Suprema Beatitudine


Buongiorno a tutti, le vacanze estive sono terminate ed oggi riprendiamo insieme il cammino nel Lam Rim.
Ciò che stiamo facendo qui non è nulla di straordinario, cerchiamo semplicemente di vivere ogni istante con attitudine dharmica, questo è il significato fondamentale degli incontri di Dharma.
Il tempo condiviso con gli amici di Dharma è pace, armonia, e oggi più che mani è importante trasformare la confusione che permea questo mondo in momenti di riflessione pacifica.
La pratica del Dharma consiste semplicemente nel cambiare atteggiamento nei confronti della vita, dell’impiego del tempo, è la precisa scelta di ogni azione.
Noi siamo istintivamente attenti a tutto ciò che appare all’esterno, ma quasi mai rivolgiamo lo sguardo alla nostra interiorità e questa è la causa primaria di ogni angoscia, ansia, paura, tensione.
Inseguiamo confusamente e affannosamente tutte le chimere che crediamo possano soddisfare le nostre necessità, appagare i desideri, convinti che la felicità si trovi sempre al di fuori, e non la cerchiamo mai in noi stessi, ma questo è macroscopico errore, perché solo interiormente possiamo scoprire la vera pace, la serenità e l’appagamento di tutti i bisogni.
C’è una grandissima differenza tra volgere lo sguardo costantemente all’esterno o guardare alla  propria interiorità; possiamo continuare a fare le stesse cose, occuparci normalmente della quotidianità, vedere gli stessi amici, affrontare il lavoro, non dobbiamo cambiare nulla, ciò che veramente deve essere trasformato è l’attitudine interiore.
La trasformazione della mente è l’alchimia del Dharma, dunque è necessario vigilare costantemente sui propri atteggiamenti interiori nei confronti dei fenomeni e per questo oggi ho scelto di analizzare con voi la “Suprema Beatitudine”, un argomento che pare estremamente mistico tanto da indurvi a pensare che voglia conferirvi iniziazioni segrete o benedirvi con acqua sacra, ma questa non è la mia intenzione, desidero semplicemente esporvi l’essenza della vera beatitudine.
Il Dalai Lama ricorda spesso nei suoi scritti che molti tibetani si recano da lui chiedendo la benedizione, e lui risponde senza eccezione che non può farlo perché ogni vera benedizione deve scaturire dalla propria interiorità, ognuno deve saper benedire se stesso.
Il Dalai Lama, di fronte alla marea di tibetani che gli si avvicinano con questa richiesta, rimane senza parole, non sa che fare perché non può trasformare le loro sofferenze dall’esterno, prova un grande dispiacere nel dover deludere le loro speranze e raccomanda di percorrere il giusto sentiero e di trovare la benedizione in se stessi.
In tibetano il termine benedizione è composto da due parole: byin-rlabs, la prima significa potere e la seconda trasformazione, quindi si deve trasformare la mente attraverso il potere che ognuno possiede, la meditazione.
“Tramite la meditazione ogni persona è in grado di trasformare il proprio atteggiamento, la propria mente, questa è la beatitudine suprema”, così ha detto il Buddha e in questo sūtra ho compreso profondamente le parole del Dalai Lama. 
La beatitudine dunque non deriva dall’essere aspersi da acqua benedetta, è esclusivo frutto personale, così i praticanti del Lam Rim, istruiti, intelligenti e che conoscono con chiarezza il significato della benedizione sono in grado di benedire se stessi.
A volte può succedere al risveglio mattutino la nostra mente non sia calma, forse abbiamo dormito male o troppi impegni ci confondono, in questo caso non dobbiamo forzarla alla meditazione, ma semplicemente possiamo pensare di aver bisogno in quel momento di benedire noi stessi, ricordando o leggendo il sūtra del Buddha e fermandoci qualche istante in una meditazione silenziosa; questa è una pratica estremamente efficace.
Possiamo familiarizzare con quest’attitudine in ogni circostanza anche quando il risveglio è gioioso, tranquillo e dobbiamo applicarla mantenendo inalterata la motivazione altruistica, con compassione e Bodhicitta, desiderando che tutti gli esseri senzienti possano godere della stessa sensazione di felicità che stiamo sperimentando.
Invece succede che, svegliandoci così allegri, diventiamo immediatamente iperattivi e bruciamo in poche ore tutta l’energia positiva, buttandoci a capofitto nell’inferno dell’insoddisfazione carica di negatività e da cui è sempre più difficile risollevarci.
Dobbiamo aver cura dell’energia gioiosa e positiva che ci avvolge al risveglio, così da rendere tutte le azioni della giornata efficaci e migliori del solito.
Il Dharma è di aiuto sia nelle situazioni dolorose che in quelle gioiose, in quelle negative ci potrà confortare, risollevare, mentre in quelle positive ci permetterà di mantenerle costanti nel tempo.
Oggi è una bella giornata, il clima è gradevole, siamo insieme nel Dharma motivati da un atteggiamento altruistico, dunque questa parte della nostra vita è significativa, dobbiamo sentirne la benedizione dei Buddha, dei Bodhisattva e di noi stessi e condividerla con tutti gli esseri senzienti.
Ora leggiamo il sūtra (…?...), prima in inglese e poi in italiano, a cui seguirà una beve meditazione.

Segue lettura

Proviamo a riflettere in particolare su alcuni versi; nei discorsi del Buddha vi sono sempre domande e risposte perché secondo la tradizione il Buddha ha dato insegnamenti per trenta - quarantacinque anni e lo ha fatto sempre e soltanto rispondendo alle richieste che gli venivano poste, anche Gesù segue una modalità simile; le domande non sono teoriche o intellettuali, ma formulate per poter risolvere la sofferenza umana, i problemi della vita.
Il Buddha ha risposto ad ogni quesito con bodhicitta e grande compassione e questo è il cuore dell’insegnamento dharmico, non è affatto necessario salire in cattedra, sedersi su un altro trono, convocare un folto pubblico e parlare con supponenza ed eleganza, l’insegnamento di Dharma può essere dato ovunque e in qualsiasi circostanza, per strada, in un bar, in famiglia, purché sia sempre presente la grande compassione e si usino parole di utilità e supporto al prossimo. E’ molto importante non scordare mai questo aspetto.
Spesso nei centri di Dharma si montano troni altissimi su cui siede il maestro, magari con un alto cappello in testa, ed è una scena piuttosto ridicola perché se osserviamo il modo con cui hanno insegnato il Buddha e il Cristo vediamo che hanno aiutato tutte le persone con una grande semplicità e naturalezza.
I praticanti Lam Rim devono sempre ricordare queste stupende tradizioni così potenti nella loro umiltà, seguire l’esempio di san Francesco e dei maestri Kadampa, imparando ad integrarle con l’esistenza inevitabilmente pervasa dalla tecnologia. Non è necessario eliminare questi strumenti di uso comune e indubbiamente utili, ma bisogna usarli mantenendo sempre vigile e attivo lo spirito del Dharma.
Leggiamo il testo in italiano:
“Così ho udito. Una volta che il Beato soggiornava presso Sāvatthī al monastero di Anāthapindika, nel boschetto di Jeta. A notte fonda apparve un deva tanto bello luminoso da far risplendere l’intero bosco. Dopo aver reso ossequio al Buddha il deva porse una domanda in versi al Buddha:
- Molti deva e uomini sono ansiosi di sapere quali siano le azioni benedette che conducono ad una vita di pace e felicità per favore vorresti indicarcelo?-“
Questa è la domanda che ci assilla incessantemente, tutti vorremmo essere felici, in pace, e il Buddha risponde che bisogna evitare la compagnia degli stolti  dimorando invece con i saggi.
Con il termine “stolti” non si riferisce a individui, bensì all’incapacità di distinguere il bene dal male. L’ignoranza impedisce di discernere la corretta indicazione del sentiero da quella falsa che conduce su una strada sbagliata.
Stare con i saggi significa saper sviluppare la saggezza e non scordiamo che nella nostra mente coesistono entrambe, stoltezza e saggezza, non cerchiamo altrove gli stupidi e i saggi, osservando noi stessi osserviamo come a volte siamo trascinati in una frenesia stolta, mentre altre sperimentiamo pensieri proficui, il tesoro prezioso da custodire con cura affinché non vada perduto.
Le scritture spronano a onorare coloro che ne sono degni e avvertono che se lo si fa con coloro non lo sono si spreca tempo. In ogni religione vi sono riferimenti degni di venerazione, nel buddhismo il Buddha, il Dharma e il Sangha.
Coloro che onoriamo sono le nostre infallibili guide e ci offrono protezione e sostegno.
“Stare in un luogo confortevole, aver piantato semi positivi e rendersi conto di essere sul retto sentiero, questa è la più grande felicità."
Il testo prosegue illustrando le qualità necessarie alla realizzazione dell’obiettivo, tra queste vi è quella di risiedere in un ambiente favorevole e civile in cui non vi siano troppe distrazioni, né disturbi e in cui la cultura sia accessibile a tutti e non riservata solo a pochi eruditi.
Il Tibet sta scontando la mancanza di civilizzazione, la spiritualità era profonda e stupenda, ma pochi avevano gli strumenti per comprenderla e praticarla e ora i tibetani sono senza casa e la loro tradizione si disperde.
In occidente le opportunità di avere interscambi fruttuosi con altre culture e religioni sono infinitamente maggiori, proprio perché l’ambiente è favorevole, civilizzato,  possibilmente aperto alle diverse tradizioni, al pensiero altrui e non ristretto entro i limiti delle proprie credenze.
Entrambe le caratteristiche, l’ambiente favorevole e la società civilizzata, sono importanti per la pratica del Dharma.
Avere la possibilità di percorrere il retto sentiero è il risultato delle meritevoli azioni compiute nel passato e che ci permettono di incontrare oggi il Dharma e di gestirlo.
Le azioni meritevoli sono essenzialmente la pratica della pazienza, della generosità e della moralità. La generosità è condividere ogni cosa con gli altri, la moralità è essere mossi da pura compassione, non egoisti, la pazienza è la tolleranza che trasforma in esperienza positiva la sofferenza, le difficoltà.
Nella tradizione cristiana ci riferiamo a Gesù Cristo, un perfetto esempio di pazienza che ha posto in ogni suo atto, pensiero e parola, unita alla generosità così fortemente dimostrata nella lunga agonia della crocifissione; paziente e generoso al punto di donare completamente se stesso agli altri, motivato ininterrottamente dalla moralità della grande compassione. Tutto, anche la sofferenza più lacerante, è in lui positivo, questo è il meraviglioso significato delle azioni meritevoli.
Grazie alle molte azioni meritevoli accumulate in passato tutte quelle che faremo in seguito saranno potenziate e anche l’essere educati ed istruiti, abili nelle professioni e nei mestieri, disciplinati, con un’eloquenza fluida, in un luogo e contesto favorevoli, è la suprema beatitudine.
Un proverbio tibetano ricorda che “quando si beve l’acqua di un luogo bisogna rispettare le leggi di quel luogo”, dunque non bisogna considerare le proprie tradizioni come uniche o superiori, ma adeguarsi e integrarsi con quelle dell’ambiente, utilizzando i mezzi utili secondo la disciplina di quel posto. Tutto deve essere appropriato alla cultura, al tempo e allo spazio in cui ci si trova.
Il testo prosegue ricordando che nella cura dei genitori, della famiglia e dedicandosi ad attività soddisfacenti si trova la più grande felicità.
Nella società tibetana, come in tutto il mondo, è davvero fondamentale rispettare il padre e la madre, è una responsabilità naturale, come lo è aver cura della propria famiglia, cioè della persona con cui si vive e dei figli. Vivere armoniosamente con i propri parenti crea un’atmosfera dharmica.
“Vivere in maniera retta, essere generosi, essere capaci di dare sostegno a parenti ed amici e vivere una vita irreprensibile, questa è la più grande felicità.”
La generosità e le azioni virtuose sono il fondamento di un’esistenza retta in grado di donare gioiosamente felicità agli altri, mentre tutto ciò che non lo è comporta grande sofferenza.
E’ veramente difficile giudicare l’azione in sé, ciò che fa la differenza è la motivazione che la determina, ad esempio bere una tazza di the è un fatto neutrale, ma se lo si fa con attitudine positiva si trasformerà in azione positiva, al contrario, se l’attitudine è negativa diventerà un’azione negativa, per questo non si deve mai biasimare, criticare nessuno, non si conosce la motivazione del suo agire.
“Evitare di commettere cattive azioni, evitare di cedere all’alcool o alle droghe” 
Astenersi dal male consiste nel non commettere azioni non virtuose, mentre le sostanze intossicanti non sono così rigidamente classificabili, la loro valutazione può cambiare da luogo a luogo e da individuo a individuo, quindi è fondamentale la consapevolezza personale che, senza errore, indica ciò che soggettivamente è dannoso e ciò che non lo è.
Un altro punto importante è la stabilità nella virtù, “essere stabili come un corso d’acqua” questa metafora puntualizza che non dobbiamo restare immobili e neppure correre, ma procedere lentamente come un fiume che apparentemente è sempre lo stesso, ma in realtà scorre tranquillamente senza mai fermarsi.
“Essere umili e gentili mostrare gratitudine, essere paghi di una vita semplice e non perdere occasione di imparare il Dharma, questa è la più grande felicità."
L’umiltà è una pratica molto difficile ma bellissima, l’essere paghi indica la capacità di accontentarsi, di essere soddisfatti senza mai scordarsi della gratitudine per il molto che abbiamo, cibo, casa, vita confortevole, tutto è un immenso dono di Dio. Se non proviamo profonda e sincera riconoscenza per tutto ciò che siamo e che ci circonda non potremo mai essere felici, la stessa opportunità di poter ascoltare e praticare il Dharma nel giusto momento deve renderci profondamente grati.
Il Dharma è come il cibo, bisogna nutrirsi nella giusta misura e nel momento opportuno e non in continuazione in modo indiscriminato come se volessimo accumulare quanto più possibile, io ripeto spesso che troppo Dharma non è buon Dharma, bisogna praticarlo nei tempi e nei modi adeguati, senza forzature, ma costantemente.
“Vivere in maniera scrupolosa ed attenta, comprendere le quattro nobili verità e realizzare il nirvana, questa è la più grande felicità.”
Vivere nella consapevolezza e nella presenza mentale, aver compreso le quattro nobili verità e realizzare il nirvāna implica un grande lavoro, è più difficile.
“Vivere nel mondo, con cuore non turbato dal mondo, liberati dalla sofferenza, in pace, questa è la più grande felicità.”
Questo è ciò che dobbiamo imparare, essere nel mondo ma non del mondo, nel samsāra senza esserne disturbati, costruendo così la stabile pace interiore nel Dharma.
Nell’ultimo verso parla al plurale:
“Coloro che realizzano tutto ciò non saranno mai sconfitti ovunque vadano, saranno sempre sereni e lontani dal pericolo, questa è la più grande felicità.”
Per fare ciò abbiamo bisogno di una grande forza spirituale, che non è violenta, ma pacifica e determinata a non creare conflitti, in nessuna società, né momento, né luogo; questa è una realizzazione possibile soltanto percorrendo via di mezzo, non esiste esclusivamente il bianco o il nero ma, come già raccomandato da Aristotele e san Tommaso, “la virtù sta nel mezzo”.
Possiamo concludere, ma non accontentatevi di questa breve spiegazione in cui vi ho dato semplicemente delle chiavi di lettura, delle interpretazioni, dovete continuare a cercare in voi stessi il significato più profondo di questo sūtra pregno della saggezza del Buddha e portarlo direttamente nella meditazione quotidiana.
Domanda: Cosa intendi con troppo Dharma? Puoi fare un esempio?
Lama: La spiegazione potrebbe essere complessa, non è così facile rispondere, sostanzialmente troppo Dharma è voler praticare forzatamente al di là delle proprie capacità del momento, come se ci caricassimo sulle spalle un peso che non siamo in grado di trasportare, anche se in sé è buono, ma non adeguato alle nostre capacità, potrebbe farci male. Si suggerisce di praticare il Dharma nelle sei perfezioni, ognuna con equilibrio e correlazione con tutte le altre, perché se praticassimo solamente la generosità o la pazienza o la moralità o la saggezza senza uguale impegno nelle altre non otterremmo alcun risultato. La pratica eccessiva di una sola perfezione non è buona, non ci fa bene, per questo il Dharma è paragonabile al cibo, ci deve essere un giusto equilibrio tra proteine, vitamine, sali minerali in modo costante e nel giusto momento.
Domanda: Qual è il giusto momento?
Lama: Quando abbiamo fame di Dharma, lo ascolteremo e quello sarà il momento giusto. È come se cercassimo l’energia spirituale necessaria a supportare tutte le azioni quotidiane, quando l’energia finisce le nostre azioni potrebbero diventare negative, e in quel momento avvertiamo la fame e cerchiamo nel Dharma l’energia per rafforzare le azioni positive. 
Per questo non è così facile ottenere l’illuminazione.
Vivere in maniera pacifica porterà ad una morte pacifica e una morte pacifica porterà ad una nascita pacifica che a sua volta porterà ad una vita pacifica.
Il Dharma è qualcosa di molto semplice non è nulla di trascendentale, non richiede cose particolari come vedere con il terzo occhio o essere colpiti sulla testa da strumenti magici, è semplicemente comprendere la realtà che appare ai nostri occhi, cioè la realtà convenzionale attraverso la quale potremo raggiungere la realtà ultima, che darà conferma della realtà convenzionale.
La radice di tutto questo è la grande compassione, infatti il Buddha ha detto che quando possediamo la grande compassione tutte le virtù ci cadranno addosso come pioggia.

Concludiamo dedicando i meriti di questa giornata con la recita degli Otto Versi di Trasformazione della Mente (V. testi annessi pag. I)






Il maestro interiore


Siamo qui per creare un’atmosfera che favorisca lo sviluppo di atteggiamenti positivi che inducono naturalmente pace e tranquillità e sconfiggono le emozioni negative.
La meditazione è la capacità di guardare, di vigilare sulla mente, dunque è centrale la riflessione e l’analisi dell’attitudine interiore, noi però ce ne scordiamo troppo spesso e tutto diventa estremamente complicato; per superare questo ostacolo, è necessario sviluppare presenza mentale e consapevolezza.
La presenza mentale e la consapevolezza non devono necessariamente essere rivolte ad oggetti esterni, al contrario, è indispensabile che siano concentrate sull’osservazione della mente rammentandone l’essenza.
La nostra mente è per natura positiva, per descriverla potremmo ricorrere alla metafora dell’organizzazione del monastero in cui sono cresciuto: noi studenti avevamo un maestro che rappresentava il genitore e vigilava costantemente su ognuno, il fatto stesso di essere costantemente osservati e accuditi ci predisponeva automaticamente a comportarci nel modo migliore, tanto che mantenevamo spontaneamente questa coscienza anche in assenza del maestro. La condizione di interdipendenza che si era creata e la vigilanza del maestro richiamava naturalmente in noi la necessità del comportamento positivo.
Questa è la bellissima funzione del rapporto maestro - allievo, non è il risultato di un sentimento di obbedienza, come potrebbe invece essere il rapporto tra docente e studente nella scuola, qui è fondamentale il senso di rispetto, più è forte il rispetto nei confronti del maestro e più si sarà influenzati dalla sua vigilanza. Non è tanto importante la forza del maestro in sé, quanto la potenza del rispetto nei suoi confronti.
Il mio maestro era una persona molto buona e semplice, non particolarmente istruita, io ho proseguito in studi più avanzati dei suoi, ma nemmeno per un istante il mio profondo rispetto per lui è venuto meno e questo atteggiamento è stato di grande beneficio più per me che lui, è davvero interessante esaminare questa evidente interdipendenza dei fenomeni.
Nella meditazione si verifica la stessa situazione, la mente vigila su se stessa nella relazione con il maestro interiore, ed è una base assolutamente essenziale affinché un maestro esterno possa esserci di supporto nel cammino.
Nella meditazione è fondamentale riconoscere il maestro interiore, che è la stessa mente che vigila su se stessa.
La mente di consapevolezza e di presenza mentale è la mente dharmica, la mente meditativa, la mente positiva, e quando è attiva ogni nostra azione è retta.
Lo sviluppo dei pensieri positivi rafforza il maestro interiore che, così potenziato, vigila maggiormente la mente stessa migliorandola progressivamente.
Nella meditazione sviluppiamo pensieri positivi, persino un po’ di bodhicitta e di saggezza, però non appena ritorniamo ai consueti impegni tutto svanisce in un istante perché non sappiamo trasformare queste esperienze nel maestro interiore, l’unico in grado di vigilare sui buoni pensieri e di mantenerli.
Dobbiamo accudire i pensieri positivi, sapendo che per natura due concetti contrapposti non possono essere indirizzati contemporaneamente verso lo stesso oggetto, la logica è inconfutabile, non si possono sperimentare nello stesso momento pensieri di rabbia e di compassione nei confronti dello stesso individuo.
Forse è possibile sperimentare parallelamente rabbia verso una persona e compassione verso un’altra, ma certamente le due emozioni non possono convergere simultaneamente sullo stesso oggetto.
Ciò significa che finché la nostra mente è vigilata dal maestro interiore può solo avere pensieri positivi e non quelli negativi.
La meditazione non è soltanto rimanere seduti, immobili, in silenzio, va ben oltre, è l’attitudine interiore che dobbiamo mantenere vigile giorno e notte per tutta la vita.
Ci sono opinioni veramente bizzarre nei confronti della meditazione, sovente è vissuta come un esercizio ginnico che dopo un’oretta ci fa sentire in perfetta forma, e purtroppo molti centri di Dharma si trasformano in palestre in cui si paga la quota di iscrizione per gli allenamenti, e tradiscono così la loro vera funzione che è quella d essere spazio aperto in cui tutti sono accolti affinché possano meditare e sviluppare attività positive. I centri di Dharma dovrebbero essere come le chiese, che qui a Roma sono tante e bellissime, in cui chiunque può entrare, senza essere disturbato da nulla e da nessuno, e praticare contemporaneamente meditazione e preghiera.
La meditazione ha proprio la funzione di rammentare tutti quei pensieri positivi che usualmente teniamo ben lontani e trasformarli nel maestro interiore in modo che, anche dopo la sessione meditativa in senso stretto, continui a rimanere attento e vigile sulla nostra mente.
Il maestro interiore è fondamentale; all’inizio, come bambini, possiamo aver bisogno del maestro esteriore, ma una volta cresciuti dobbiamo confidare nel maestro interiore perché nessun altro è in grado di mantenere lo stesso vigile, attento, inconfutabile controllo.
Con il concetto “pensieri positivi” ci riferiamo a tre aspetti molto semplici: la rinuncia, il bodhicitta e la saggezza che realizza la vacuità, la realtà ultima.
Molti fraintendono il termine rinuncia, si confondono, eppure basta sapere che la rinuncia è l’opposto dell’attaccamento, non è ritirarsi in una grotta sulle montagne tibetane.
Altrettanto, pensando al bodhicitta alcuni visualizzano uno yogi che pratica incessantemente in qualche eremo sperduto, ma bodhicitta è semplicemente l’esatto opposto della rabbia e dell’odio.
Infine, la saggezza che realizza la vacuità, ossia la realtà ultima, è l’opposto dell’ignoranza fondamentale.
Per comprende il significato dell’ignoranza fondamentale e l’interrelazione tra questi tre fattori dobbiamo riflettere sulle emozioni di rabbia e odio, da dove provengono? - dall’attaccamento, e l’ attaccamento da cosa nasce? - dall’ignoranza.
Questo è un modo semplice e chiaro per comprendere il significato di rinuncia, bodhicitta e saggezza senza doversi inoltrare nelle definizioni più articolate e complesse.
Spesso abbiamo l’errata impressione che l’attaccamento sia una buona cosa e che l’ignoranza sia un cuscino che ci sostiene comodamente sistemati su una solida base in grado di proteggerci da ogni instabilità e precarietà, ma questa è una grande illusione che non ha corrispettivo nella realtà, eppure proprio su queste fondamenta di ignoranza costruiamo l’attaccamento ad ogni cosa che immediatamente difendiamo costruendo poderose barriere di rabbia e odio nei confronti di tutto ciò che è percepiamo diverso e pericoloso per le nostre certezze.
Questa è la correlazione esistente da un lato tra ignoranza, attaccamento, rabbia, odio, e dall’altro tra rinuncia, bodhicitta, saggezza.
E’ possibile conseguire l’obiettivo della rinuncia, ma non si riuscirà mai a realizzare lo scopo dell’attaccamento che è in sé irraggiungibile in quanto non potrà mai essere soddisfatto.
E’ possibile raggiungere l’obiettivo della bodhicitta e della compassione ma è impossibile realizzare la meta dell’odio e della rabbia.
Questo è il motivo per cui ignoranza, attaccamento e odio sono inestinguibile fonte di problemi, difficoltà e ulteriori ostacoli, mentre compassione e rinuncia costruiscono in noi pace, tranquillità e gioia poiché i loro traguardi sono possibili, mentre quelli dell’attaccamento e dell’odio e della rabbia non lo sono.
Spesso noi siamo in una condizione un po’ mista, durante la seduta di meditazione riusciamo a dare spazio a una certa rinuncia, bodhicitta e saggezza, ma non appena ritorniamo nella frenesia delle consuete attività, ignoranza, attaccamento, rabbia e odio hanno il sopravvento.
Nella condizione attuale non è per noi possibile eliminare completamente ignoranza, attaccamento, rabbia e odio, però possiamo ridurle ed è già un ottimo risultato, e in quest’operazione il maestro interiore è un aiuto essenziale.
Il maestro interiore è gentile e non si contrapporrà mai con violenza a questi pensieri negativi, ma con la sua silenziosa vigilanza farà sì che la mente si trasformi.
Oltre a non avere alcun senso sarebbe davvero impossibile un conflitto tra rabbia e compassione perché, essendo rappresentazioni mentali contrapposte, non possono coesistere contemporaneamente.
L’attaccamento, la rabbia e la compassione, la bodhicitta, devono rimanere rispettivamente nel loro ambito, e l’arbitro che vigila sulla loro esatta collocazione è il maestro interiore.
La compassione è la qualità del Dharma che accoglie tutto con serenità, pace, non violenza, nella pienezza amorevole, e non potrebbe mai ingaggiare una lotta, combattere, opporsi, contrastare.
Il maestro interiore è l’arbitro che vigila e disciplina la mente, mette ordine e crea sempre maggior spazio ai pensieri positivi riducendo quelli negativi, mentre il maestro esteriore è l’allenatore che dà consigli, spiegazioni sul Dharma, ma non può esprimere giudizi o impartire punizioni.
Ognuno deve eseguire con responsabilità il proprio compito, rispondere al proprio ruolo; pensate a come funzionerebbe tutto bene se gli individui si attenessero a questo modello!..
La responsabilità maggiore è quella del maestro interiore e per questo dovremmo accudirlo con particolare attenzione, consapevoli che in noi convivono tutte le idee: ignoranza e saggezza, attaccamento e rinuncia, rabbia e compassione, odio e bodhicitta, e soltanto grazie al controllo del maestro interiore che li pone nella giusta collocazione, quantità e funzione, anche i pensieri negativi potranno essere trasformati positivamente in questa esistenza samsarica.
E’ un po’ come la pizza, un piatto considerato alimento completo purché sia preparato con le giuste dosi degli ingredienti necessari, l’eccesso di un solo elemento porterebbe uno squilibrio nutrizionale rovinandone anche il sapore.
E’ importantissimo mantenere sempre in ogni situazione il giusto equilibrio senza mai contrapporsi con forza ai pensieri negativi, sarebbe davvero ridicolo arrabbiarsi perché si prova attaccamento verso qualcosa, in questo modo le emozioni negative diventerebbero due. Noi siamo nel samsāra e dobbiamo dunque viverlo nel modo migliore, non combatterlo, il samsāra positivo è il Dharma.
La pratica dei sette rami ci guida e aiuta nello sviluppo del maestro interiore, ora leggiamo dal verso 24 del secondo capitolo del Bodhicaryāvatāra di Sāntideva, sono versi di facile comprensione e iniziano con la resa degli omaggi:
Con inchini numerosi quanto gli atomi nei campi di Buddha, mi prosterno davanti ai Buddha dei tre tempi, davanti al Dharma, davanti all’altissima assemblea.
Si prende rifugio nei tre gioielli, si rende omaggio ai Buddha dei tre tempi, al Dharma e all’assemblea dei Bodhisattva trasformando il nostro corpo in infiniti atomi dell’universo, perché se ci prosterniamo con questo solo corpo ne abbiamo il conseguente e unico beneficio, ma se con la mente riusciamo ad inchinarci con tanti corpi quanti sono gli atomi nell’universo avremo una quantità corrispondente di benefici.
La prosternazione sconfigge l’orgoglio e l’arroganza, è un saluto umile e rispettoso, è dunque una pratica importante che non dovrebbe essere solo rivolta ai Buddha, ma tutti gli esseri senzienti. Non ha alcun senso prosternarsi di fronte alle statue del Buddha e ignorare il prossimo.
Questo è il modo di manifestare rispetto ai tre gioielli, Buddha Dharma e Sangha.
Si può vedere una corrispondenza nel Buddha con il Padre, nel Dharma con lo Spirito Santo e nel Sangha con il Figlio, per cui rispettando il padre si devono automaticamente rispettare il figlio e tutte le persone che sono amate dal padre.
Venero tutti i cāitya e i luoghi legati ai Bodhisattva, mi inchino ai miei maestri e agli aspiranti spirituali che sono degni di lode
Si esprime il rispetto alle cause della generazione di bodhicitta che in questo contesto sono gli insegnamenti e dalle pratiche  del Bodhisattva, però al fine di ottenere il frutto occorre che queste cause incontrino le giuste condizioni, qui rappresentate dagli altri esseri che, esistendo, ci permettono di sviluppare la compassione, ecco perché dobbiamo porgere loro omaggio.
Fino alla sede del risveglio prendo rifugio nel Buddha, prendo rifugio nel Dharma e nell’assemblea dei Bodhisattva.
Ai Buddha perfetti schierati in tutte le direzioni e anche ai Bodhisattva di grande compassione, giungendo le mani in segno di rispetto, dichiaro:
Si procede con la pratica della purificazione detta anche della confessione:
Nel corso del ciclo senza principio dell’esistenza e ancora in questa stessa nascita, il male che io, un bruto, ho commesso o fatto commettere,
di qualsiasi cosa io, illuso, abbia goduto a mio detrimento, quella colpa confesso, tormentato dal rimorso.”
Nel samsāra senza inizio, sia in questa che nelle precedenti esistenze, il male che anche involontariamente ho commesso o fatto commettere ad altri è il risultato dell’ignoranza, dell’illusione e in cui è incluso anche l’apprezzamento delle azioni negative altrui.
Soltanto ora che ho appreso il Dharma, e quindi ho iniziato a osservare la realtà nella sua vera essenza, posso vedere tutti gli errori commessi.
Questa confessione non è rivolta ad un individuo particolare, ma all’intero universo, al Buddha, Dharma, Sangha e a tutti gli esseri senzienti, con essa si riconoscono e confessano le proprie azioni negative e questa stessa presa di coscienza e ammissione genera una potente azione purificatrice.
“Il danno che ho recato, con l’arroganza, ai tre gioielli, o alle mie madri, ai miei padri, ad altri degni di rispetto, con il corpo, la parola e la mente;
Questo è un punto fondamentale perché ciò che ho compiuto contro altri è particolarmente negativo.
Il male crudele che per malvagità ho commesso, corrotto da molte colpe; o Signori, tutto questo io confesso.
Come posso sfuggirgli? Sono continuamente spaventato, o Signori. Che la morte non venga a me troppo presto, prima che la mole del male sarà distrutta! 
Come posso sfuggirgli? Salvatemi in fretta, perché la morte verrà presto, prima che il mio male sarà distrutto!
Anche questo è essenziale, sapere di doversi purificare dalle negatività al più presto perché la vita non è lunga e la morte può sopraggiungere anche adesso, ma come purificarsi? - con il maestro interiore.
I Buddha e i Bodhisattva sicuramente non puniranno mai nessuno, non li dobbiamo temere, sono per noi esempi, ci indicano la via della purificazione.
Concludiamo la giornata con la lettura degli Otto Versi di Trasformazione della Mente (V. testi annessi pag. I).

Grazie e buon Dharma.








Dharma e Consapevolezza

(Prima Sessione)

Grazie per essere qui, la nostra è una pratica di pace, non quella mondiale, ma essenzialmente interiore che dobbiamo conoscere e coltivare così da poter contribuire, in un momento successivo, alla pace del pianeta.
Un ulteriore passo è la pace del cosmo, globale, che abbraccia tutto l’universo, è presente in molte società ed è definita pace di Dio, del Buddha.
Qualsiasi livello di pace può essere raggiunto esclusivamente tramite la propria pace interiore.
La pace dell’individuo, del mondo e del cosmo, sono tre aspetti inscindibilmente correlati tra loro ed è fondamentale, nella meditazione, conoscerli, riflettervi e contemplarli.
Non è possibile rimanere individualmente in una condizione realmente pacifica se si nega la pace nell’intero pianeta, così come non è possibile dare la pace ad altri se non si ha pace in se stessi.
La pace non è riferita soltanto agli esseri viventi, va ben oltre, riguarda anche la natura terrestre e cosmica, una visione globale che deve sempre essere mantenuta con chiarezza nella meditazione che sarà così maggiormente efficace e produttiva per noi, per gli altri e per l’universo.
Considerando tutti questi aspetti cercheremo insieme di sviluppare la tranquillità, la pace interiore, la pratica del Dharma che è l’insegnamento del Buddha, sapendo che non esistono contraddizioni nei suggerimenti offerti dalle diverse tradizioni religiose, perché tutte, indistintamente, insegnano a costruire la pace universale.
Sarebbe importante studiare e conoscere tutte le religioni, si constaterebbe così che le differenze sono soltanto relative al metodo, perché tutte convergono, indistintamente, nel messaggio di bene e pace globali.
Il metodo per produrre pace e tranquillità interiore consiste nell’attuazione della consapevolezza e della presenza mentale, una pratica che è meditazione.
Che cosa significa consapevolezza? che cosa significa presenza mentale? e come si possono applicare per produrre pace interiore?
In termini molto semplici, consapevolezza e presenza mentale indicano la necessità di non dimenticare mai, la mente, e non così facile, perché la mente deve ricordarsi della mente stessa, ma noi la occupiamo in un ininterrotto lavorio e la allontaniamo da se stessa, facendole scordare ciò che sta facendo e ciò che è.
Consapevolezza e presenza mentale non devono essere concentrate su un oggetto esterno, richiedono invece tutta l’attenzione rivolta alla propria mente e a ogni suo movimento, come se la mente osservasse se stessa in uno specchio, dunque l’essenza della pratica della consapevolezza e della presenza mentale è la mente che è in grado di vedere chiaramente il proprio riflesso nello specchio.
Quando cerchiamo di mantenere la mente nella sua funzione di mente, si produce automaticamente pace e tranquillità, perché in quel momento la mente è controllata da se stessa.
La mente assoggettata ad un controllo esterno invece non può mai essere tranquilla e pacifica, è inevitabilmente turbata da eccitazione e agitazione, mentre la mente che controlla se stessa rimane naturalmente e stabilmente serena e in pace.
Tutti abbiamo sperimentato come sia difficile subire il controllo, anche il migliore, di altri, si è costantemente tesi, frustrati, infelici, mentre se si è in grado di essere autosufficienti, di avere il pieno controllo di se stessi, anche in situazioni poco favorevoli, si è sereni, tranquilli, in pace.
La chiave per praticare la consapevolezza e la presenza mentale correttamente è l’introspezione. Nel momento in cui la mente è attiva anche il fattore mentale dell’introspezione deve vigilare altrettanto attivamente sulla mente.
Questa pratica è descritta nel quinto capitolo del Bodhicaryāvatāra di Sāntideva:
Chi desideri sorvegliare la sua pratica, deve sorvegliare con scrupolo la sua mente. E’ impossibile sorvegliare la pratica senza sorvegliare la mente distratta.
Il verso appena letto si riferisce alla pratica del Dharma nel mantenimento della pace e della tranquillità, ma per poterla realizzare è necessario saper sorvegliare la mente.
Esistono vari metodi per coltivare un’apparenza di pace, come visualizzare stupendi paesaggi, o concentrarsi su un oggetto esterno, ma in questo modo si otterrà solamente una superficiale è momentanea sospensione di tensione, l’unico metodo per sviluppare una pace autentica e duratura è la pratica della consapevolezza, cioè la capacità di sorvegliare la propria mente.
Per poter praticare con successo la presenza mentale dobbiamo innanzitutto avere una buona motivazione, senza questa base la pratica sarebbe vana e soprattutto contraddittoria, se infatti ci chiudessimo in un atteggiamento egoistico concentrato esclusivamente su noi stessi, otterremmo soltanto agitazione e negatività per noi e per gli altri, in assoluta antitesi a pace e tranquillità.
Per superare l’ostacolo è necessario ricorrere ai mezzi abili e in questo caso il giusto metodo è la retta intenzione che non è mai antitetica e permette di avanzare speditamente nel cammino.
Se invece l’intenzione fosse sbagliata, la nostra pratica, utilizzando una metafora, si bloccherebbe come un’auto impantanata nel fango le cui ruote girando convulsamente quanto inutilmente ottenendo il solo risultato di affondare sempre di più.
Questo fenomeno è piuttosto comune nella società moderna, sono numerosi i novelli meditatori attentissimi ad assumere posizioni perfette come statue di Buddha e preoccupati di avere le giuste espressioni esteriori, però al primo rumore si arrabbiano moltissimo e si agitano senza controllo, con conseguente accumulo di negatività dannosa e controproducente.
Per evitare questo pericolo non dobbiamo mai disgiungere metodo e saggezza, il metodo in questo caso è una buona motivazione e la saggezza è il motore che ci fa procedere.
L’importanza delle motivazioni positive è ribadita in ogni religione e accolta da tutti i praticanti spirituali, anche al di fuori delle devozioni istituzionali, perché nessuno può negare l’amore e la compassione.
Dobbiamo permanentemente mantenere la buona intenzione che permette di risvegliare in noi amore e compassione riportandoli alla vita perché, anche se non morti, troppo spesso giacciono in noi in uno stato di coma profondo.
L’amore e la compassione sono il tesoro più prezioso, un dono di Dio, del Buddha, dei Bodhisattva, e sarebbe davvero triste lasciare ammuffire una simile ricchezza nell’immobilismo del coma.
La spiritualità non può essere programmata elettronicamente, ma deve essere scavata nella propria interiorità con la cura di un archeologo che riporta alla luce con un lavoro lungo e paziente inestimabili tesori sepolti.
La preghiera è molto importante e non c’è distinzione tra lo sviluppo di amore e compassione e la preghiera che pone le basi della buona motivazione, la espande e rende completa.
Nella preghiera chiediamo a Dio, al Buddha, ai Bodhisattva, agli Arhat di aiutarci nel proposito di portare pace e tranquillità, perché è una grande missione che non potremmo mai realizzare soltanto da noi stessi.
Preghiera, consapevolezza e buona intenzione ci permettono di maturare tranquillità e pace e di estendere successivamente questa ricchezza a tutti gli esseri e al cosmo intero.
Dunque fermiamoci qualche istante cercando di sviluppare amore, compassione e bodhicitta nel rifugio nei tre gioielli con l’auspicio della generazione di bodhicitta e nella lettura degli Otto Versi di Trasformazione della Mente. Io leggerò in tibetano molto lentamente e voi seguite il testo italiano riflettendo su ogni parola, poi mediteremo rilassati, con corpo e mente tranquilli, consapevoli che la mente tranquilla è vigilata e protetta dall’introspezione della stessa mente. (V. Testi annessi pag. I).

Segue lettura e meditazione.

Riprendiamo ora il testo del Bodhicaryāvatāra dal verso 16
L’Onnisciente ha dichiarato che ogni recitazione e austerità, pur se praticate per un lungo periodo, sono del tutto inutili se la mente è concentrata su qualcos’altro o è ottusa.
Coloro che non hanno sviluppato questa mente, che è nascosta e contiene la somma intera del Dharma, girano in cerchio invano tentando di ottenere la felicità e distruggere la sofferenza.
Le due espressioni sono complementari, perché la mente è spesso nascosta, e altrettanto lo sono in noi l’amore e la compassione e anche se facciamo chiasso e suoniamo il campanello, non si risvegliano, non emergono mai.
E poi c’è un segreto della mente, che ha diversi livelli e differenti qualità; la mente ha qualche segreto che noi non conosciamo, questo è un altro problema, non sappiamo dove si trovi esattamente perché ovunque tocchiamo ne sentiamo la presenza, è in tanti livelli.
Qual è il segreto della mente? - il segreto profondo della mente è che ogni cosa può essere cambiata cambiando la mente.
Se non conosciamo questo segreto ci muoviamo in senso contrario, cerchiamo di trasformare il mondo intero fuorché la nostra mente e così diventiamo simili ai personaggi dei videogame che sparano continuamente, in ogni direzione, con molto rumore e agitazione per nulla, e se domandassimo loro cosa stanno cercando la loro risposta sarebbe: “la pace nel mondo”, che però è assolutamente introvabile con questi metodi, perché la vera pace è nella nostra mente e non all’esterno.
Se non siamo in grado di sviluppare la pace al nostro interno, anche se percorressimo tutta la terra armati come i super-eroi dei fumetti non troveremmo nemmeno l’ombra della pace, dunque l’importante segreto della mente è la possibilità di cambiare la propria mente e attraverso essa cambiare tutto, mentre non è possibile l’opposto, che anzi sarà controproducente.
La pratica che abbiamo cercato di fare questa mattina è molto bella e ha un nome semplice: “Dharma e Consapevolezza”, e Dharma significa Pace, così potremmo anche dire: “Pace e Consapevolezza”, nel buddhismo esistono molti nomi per definire la perfezione di questa stupenda attitudine, in sanscrito è “Māhamudhrā”, in tibetano “Dzogchen” e nel linguaggio contemporaneo “Pace”, il Buddha lo ha definito semplicemente “Dharma”.
E’ dunque fondamentale scavare nella propria mente con amore e compassione e automaticamente si produrrà pace e tranquillità, questa è una grande forza interiore.


(Seconda Sessione)

Apriamo la sessione continuando con la lettura del Bodhicaryāvatāra dal verso 18
Perciò dovrei governare e sorvegliare bene la mia mente. Se lascio andare il voto di sorvegliare la mente, che ne sarà dei miei tanti altri voti?
Come qualcuno, nel mezzo di una folla impetuosa , con grande cura protegge una ferita, così, nel mezzo di una cattiva compagnia, sempre si dovrebbe proteggere la ferita che è la mente.
Temendo un leggero dolore alla ferita, proteggo la ferita con grande cura. Perché non la ferita che è la mente, temendo i colpi delle montagne schiaccianti dell’inferno?
Sāntideva, un eccellente meditatore, in questo scritto espone la sua esperienza in cui ha potuto verificare come la capacità di sorvegliare la mente sia la disciplina più importante da cui derivano di conseguenza tutte le altre, è un metodo fondamentale per ottenere tranquillità e pace.
Anche questo potrebbe essere un segreto della mente, il metodo per tranquillizzare la mente è osservarla, sorvegliarla, non lasciarla andare via, bensì mantenerla nel controllo della stessa mente.
In questi versi si vuole offrire una prova logica di quanto affermato, ed è forse la miglior risposta a coloro che, soprattutto oggi, cercano di essere pacifici, tranquilli e gentili, ma che, non ricevendo in cambio un trattamento corrispondente, perdono all’istante ogni presunta tranquillità e sono dominati da agitazione, rabbia e discussioni infinite quanto inutili.
Però la responsabilità dell’irrequietezza non può mai essere imputata al prossimo, bensì è provocata unicamente dalla ferita aperta e al primo contatto dolorosa della mente, così invece di accusare gli altri, dovremmo essere in grado di riconoscere la nostra stessa debolezza e comprendere che è la vera causa della sofferenza.
Il nostro compito è quello di proteggere questa ferita, di curare la mente. Leggiamo dal verso 23
Giungendo le mani, rendo questo atto di saluto a coloro che desiderano sorvegliare la loro mente. Con ogni vostro sforzo, vigilate su presenza mentale e consapevolezza.
Proprio come un uomo debole per una malattia non è in grado di compiere nessun lavoro, così una mente distolta da quelle due non è in grado di compiere nessun lavoro.
Perché non possiamo affrontare chi ci contrasta mantenendo la tranquillità e la pace? La causa è la nostra debolezza, non abbiamo sviluppato realmente la pace interiore in grado di mantenersi inalterata in ogni circostanza, la responsabilità è dunque unicamente nostra, è come se fossimo indeboliti e immobilizzati da una malattia.
Ciò che si è ascoltato, che si è ponderato, o che si è coltivato nella meditazione, come acqua in un vaso che perde, non si ferma nella memoria di una mente che manchi di consapevolezza.
Una caratteristica fondamentale della consapevolezza è quella di non limitarsi allo studio, all’analisi dei fenomeni, ma anche alla capacità di ritenere nella mente ciò che si è acquisito.
Domanda: Tu dici che la nostra mente è ferita e a causa di ciò noi perdiamo la calma quando qualcuno ci contrasta e che ciò non è dovuto a qualcosa presente nella mente dell’altro, ma come possiamo noi riconoscere questa differenza e proteggerci dalle reazioni negative?
Lama: Dovremmo guardare in noi stessi, controllare ed evitare, ciò che causa questa reazione.
Domanda: Anche se questa emozione è collegata al desiderio?
Lama: Dipende dalla natura del desiderio, se è positivo è possibile che i benefici superino le ferite del momento, ma se è negativo queste stesse ferite saranno aggravate e consolidate.
Domanda: Il controllo della mente è riferito non soltanto a ciò che mi riguarda direttamente, ma anche ad eventi che colpiscono il mondo perché noi non siamo isole, come possiamo evitare questo tipo di sofferenza, controllare la mente a fronte di avvenimenti su cui non possiamo intervenire?
Lama: Esistono due tipi di sensibilità, una positiva connessa ad amore e compassione, e una negativa, correlata all’attaccamento e all’avversione. Se si è irritati dalle notizie che riguardano il mondo esterno, ma al contempo si prova amore e compassione, la reazione è in sé positiva e la sofferenza che sentiamo ci induce a creare pace, se invece avvertiamo solo avversione o attaccamento questa emozione è nociva, non produce nulla di buono e deve essere evitata.
Domanda: Se approfondendo la consapevolezza prendiamo una decisione, giusta per noi ma dolorosa per un'altra persona, come possiamo mantenere questa scelta nella tranquillità e pace verso noi stessi sapendo che causa un inevitabile dolore ad altri?
Lama: Amore e compassione si fondano sull’equanimità rivolta a tutti gli esseri senzienti in modo perfettamente uguale e universale, non riguarda mai un solo individuo o un ristretto gruppo di persone, non è dunque possibile definire questa pratica in base alle reazioni personali, tutto dipende essenzialmente dalla purezza delle nostre motivazioni e atteggiamenti.
L’amore e la compassione sono una realtà vastissima e profonda rivolta a tutti in modo perfettamente equanime.
Con l’amore e la compassione è come se fossimo sulla cima di una montagna e osservassimo l’intera vallata sottostante, non sarebbe possibile isolare ogni individuo, lo sguardo, con il crescere del dislivello, si espanderebbe in un arco sempre più ampio e sempre meno potremmo distinguere i soggetti singolarmente, invece uniti nella visione universale ed equanime.
La nostra pratica non è determinata dai cambiamenti di una singola persona o cosa, dipende dalla situazione generale e dalle connessioni con noi stessi.
Domanda: Potresti definire meglio il concetto di pace cosmica, rispetto a quella personale e universale?
Lama: La pace cosmica ad esempio è trasformare questo mondo nella terra pura, nel paradiso, è la trasmissione di quest’aspirazione, e non è così facile, ma ogni individuo ha la possibilità di contribuire attivamente alla sua realizzazione, così come Cristo, Buddha, i Bodhisattva.
Facendo le guerre distruggiamo la pace cosmica, mentre nell’amicizia e nella fraternità cooperiamo alla sua costruzione.
La pace cosmica è una condizione pacifica prodotta da uno sforzo comune e dona esperienze di pace a tutti.
Molti confondono la pace cosmica con la trasformazione del mondo in terra pura, in paradiso, in cui tutti diventano automaticamente divinità in costante stato di beatitudine, liberati magicamente, senza sforzo o impegno alcuno da qualsiasi sofferenza. Ma in realtà è diverso, alcuni problemi universali forse possono essere risolti dalla pace cosmica, ma a livello individuale nulla di tutto ciò è realizzabile senza uno sforzo e impegno ininterrotti.
Adesso leggeremo un importante testo riguardante la realtà ultima dei fenomeni e utilissimo per eliminare tutti gli ostacoli sia in relazione alla pace cosmica che a quella individuale. Si legga dunque lentamente, riflettendo su ogni parola il sūtra del cuore. (V. testi annessi pag. II).

Segue lettura

A livello ultimo non esiste nulla, ecco un altro segreto della mente, anche la mente si estingue e questa è la sua bellezza, la bellezza di ogni cosa nella sua essenza. Così possiamo trattare e rispettare tutto con assoluta equanimità: sofferenza - felicità, buono - cattivo, giusto - sbagliato, alla fine tutto è uguale.
Fino a quando non raggiungeremo questo livello di comprensione ogni fenomeno sarà caricato da infinite diversificazioni, distinzioni, soltanto quando avremo una visione limpida della realtà, tutto sarà uguale in una pace assoluta, il nirvāna.
Che cos’è la sofferenza? Perché è così negativa? Perché non la vogliamo? - Ad un livello ultimo non c’è nessuna ragione, e lo stesso vale per la felicità, che cos’è la felicità? Perché la rincorriamo continuamente? Quanta ne vogliamo?
Tutti questi affanni dipendono dalla condizione di coma in cui dorme la mente, infatti il Buddha è detto il risvegliato perché la sua mente è uscita dallo stato comatoso, è vigile, desta, saggia, libera dal torpore dell’ignoranza che invece impedisce a noi di vedere con chiarezza.
Il Sūtra del Cuore è un testo magnifico, illuminante, così come lo sono l’amore e la compassione, è importante eliminare la sofferenza, ma lo è altrettanto la natura ultima dei fenomeni.
L’incontro di oggi mi ha procurato una grande gioia e ringrazio tutti gli amici di Dharma.
Dedichiamo l’accumulazione di meriti a beneficio di tutti gli esseri senzienti, in particolare a coloro che in questo momento stanno soffrendo.







Meno desideri meno sofferenza


Buon giorno a tutti, l’incontro di oggi scaturisce dal desiderio di meditare e di apprendere qualcosa di utile per la vita.
Sicuramente tutti abbiamo l’istintivo desiderio umano, fondamentalmente positivo, di godere di esperienze piacevoli ed evitare quelle spiacevoli, per cui è necessario chiedersi se ciò che stiamo cercando è rivolto unicamente al nostro personale beneficio o è aperto agli altri e questa diversificazione è assolutamente fondamentale nella pratica del Dharma.
Se il nostro ideale di felicità è limitato al nostro benessere ed esclude tutto ciò che ci circonda, significa che abbiamo una concezione immatura e superficiale della vita e la nostra ricerca non è altro che lo sterile risultato dell’attaccamento. Ci comportiamo come bambini piccoli e quando il capriccio non ottiene quanto ambito soffriamo in modo abnorme, molto di più di quanto l’evento in sé comporterebbe.
La sofferenza è già intrinsecamente pesante, e potremmo vivere molto più serenamente nell’equilibrio naturale se non aggiungessimo alla situazione gli ulteriori pesantissimi macigni dell’egoismo.
La vita non è solo dolore è anche felicità e la sofferenza vissuta secondo la sua giusta misura ci permette di assaporare pienamente i momenti di gioia e serenità.
Invece, maggiori sono gli atteggiamenti egocentrici più sofferenza si crea, la volontà di afferrare a qualunque costo l’appagamento personale e di respingere ogni afflizione appartiene alla categoria dei “più desideri”, che non è riferita alla loro quantità ma all’esclusività del volere qualcosa soltanto per sé, in modo inconsapevolmente egoistico determinato dall’oscuramento mentale e dall’ignoranza. Non riconoscendo questo aspetto nella sua vera essenza appesantiamo la nostra vita con un inutile dolore e una continua insoddisfazione.
Al contrario il desiderio che tutti gli esseri godano della completa felicità è altruismo che, non solo non porta nessuna sofferenza, ma crea in noi un’intensa, solida gioia.
Certamente non è possibile eliminare con un solo colpo di spugna l’ignoranza e gli oscuramenti mentali, causa dei desideri, ma pazientemente, attraverso la pratica della saggezza nella conoscenza e nella concentrazione, è possibile ridurli progressivamente.
Se il concetto di concentrazione è relativamente semplice, quello della conoscenza è più complesso e, in questo caso, è strettamente connesso alla saggezza, è la conoscenza della natura interdipendente della realtà, che comporta nel suo approfondimento la riduzione degli oscuramenti mentali e dell’ignoranza.
Gli oscuramenti mentali e l’ignoranza ci costringono in una semicecità, non vediamo per nulla gli altri, e male, confusamente distorti, noi stessi. Non siamo in grado di prendere in considerazione gli esseri e le loro necessità, vorremmo valorizzare soltanto il nostro io di cui abbiamo però una percezione oscurata, non reale, distorta, perché avulsa dalla natura interdipendente dei fenomeni.
Se soltanto cominciassimo considerare l’esistenza degli altri esseri avremmo già compiuto un primo passo verso il riconoscimento dell’interdipendenza dei fenomeni, mentre, se restiamo incatenati alla visione angusta del nostro presunto io, siamo dominati dall’oscuramento mentale che ci affonda sempre più nella sofferenza dell’ignoranza.
L’ignoranza fondamentale, termine filosofico buddhista, è un enorme impedimento, comparandola ad un concetto cristiano potremmo dire che è il peccato originale, se si chiede ai filosofi da dove provenga nessuno sa rispondere e si può dedurre che sia in essere da tempo senza inizio.
Dovremmo sempre soffermarci a comparare le terminologie proposte dalle differenti culture, orientali e occidentali, perché in essenza esprimono gli stessi concetti sulla vera natura dell’essere umano.
E’ dunque importante meditare sul peccato originale, cioè sull’ignoranza fondamentale, sul desiderio, sull’attaccamento, sulla rabbia.
Quando meditate sul mandala, sulle divinità, contornandovi di immagini paradisiache, vi beate in illusioni inutili e improduttive, mentre meditando sull’ignoranza fondamentale, sull’attaccamento e sulla rabbia, che sono reali, il vostro cuore si apre alla visione chiara.
Lo stato meditativo è per definizione una condizione di calma, di tranquillità, mentre le emozioni conflittuali di avversione, attaccamento e ignoranza sono cariche di agitazione e per questo è necessario affrontarle direttamente nella meditazione che permetterà di curarle e calmarle.
Desiderare la felicità soltanto per sé stessi è qualcosa di assolutamente contraddittorio e impossibile perché ogni fenomeno è interdipendente, nulla può essere in modo intrinseco, avulso dalle connessioni che ne permettono l’esistenza. La nostra felicità è inscindibilmente correlata a quella degli altri e ogni tentativo di scindere questo naturale connubio ne elide ogni possibile ottenimento trasformandola in grande sofferenza.
Gli stessi oggetti del nostro desiderio di felicità dipendono da moltissimi fattori di cui dobbiamo essere consapevoli e imparare a rispettarli perché la visione della natura interdipendente della realtà riduce automaticamente la nostra ignoranza.
E’ un errore pensare che la felicità dipenda soltanto da Dio, dai Buddha, dai Bodhisattva, dai Santi che veneriamo e preghiamo, dipende anche da ogni istante della nostra vita, dalle persone che ci circondano e verso le quali dobbiamo avere altrettanta devozione, e dipende ancora dagli esseri dei reami inferiori che si trovano in stati di sofferenza peggiori, verso tutti dobbiamo nutrire lo stesso profondo rispetto perché tutti insieme costituiscono la felicità, non possiamo privilegiare alcuni negando gli altri, l’interrelazione tra ogni essere è imprescindibile.
E’ interessante esaminare il rapporto con gli animali domestici, c’è un reale continuo interscambio di felicità e sofferenza, il benessere dell’animale dipende dal suo padrone che a sua volta è felice o soffre in relazione allo stato di benessere e di salute dell’animale.
Su questo stato inscindibile di interdipendenza, che può essere profonda e intrinseca alla realtà, o minima e più superficiale come nell’esempio appena riportato, si costruiscono automaticamente l’amore e la compassione che renderanno naturale l’attitudine di voler evitare l’ignoranza, l’attaccamento e l’avversione.
La meditazione si fonda sull’intenzione di amore e compassione che scaturiscono dalla conoscenza della natura interdipendente della realtà e proprio sulla base di questa motivazione l’oggetto della meditazione dovrà essere l’ignoranza, l’attaccamento e la rabbia, non per aumentarli, ma per riflettere su ogni loro aspetto e poterli distinguere con maggiore chiarezza.
Leggeremo alcuni cenni dal testo Mādhyamika di Āryadeva “Le quattrocento stanze” che tratta dell’insostanzialità dei fenomeni e sono riportate alcune caratteristiche dei tre ostacoli fondamentali sopracitati.
L’attaccamento abitualmente è connesso ad oggetti piacevoli e comporta una sorta di unità che a volte può essere positiva e altre negativa, la rabbia invece sorge di fronte ad oggetti spiacevoli e comporta scontro, divisione; l’ignoranza e l’oscuramento mentale sono il terreno di coltura su cui proliferano attaccamento e rabbia.
L’attaccamento ci fa soffrire se non riusciamo a conquistare l’oggetto dei desideri nel presente e nel futuro.
La rabbia e l’odio ci fanno soffrire per l’opposizione attiva o passiva nei confronti di chi consideriamo nemico.
L’ignoranza ci fa soffrire perché non vediamo la realtà, non la conosciamo e non distinguiamo gli immancabili effetti nocivi delle nostre azioni negative.
Non può esservi la presenza contemporanea di attaccamento e rabbia, prima sorge l’ignoranza, dall’ignoranza la rabbia e dalla rabbia l’attaccamento; in genere si pensa che la rabbia sia conseguente all’attaccamento, ma non è sempre così, può anche avvenire il contrario, ciò che resta immutata alla base di ogni negatività è l’ignoranza.
In questo testo si propone una esemplificazione di tipo temporale comparata all’evoluzione di un giorno: la mattina prevale l’ignoranza, residuo del sonno, durante il giorno le varie attività possono generare molteplici occasioni di rabbia che, alla sera, si solidifica in attaccamento.
L’attaccamento si presenta come amico, ma non lo è affatto, bisogna temerlo, esso è conseguente anche a vite passate, e nell’attuale esistenza ha incontrato le condizioni che ne hanno favorito la maturazione. Più attaccamento comporta inevitabilmente più desideri e maggiore sofferenza.
Domanda: Non ho capito molto bene la connessione tra attaccamento e vite precedenti…
Lama: Domanda ponderosa, anche perché non tutti credono nelle reincarnazioni e quindi nell’esistenza di vite precedenti e, in ogni caso, ci si può riferire al passato di questa stessa esistenza. Possiamo constatare come le prime esperienze abbiano lasciato delle impronte nella nostra corrente mentale e come queste, in condizioni particolari, abbiamo sviluppato determinati attaccamenti.
Si deve fare un’analisi a ritroso, passo dopo passo, sino alla nascita. Tutti osserviamo che ogni neonato esprime da subito precise caratteristiche assolutamente uniche, che non sempre sono imputabili a somiglianze con i genitori e gli avi, le impronte spirituali sono da porre in relazione alle vite precedenti.
Non si ottiene questa consapevolezza in un momento, è necessario percorrere lentamente un cammino inverso partendo dall’attuale esistenza. Non c’è un inizio e una fine ma un continuum mentale carico delle nostre impronte, gli attaccamenti del presente sono dunque conseguenti a svariati movimenti del passato.
Domanda: Desiderio, attaccamento, rabbia, non sono differenti aspetti della stessa cosa, cioè dell’illusione?
Lama: Sono le tre maggiori illusioni, come si è detto prima l’ignoranza costituisce le fondamenta per l’attaccamento e la rabbia. L’attaccamento nasce dall’incontro con un oggetto del desiderio piacevole, e la rabbia da quello con uno sgradevole da cui si fugge, ma alla radice di entrambi giace l’ignoranza.
La qualificazione di oggetto piacevole o non piacevole non dipende affatto dalla sua essenza, ma dall’attribuzione che noi gli conferiamo, questo è importante perché prendendone coscienza scopriamo di poter trasformare ogni cosa da spiacevole in piacevole o viceversa.
Il nostro atteggiamento interiore è fondamentale perché può liberarci dalla schiavitù dell’oggetto e metterci nelle migliori condizioni per dominare sia l’attaccamento che l’avversione e la rabbia.
Domanda: Il desiderare di non avere desideri è anch’esso un desiderio?
Lama: E’ una questione logica: il desiderio del desiderio diventa un non desiderio, mentre il desiderio del non desiderio rafforza e mantiene il desiderio.
Ho affrontato l’argomento in modo molto generico senza addentrarmi nei campi specifici e nelle differenze sottili esistenti tra desiderio, aspirazione, attaccamento, ma il desiderio può essere sia positivo che negativo.
Il desiderio istintivo, di desiderare la felicità ed evitare la sofferenza va al di là dell’ignoranza, dell’attaccamento, della rabbia, è connaturato in noi e strettamente connesso ad amore e compassione ed è un desiderio bellissimo. Soltanto quando rincorre una chimerica alleanza con ignoranza, attaccamento e rabbia diventa negativo.
La nostra natura fondamentale è magnifica, è propria dell’umanità che istintivamente desidera la gioia, il bene e rifugge il male, il dolore.
Domanda: Cos’è realmente la meditazione?
Lama: Anche questa appartiene naturalmente all’umanità, tutti di fatto meditiamo in un modo o nell’altro.
Nella meditazione è indispensabile partire dalla motivazione dell’amore e compassione che sorgono sulla base della saggezza, non si medita per ottenere poteri soprannaturali o per aprire il terzo occhio, meditiamo per riuscire a toccare il terreno sempre meglio, per sentirne l’essenza, il profumo, per avvicinarci alla natura.
Non meditiamo per avere immagini soprannaturali di mandala, di divinità, di santi, di deva, o per sovraccaricare l’esistenza di artifici sofisticati, meditiamo per far crescere in noi le qualità spirituali e per rendere la nostra vita più semplice.
Leggeremo ora i Tre Aspetti Principali del Sentiero come preghiera a cui seguirà una meditazione (V. testi annessi pag. XIV).
Segue lettura e meditazione

Ora leggeremo Il Cuore della Perfezione della Saggezza (V. testi annessi pag. II), un importantissimo sūtra del Buddha Sākyamuni che tratta della saggezza della perfezione, probabilmente non cosi immediatamente accessibile, ma ogni volta che lo si affronta lo si comprende un po’ di più.

Segue lettura

La lettura e la riflessione del Sūtra del Cuore è potente, cancella la confusione di questa mente che tende inesorabilmente a discriminare, a separare ciò che reputa bene o male, giusto o ingiusto, bello o brutto, incatenandosi in questo modo ad attaccamento o avversione, mentre nel Sūtra del Cuore scompaiono tutte le divisioni, le preoccupazioni sull’esito della meditazione, sulle possibili realizzazioni, semplicemente non esistono più, non ci sono ottenimenti e questo è il maggiore ottenimento possibile.
Noi invece rincorriamo perennemente il miraggio di risultati facili e immediati, come se dovessimo conquistare la vetta di una montagna, ma una volta giunti a destinazione ci accorgiamo che già un’altra cima è pronta per essere scalata, e così all’infinito, la nostra salita non ha termine perché non c’è nessun punto di arrivo definitivo, mentre incombe ad ogni istante la possibilità di scivolare in qualche precipizio, perché dove c’è un alto monte c’è la valle.
L’unico luogo da cui non si può cadere è quello della pianura, il migliore in cui essere, e il Sūtra del Cuore tratta proprio di questo, del livello zero da cui partono tutte le cose, è infallibile e in esso bisognerebbe stare. Anche la torre più alta si posa comunque su una base di terra, senza questa non potrebbe mai essere edificata.
Il piano terra è dunque il luogo più sicuro e ricco in cui dimorare, ma noi, per pura ignoranza, lo trasformiamo in un caotico garage in cui stipare tutto il ciarpame affannandoci invece per arrivare ai piani più alti, senza renderci conto di quanto sia pericoloso, ci autoinganniamo crogiolandoci in effimere illusioni, ma il Sūtra del Cuore ci riporta a terra, in un’autentica semplicità mostrandoci come la struttura solida delle fondamenta siano la rinuncia, l’amore e la compassione. Rinuncia è non attaccamento; amore e compassione sono assenza di odio, di rabbia; saggezza è non-ignoranza.
Domanda: Ma cosa significa questo “nulla” descritto nel Sūtra del Cuore?
Lama: Il Sūtra del Cuore è la visione priva di ignoranza, ci mostra con chiarezza che ciò che definiamo intrinsecamente esistente, gli eventi, il nirvāna, le realizzazioni, sono soltanto effetto delle nostre proiezioni mentali. Collochiamo con l’immaginazione le realizzazioni, il nirvāna, sulla cima del monte, e non le vediamo affatto dove realmente sono, ai piedi della montagna. Il Sūtra del Cuore non nega affatto la loro esistenza, ma nega il nostro modo di concepirle, di definirle.
Semplicemente le cose non esistono così come noi le percepiamo e cataloghiamo, e nel momento in cui ci stacchiamo da questa rappresentazione teatrale della realtà, riusciamo a vederla nella sua vera essenza.
Questo è ciò che dice il Sūtra del Cuore.
Domanda: Qual è il metodo migliore nel buddhismo tibetano per praticare concretamente l’amore e la compassione?
Lama: Le pratiche di Mettā e di Karunā, presenti in tutte le tradizioni del buddismo, sono le vie classiche per poter espandere la compassione, si inizia con le persone più care e vicine per giungere a quelle più distanti.
Esiste poi la pratica tibetana del Tong Len che consiste nello scambiare ed eguagliare sé stessi con gli altri, offrire loro i propri benefici prendendone le sofferenze, in modo diretto e spontaneo, e non per costrizioni mentali imposte dall’esterno. La cosa importante è sempre confrontare le pratiche con le proprie percezioni, disponibilità mentale, capacità maturata e scegliere quella più consona.
Immaginare la pratica di Mettā, di gentilezza amorevole è assolutamente buona cosa però è difficile che da subito tocchi il cuore, così come è magnifico meditare visualizzando mandala e divinità, ma soltanto la meditazione su attaccamento, rabbia e ignoranza colpisce immediatamente il cuore e in questo senso è più naturale. Tu devi praticare quella che ti risulta più facile, adeguata alle tue capacità, tutte le strade portano alla bodhicitta, alla grande compassione, alla saggezza.

Vi ringrazio per esser stati così attenti così a lungo e possiamo concludere la giornata con la lettura degli Otto Versi di trasformazione della mente (V. testi annessi pag. I) che sono la pratica della grande compassione.






Beatitudine della Solitudine nella Vacuità


Buon giorno a tutti, grazie per essere venuti all’incontro di Dharma. Il Dharma consiste soprattutto nella pratica dell’amore, della compassione e della saggezza che sono l’essenza stessa del cuore umano, e ci mantengono in uno stato mentale pacifico, mentre nel momento in cui ce ne allontaniamo diventiamo in qualche modo inumani.
La distinzione tra ciò che è umano e ciò che non lo è non dipende da fattori fisici, bensì dallo stato mentale; osservando il comportamento degli animali possiamo vedere come alcuni appaiano più rilassati, pacifici e compassionevoli di molti esseri umani pressati dai desideri e dagli attaccamenti che rendono la loro vita complessa e dura sia a loro stessi che agli altri, gli animali invece ricercano semplicemente il necessario alla loro sopravvivenza.
La storia umana documenta, senza eccezioni, come noi, non solo non ci accontentiamo del necessario, ma siamo perennemente insoddisfatti di ciò che abbiamo, vogliamo possedere sempre qualcos’altro e questo ininterrotto desiderio e attaccamento rappresenta il nostro fondamentale problema perché ci impedisce di sviluppare in noi amore, compassione e saggezza.
Impariamo dagli animali, dalle loro espressioni spontanee, prive di calcolo, riconoscendo nel nostro cuore le naturali e pure qualità in grado di offrirci gioia e pace, dobbiamo averne cura, coltivarle con consapevolezza.
Per realizzare il Dharma non è necessario essere particolarmente dotti, la capacità di praticarlo è spontanea negli esseri umani, fonda sulle loro insite qualità.
Siamo venuti al mondo con i principi della rinuncia, della compassione, della saggezza e, altrettanto, nel momento in cui ce ne andremo lo faremo con rinuncia, amore e compassione, con la saggezza che realizza la realtà ultima.
Nel momento della nascita si è nella percezione di vacuità, privi di desideri, in un naturale atteggiamento di distacco, di rinuncia, di amore e compassione, di saggezza nella vacuità, ma non si tratta comunque di realizzazioni, perché è una situazione determinata da condizioni contingenti.
Altrettanto, nell’istante in cui abbandoniamo questa terra sperimentiamo rinuncia, amore, compassione e saggezza, e anche in questo caso non si tratta di realizzazioni, sono esperienze determinate dal distacco dal proprio corpo.
E’ dunque importante riflettere sui due momenti, dell’inizio e della fine, in entrambi si manifesta la chiara mente dell’essere umano in cui si prova rinuncia, amore, compassione e saggezza, ma ancora non si tratta della loro vera realizzazione.
Durante lo scorrere della vita invece noi perdiamo il ricordo della pura natura della mente, scordiamo questi principi e a causa degli eventi che incontriamo affondiamo nella confusione, nei conflitti. Ciò non significa che la natura pura della mente, la nostra vera essenza, sia scomparsa, semplicemente è nascosta, coperta dal caos che ci distoglie da noi stessi.
Dunque cos’è la realizzazione? - è la capacità di vivere ogni momento, all’inizio, nel mezzo e alla fine, rimanendo nella nostra vera essenza, nei principi fondamentali del nostro essere, rinuncia, amore, compassione e saggezza, che da sempre sono in noi, dobbiamo semplicemente cercarli, scoprirli nel cuore scavando come in un sito archeologico, perché se viviamo senza essere consapevoli della nostra vera natura è come se perdessimo noi stessi.
Sulla base della rinuncia, dell’amore, della compassione e della saggezza possiamo affrontare la vita quotidiana senza confonderci, serenamente nel riconoscimento della nostra natura, e anche il momento della morte sarà naturale perché in questi principi è come se le nostre realizzazioni ci venissero incontro e invece di essere dominati dalla paura proveremo gioia come se finalmente incontrassimo ciò che abbiamo così a lungo cercato.
L’argomento di oggi tratta della beatitudine della solitudine nella vacuità, che è la nostra origine, la base.
La solitudine non significa isolarsi, è la capacità di essere nella vacuità, e la beatitudine è l’amore e la compassione.
L’amore e la compassione sono la beatitudine concreta e la solitudine è la rinuncia che deriva dalle nostre origini, la saggezza che realizza la vacuità.
Trovare le origini, quindi vivere nella rinuncia, comporta naturalmente un’esistenza nell’amore e nella compassione che sono la gioia e la felicità.
Questa è una brevissima spiegazione di ciò che significa la beatitudine della solitudine nella vacuità, vivere nella gioia dell’amore e della compassione, nello spirito della solitudine della rinuncia che si basa sulla realtà ultima di tutti i fenomeni, la vacuità.
Questi principi, inscindibili dall’esistenza umana e dalle ordinarie azioni quotidiane, costituiscono il Dharma e sono stati realizzati dai maestri e dai santi del passato di tutte le tradizioni religiose, ai quali possiamo rivolgerci nella preghiera e meditazione per cercare di seguirne l’esempio.
La pratica del Dharma, la meditazione, la preghiera sono tra loro complementari e assolutamente necessarie a noi e agli altri.
Nella prassi buddhista la non separazione del proprio bene da quello altrui è essenziale, nel momento in cui siamo in grado di procurare benessere a noi stessi lo possiamo dare agli altri, ma fintanto che siamo incapaci di agire per il nostro beneficio in nessun modo potremo occuparci concretamente di quello altrui, perché entrambi sono inscindibilmente connessi.
Pensare di praticare il Dharma solo per se stessi è assurdo e contraddittorio, dimostra un’impostazione dualistica completamente non-dharmica.
Dalla ricerca del proprio benessere, inscindibile da quello altrui, sorgono amore e compassione che non separano più noi stessi dagli altri.
Il più grande asceta del Tibet è stato Milarepa, e molto tempo dopo la sua morte sono stati scritti i “I centomila canti di Milarepa” una raccolta stupenda del suo pensiero, la sua vita si è basata sul benessere della solitudine nella vacuità.
Certamente noi non possiamo fare le sue stesse scelte radicali, i tempi non sono più idonei, ma possiamo ammirare e rispettare la sua mistica perfetta e cercare di agire di conseguenza secondo le condizioni che l’attuale contesto ci consente.
Ora leggeremo il “Canto del Vajra” di Milarepa, da cui emergono splendidamente le sue realizzazioni. 

Segue lettura

Leggiamo ora il Sūtra del Cuore raffrontandolo al Canto di Milarepa.
Il Sūtra del Cuore è il Sūtra della Perfezione della Saggezza e presenta tutte le grandi visioni, del Māhamudhrā - il grande sigillo, dello Dzogchen - la grande perfezione, e della Vacuità.

Segue lettura (V. testi annessi pag. II) e meditazione sulla beatitudine dell’amore e della compassione originati dalla solitudine, dalla rinuncia che ha radici nella realtà ultima dei fenomeni, nella vacuità e nella sua saggezza.

Il canto di Milarepa è un canto Vajra che significa diamante, indistruttibile in sé, ma capace di distruggere altre cose, è il diamante che distrugge il samsāra, le illusioni, l’ignoranza, le oscurazioni della mente perché il Vajra è direttamente connesso alla realtà ultima dei fenomeni, alla saggezza.
Questo canto esprime i punti di vista che permeano la nostra esistenza, quello della verità genuina o verità ultima, e quello della verità superficiale o verità convenzionale, relativa.
Generalmente noi cogliamo sempre una sola verità, ma è un errore perché entrambe sono inscindibili, non possono in nessun caso essere separate.
Potremmo utilizzare l’esempio della moneta europea: su un lato vi è una raffigurazione, identica per tutti i paesi, mentre su quello opposto appare il simbolo specifico che caratterizza lo stato che l’ha coniata. A livello superficiale dunque appaiono immagini diversificate, ma nella sostanza della realtà più vasta è tutto uguale.
Nella visione della realtà ultima tutti i fenomeni sono uguali, la faccia della medaglia non cambia da paese a paese, mentre dal punto di vista della verità relativa o convenzionale le cose sono diverse, le facce cambiano, ma la moneta è unica e non è possibile separare le due facce, in tal caso non esisterebbe più alcun euro.
Dal punto di vista della verità ultima, genuina, non ci sono fantasmi, demoni, divinità, meditatori, né oggetti della meditazione e nemmeno sentieri che conducono alle realizzazioni, né i loro livelli o segni, né dharmakāya, né saggezza del Buddha e nemmeno nirvāna, perché tutte queste identificazioni non sono altro che imputazioni che utilizzano nomi e affermazioni, pertanto esistono solo a livello nominale.
Non è facile comprendere con immediatezza questo concetto, è necessario impegnarsi profondamente nelle preghiere, nella meditazione, nella pratica.
Dal punto di vista della verità relativa, superficiale, ci sono la ruota del samsāra, il nirvāna, e tutto esiste. Le cose esistono nella loro apparenza, ma non esistono nella vacuità, e sono essenzialmente inseparabili, hanno un unico sapore.
L’unione delle due verità è vasta e spaziosa e la realtà ultima rende la realtà convenzionale più flessibile; quando osserviamo solo il lato superficiale siamo più rigidi, chiusi, ma quando vediamo la verità nel suo complesso diventiamo parte del tutto, come una goccia d’acqua nel mare, mantenere la goccia d’acqua da sola sarebbe troppo complicato, mentre farla sopravvivere nell’oceano è estremamente semplice perché ne diviene parte.
Nel momento in cui si comprende questa realtà non si vede più la coscienza, ma soltanto la saggezza, non più esseri senzienti, ma Buddha, non i fenomeni, ma la loro essenza, e da questa condizione la compassione emerge semplicemente, le qualità del Buddha arrivano naturalmente, come se si trovasse il gioiello che esaudisce i desideri.
Senza addentrarci in altre spiegazioni leggiamo i Tre Aspetti Principali del Sentiero e potremo così più facilmente comprendere il testo di Milarepa. (V. testi annessi pag. XIV) 
L’ultima parte dei Tre Aspetti Principali del Sentiero integra, in quanto vi corrisponde perfettamente, il Canto del Vajra di Milarepa, dunque, prima di accingerci a meditare sulla beatitudine della solitudine della vacuità, rileggiamoli, aggiungendo anche il Sūtra del Cuore.
Concludiamo l’incontro odierno di meditazione e pratica con la dedica dei meriti per il benessere di tutti gli esseri senzienti. (V. testi annessi pag. IV).
Grazie per la vostra attenzione e per aver partecipato tutto l’anno, questo è l’ultimo incontro del 2006, riprenderemo dopo l’epifania e per quanto questi momenti siano stati brevi porteranno un grande beneficio.

Auguri a tutti, buon natale e buon nuovo anno!


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TESTI   ANNESSI 



Dedica e preghiera conclusiva nel Lam Rim 
Composta da Geshe Gedun Tharchin il 4 novembre 2000 - versione originale in tibetano


La Vittoriosa tradizione dei Buddha come fondamento di Pace e Felicità,
Medicina per illuminare le sofferenze di tutti gli esseri senzienti,
Tesoro che realizza le speranze degli esseri viventi dei tre reami,
Gioiello che soddisfa simultaneamente i desideri propri e altrui.

Dal profondo del mio cuore porgo il mio rispetto ai Maestri,
che mi hanno indicato senza errori i metodi per seguire 
il Percorso Fondamentale, come affidarmi ad una guida spirituale
fino a raggiungere, tramite la pace, la completa Illuminazione.

(x 3)       Possano tutti gli esseri, e noi stessi, incontrare la felicità
Realizzando la rinuncia, la mente del non-attaccamento,
il Bodhicitta, la mente altruistica verso infiniti esseri senzienti, 
 la Vacuità, la massima visione della Chiara Luce.


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Nāgārjuna: Lettera a un Amico

Oh virtuoso degno e dotato di virtù ascolta questi pochi versi che ho composto affinché possa tu aspirare ai meriti che sorgono dalle parole di del Sugata.
Come un’immagine del Sugata anche se di legno o di qualsiasi altra cosa è generata dall’uomo saggio così non disprezzare questo mio poema benché sia privo di grazia poiché è basato su un’esposizione del santo Dharma.
Benché tu abbia ascoltato e compreso le splendide parole del grande saggio, non è forse una casa bianca resa ancor più bianca dalla luce della luna di mezzanotte?
Dovresti tenere in mente sei cose: l’Illuminato, i suoi insegnamenti, la nobile assemblea, la generosità, la moralità e le deità. L’insieme delle qualità di esse è stato ben insegnato dal Conquistatore.
Pratica sempre i dieci sentieri delle azioni virtuose con il corpo, la parola e la mente, astieniti dall’alcol e deliziati nelle attività virtuose.
Comprendendo che la ricchezza non è stabile ed è priva di essenza, fai dono in modo corretto ai monaci, ai brahmini ai poveri e agli amici. Nella prossima vita non c’è amico più eccellente della generosità.
Dovresti praticare la moralità che è intatta, irreprensibile, immacolata e non corrotta. E’ detto che la moralità è il fondamento di tutte le virtù, come lo è la terra per le cose animate e inanimate.
Sviluppa le incommensurabili perfezioni della generosità, pazienza, sforzo, concentrazione e saggezza diventando così il signore dei conquistatori che ha raggiunto la sponda più lontana dell’esistenza.
Colui che onora il padre e la madre è di stirpe simile a quella di Brahmā e dei maestri; onorandoli otterrà fama e in seguito raggiungerà i reami più elevati.
Abbandona l’uccidere, il rubare, la condotta sessuale impropria, il mentire, l’alcool, l’attaccamento al cibo nei momenti sbagliati, il godere di letti e sedili alti e di tutti i tipi di canzoni, danze e ghirlande.
Prendi gli otto precetti che sono simili alla moralità di un Ărya, osservandoli donano agli uomini e alle donne il piacevole aspetto degli dei del reame del desiderio.
Guarda a questi come nemici: avarizia, furbizia, inganno, attaccamento, pigrizia, orgoglio, bramosia sessuale, avversione, arroganza di casta, forma, conoscenza, giovinezza e autorità.
Il saggio ha detto che la consapevolezza è la sorgente dell’immortalità, mentre la distrazione è la sorgente della morte, perciò, per aumentare le tue virtù, rimani costantemente attento.
Chi in precedenza non è stato attento, ma più tardi diventa consapevole, come Nanda, Angulimala, Ajatasatru e Udhyana, risplenderà come luna libera dalle nuvole.
Poiché non c’è penitenza che uguagli la pazienza, non devi dare all’odio nessuna opportunità di insorgere. Il Buddha ha detto che abbandonando l’odio, si otterrà lo stadio irreversibile.
“Hanno abusato di me, mi hanno costretto, mi hanno sconfitto, hanno portato via le mie proprietà”: nutrire ostilità in questo modo genera conflitti; colui che smette di nutrire inimicizie dorme serenamente.
Sappi che la mente è come un disegno fatto è come un disegno fatto sull’acqua, sulla terra, o sulla pietra. Il primo di questi è ottimo per chi possiede le afflizioni e l’ultimo per chi desidera la religione.
Il Conquistatore ha dichiarato  che piacevole, sincera e impropria sono le tre categorie di parola; simili parole sono come il miele, i fiori e la sporcizia: abbandona quest’ultima.
Vi sono quattro categorie di persone che sono viste andare: dalla luce a luce estrema, dall’oscurità a oscurità estrema, dalla luce a oscurità estrema e dall’oscurità a estrema luce. Sii nella prima di queste.
Le persone sono come i frutti del mango: immature che sembrano mature, mature che sembrano immature, immature con l’apparenza di immaturità, mature e anche con l’apparenza di maturità.
Non guardare la moglie di un altro. In ogni caso devi vederla e pensarla come madre, figlia o sorella, secondo la sua età. Se la lussuria persiste, medita bene allora sulle impurità.
Proteggi la mente instabile proprio come (proteggeresti) la conoscenza, un figlio, un tesoro, o la vita e allontanala dai piaceri sensuali proprio come ti proteggeresti da un serpente, un veleno, un’arma, un nemico o il fuoco.
Il Signore dei conquistatori ha detto che i desideri, la causa della miseria, sono come frutti di kimbu e vanno abbandonati poiché legano le persone mondane alla prigione del samsāra come catene di ferro.
Tra coloro che trionfano sull’incostanza dei sensi verso gli oggetti costantemente instabili e coloro che conquistano l’esercito nemico in battaglia, il saggio sa che i primi sono di gran lunga i più grandi eroi.
Considera il corpo di una giovane fanciulla senza ornamenti e vestiti, come un contenitore completamente impuro coperto di pelle, difficile da saziare, con un cattivo odore, e con le impurità che fuoriescono dalle nove porte del corpo.
Come un lebbroso tormentato da insetti dipende dal fuoco per la sua felicità, ma non ne è lenito, così afferrarsi ai desideri non porterà pace.
Allo scopo di percepire l’ultimo, esercita correttamente l’attenzione sulle cose familiarizzandoti con essa; non ci sono altre pratiche che abbiano altrettante buone qualità.
La persona di ceto sociale elevato, di bell’aspetto e colta non è rispettata se è priva di saggezza e moralità; mentre chi possiede queste due qualità è onorato anche se non possiede le altre.
Oh conoscitore del mondo, sii indifferente verso questi otto dharma mondani: guadagno, perdita, felicità, infelicità, parole dolci, parole dure, lodi e disprezzo, perché non valgono le tue premure.
Non compiere negatività neanche per il bene dei brahmini, dei monaci, delle deità, degli ospiti, dei genitori, dei figli, della regina o degli attendenti, perché nessuno dividerà con te il risultato degli inferni.
Benché le azioni negative compiute non ti feriranno subito come una spada, il loro risultato si manifesterà quando avverrà il momento della morte.
Il Saggio ha detto che fede, moralità, generosità, conoscenza, modestia, umiltà e saggezza sono le sette ricchezze immacolate. Riconosci come insignificanti le ricchezze comuni.
Abbandona questi sei comportamenti: giocare d’azzardo, partecipare alle feste, la pigrizia, la compagnia di amici negativi, l’alcool e vagare di notte, che hanno come risultato una perdita di reputazione e la rinascita in stati sfortunati.
Il maestro di dei e uomini ha detto che la soddisfazione è la più eccellente tra tutte le ricchezze, perciò sii sempre soddisfatto. Una persona è veramente ricca se è contenta senza possedere ricchezze.
Oh buon re, proprio come il più eccellente dei nāga soffre per quanto sono le teste che ha acquisito, allo stesso modo si soffre per quante sono le proprietà acquisite; mentre non è così per colui che ha pochi desideri.
Evita questi tre tipi di mogli: colei che, come un’assassina, si associa naturalmente con i tuoi nemici; colei che, come una tiranna, non rispetta il marito; colei che, come una ladra, ruba anche le piccole cose.
Da riverire come una divinità familiare è colei che è gentile come una sorella, cara al cuore come un amico, che desidera il tuo bene come una madre ed è obbediente come una serva.
Considera il cibo come una medicina, non usarlo con odio o attaccamento, né per potenza, orgoglio o bellezza, ma unicamente per mantenere il corpo.
Oh virtuoso, impegna utilmente l’intero giorno, l’inizio e la fine della notte e dormi con consapevolezza solamente nel periodo di mezzo, così che anche il tempo del sonno non sarà senza frutti.
Medita costantemente sull’amore, compassione, gioia ed equanimità; anche se in questo modo non otterrai lo stato supremo, raggiungerai tuttavia la felicità del mondo di  Brahmā.
dopo aver abbandonato, tramite le quattro concentrazioni, i piaceri, le gioie, e le sofferenze del reame del desiderio, otterrai i livelli fortunati degli dei, brahmini abhasvara, subhakrtsna e brhatphala.
Le azioni che sorgono: costantemente, con un forte afferrarsi, senza antidoti e da basi dotate delle principali qualità, sono i cinque tipi di grande virtù e non virtù; da questo momento impegnati nelle virtù.
Come una piccola quantità di sale cambia il sapore di una piccola quantità d’acqua, ma non quella del fiume Gange, allo stesso modo dovrebbero essere comprese le piccole azioni negative in riferimento alle estese radici di virtù.
Queste cinque ostruzioni: eccitazione e pentimento, malizia, letargia e sonnolenza, interesse nei desideri e dubbio, devono essere comprese come ladri che rubano le ricchezze di virtù.
Compi assiduamente le cinque pratiche più eccellenti: fede, sforzo, consapevolezza, concentrazione e saggezza , che sono conosciute come le forze, i poteri e anche le vette.
“Perciò le azioni che ho compiuto io solo, sono la causa dell’incapacità di trascendere la malattia, la vecchiaia, la morte e il distacco dai propri cari.” Grazie all’impegno ripetuto di questo pensiero correttivo l’arroganza non sorgerà.
Se desideri i reami elevati e la liberazione, segui la giusta visione, poiché anche le azioni virtuose compiute da una persona con la visione errata avranno tutte dei risultati terribili.
Sappi che gli esseri umani in realtà non sono felici, sono impermanenti, privi di sé e impuri. Coloro che non tengono vicino a sé la loro consapevolezza vedendo erroneamente questi quattro, cadranno in rovina.
Così è stato detto: “la forma non è il sé, il sé non possiede la forma, il sé non dimora nella forma e la forma non dimora nel sé”. Considera vuoti allo stesso modo anche i rimanenti quattro aggregati.
Gli aggregati non sorgono per caso, non dal tempo, non dalla natura, non per un carattere intrinseco, non da Ishvara, né senza causa; sappi che sorgono dall’ignoranza, dalle azioni e dall’afferrarsi.
Questi tre ostacoli sbarrano la porta della città della liberazione: mantenere le pratiche della moralità e dell’ascetismo come supreme; comprendere erroneamente il proprio essere e il dubbio.
La liberazione dipende da se stessi, nessun aiuto a ciò viene da altri, impegnati perciò nei quattro aspetti della verità con l’ascolto e la moralità dotata di concentrazione.
Addestrati sempre nelle tre supreme: moralità, concentrazione e saggezza; più di duecentocinquanta precetti sono inclusi in queste.
Oh signore, la consapevolezza del corpo è stata insegnata dal Sugata come l’unico sentiero. Poiché la perdita di consapevolezza distruggerà tutte le virtù, proteggila bene con la fermezza.
la vita è impermanente poiché è insidiata da molte sfortune come una bolla d’acqua spinta dal vento, ed è meraviglioso che si inspiri dopo aver espirato e che ci si risvegli dal sonno.
Sappi che alla fine il corpo inconsistente diventa cenere, secco, putrido o impuro, sarà completamente distrutto e depredato e i suoi costituenti dispersi.
Poiché non rimarrà neanche la cenere quando tutte le cose, la terra, il monte Meru e gli oceani saranno consumati dalle fiamme dei sette soli, che bisogno c’è di parlare della fragile creatura umana?
Oh migliore tra gli uomini, poiché tutto è impermanente e privo di sé, senza rifugio, senza protezione e senza causa, sviluppa avversione al samsāra che è senza midollo come un platano.
Rendi fruttuosa questa vita umana praticando il santo Dharma perché è più difficile ottenere una nascita umana dagli stati animali, che per una tartaruga porre il collo nell’apertura di un giogo di legno, trovandosi nello stesso oceano.
Colui che compie negatività dopo aver ottenuto una nascita umana è più sciocco di colui che riempie di vomito un vaso d’oro ornato di gioielli.
Tu possiedi le quattro grandi ruote: dimorare in un luogo conveniente, affidarsi ai santi, aspirare all’illuminazione e aver creato meriti in vite passate.
Il Saggio ha detto che affidarsi all’amico spirituale completa il sentiero alla santità; poiché molti hanno ottenuto la pace affidandosi al Conquistatore, affidati ai santi.
Chiunque nasca come aderente a visioni errate o come animale, spirito famelico o essere infernale; in un posto privo degli insegnamenti del Buddha, come barbaro in qualche regione remota, come un idiota.
O come una divinità dalla lunga vita, è detto nato negli otto stati sfavorevoli e difettosi. Dopo aver trovato la libertà da questi, sforzati per porre fine alla nascita.
Gentile signore, sii disgustato dal samsāra, causa di così tanta sofferenza: mancanza di ciò che si desidera, morte, malattia, vecchiaia e altro e ascolta ora alcuni dei suoi difetti.
Nel samsāra non vi è certezza perché i padri diventano figli, le madri mogli, e i nemici diventano amici, similmente può avvenire l’opposto.
Ognuno (di noi) ha bevuto più latte dei quattro oceani e le persone comuni, nel ruotare del samsāra, le persone comuni ne dovranno bere ancora molto di più. 
Ognuno (di noi) ha avuto un mucchio d’ossa, così grande che equivarrebbe o supererebbe il monte Meru. Perfino la terra non basterebbe, se ne facessimo delle palline, grandi come bacche di ginepro, per contare le madri che abbiamo avuto.
Dopo essere diventati Indra, meritando il rispetto del mondo, si dovrà ancora cadere sulla terra a causa della forza delle precedenti azioni, e dopo essere diventati monarca universali, si finirà come servo dei servi nel samsāra.
Dopo aver assaporato a lungo la felicità di carezzare i seni e i fianchi di fanciulle celestiali, ancora una volta si dovrà sopportare il tocco terribile degli strumenti che squartano e tagliano le membra negli inferni.
Dopo aver dimorato a lungo sulla cima del monte Meru, dove i propri piedi incontrano superfici comode e cedevoli, considera che si dovrà sperimentare ancora la terribile miseria di camminare sui tizzoni ardenti e sui cadaveri decomposti.
Dopo aver raggiunto i magnifici giardini e aver giocato gioiosamente con fanciulle celestiali, le nostre gambe, le braccia, le orecchie e il naso saranno ancora tagliati dalle foglie simili a spade delle foreste infernali.
Dopo essere entrato nel fiume delle fanciulle celestiali, Mandakini, pieno di bellezze e di loti dorati, si dovrà ancora entrare nell’insopportabile e corrosiva acqua bollente dell’infernale fiume Vaitarani.
Dopo aver ottenuto la grandissima felicità dei reami celestiali e la beatitudine del non attaccamento di Brahmā, si dovrà ancora sopportare la continua sofferenza di essere combustibile per i fuoco degli Avici.
Dopo aver ottenuto lo stato del sole o della luna, illuminato il mondo intero con la luce del proprio corpo, ancora una volta si dovrà entrare nella densa e nera oscurità dove non si riesce a vedere la propria mano distesa.
Poiché dovrai soffrire in questo modo, tieni alta la lampada luminosa della triplice virtù, altrimenti dovrai entrare da solo nell’infinita oscurità che non può essere eliminata dal sole o dalla luna.
Gli esseri senzienti che compiono negatività soffriranno perpetuamente negli inferni: Samjiva, Kalasutra, Pratapana, Samghata, Rauvara, Avici, e così via.
Alcuni sono schiacciati come il sesamo; altri sono stritolati in polvere sottile; altri sono fatti a pezzi con delle seghe e altri ancora sono squartati con terribili asce dalle lame molto affilate.
Mentre un denso getto di ferro fuso infuocato è versato dentro alcuni, altri sono trafitti da roventi lance di ferro spinate.
Alcuni, con le mani distese verso il cielo, sono sopraffatti da cani feroci con zanne di ferro, mentre altri, senza forza, sono fatti a brandelli da corvi con terribili zampe e becchi di ferro appuntiti.
Alcuni, usati come cibo, si controcono ed emettono lamenti quando sono attaccati da vari vermi, scarafaggi, mosconi della carne e decine di migliaia di api nere che causano larghe terribili piaghe.
Altri, con le bocche aperte, sono incessantemente carbonizzati in un mucchio di tizzoni ardenti, mentre alcuni, spinti giù con la testa vengono bolliti come riso in un grande calderone di ferro.
I peccatori, anche dopo aver ascoltato le incommensurabili sofferenze infernali, proprio come il diamante non si frantumano in mille pezzi, nonostante solo l’intervallo tra l’inizio e la fine di un respiro li separi dagli inferni.
Se si genera paura solo nel disegnare immagini o nel vedere dipinti, nel ricordare, leggere o ascoltare sugli inferni, che bisogno c’è allora di parlarne visto che si dovranno sperimentare tali conseguenze?
Proprio come la libertà dall’attaccamento è il signore di tutti i piaceri, allo stesso modo la sofferenza negli inferni Avici è la più terribile di tutte le sofferenze.
La sofferenza di  essere violentemente trafitto in un solo giorno del nostro mondo da trecento lance, non può essere neanche paragonata a una piccola parte della sofferenza negli inferni.
Così si sperimenteranno molte terribili sofferenze per milioni di anni e non si sarà separati da quella vita finché non si saranno esaurite le non virtù.
Perciò, con la tua abilità sforzati di prevenire ogni più piccolo errore - il seme di questi frutti di non virtù - con la tua condotta di corpo, parola e mente
Coloro che abbandonano la virtù che genera pace rinasceranno nei reami degli animali dove ci sono svariate e atroci sofferenze come mangiarsi l’un l’altro, essere uccisi legati, picchiati, ecc.
Alcuni sono uccisi per le perle, la lana, le ossa, la carne o le pelli; altri, senza forza, sono sfruttati e presi a calci, percossi, frustati o pungolati con uncini di ferro.
Anche tra gli spiriti famelici la mancanza di cose desiderate causa continue sofferenze implacabili; essi devono sopportare anche molte terribili miserie create da paura, fame, sete, freddo, caldo e stanchezza.
Alcuni, con la bocca grande come la cruna di un ago e lo stomaco come una montagna, torturati dalla fame, non riescono a mangiare nemmeno pochi rifiuti.
Alcuni, simili alla cima di una palma secca sono nudi e hanno corpi di pelle e ossa, altri, con vampate che ogni notte si sprigionano dalle loro bocche divorano come cibo sabbia incandescente che vi cade.
Alcuni, molto poveri, non trovano neanche cibo impuro come pus, escrementi, sangue, ecc., così, percuotendosi l’un l’altro, mangiano il pus dei loro gozzi suppurati.
Per loro anche la luna è calda in estate, mentre il sole è freddo in inverno e al solo sguardo gli alberi diventano sterili e i fiumi si seccano.
Alcuni, strettamente legati alle catene delle azioni negative commesse, sopportano interminabili sofferenze e non moriranno per cinque o anche diecimila anni.
Il Buddha ha detto: “Benché le sofferenze sperimentate dagli spiriti famelici siano svariate, esse hanno un unico sapore e la causa è l’avarizia, la spilorceria e la bassezza della gente.”
Per gli dei celestiali, più grande del piacere è la sofferenza della loro morte; avendo contemplato ciò il virtuoso non si deve afferrare ai reami celestiali transitori.
L’aspetto dei loro corpi diventa brutto, non apprezzano i loro sedili, la ghirlanda di fiori appassisce, i vestiti si sporcano e i loro corpi cominciano a sudare: tute cose mai successe prima. 
Proprio come sulla terra alcuni segni predicono l’avvicinarsi della morte dell’uomo, questi cinque segni presagiscono la morte degli dei che dimorano nei reami elevati.
Se non vi è rimasto alcun merito quando trasmigrano dal reame divino dimoreranno allora impotenti come animali o spiriti famelici o esseri infernali.
Anche tra i semidei c’è una grande sofferenza mentale causata dalla naturale ostilità verso lo splendore degli dei. Sebbene siano anche intelligenti, la verità non è vista a causa dell’ostruzione del loro karma.
Poiché il samsāra è in questo modo, non c’è nascita favorevole tra dei, esseri umani, esseri infernali, spiriti famelici e animali. Comprendi che la nascita è un ricettacolo di molte avversità.
Così come spegneresti subito un fuoco che improvvisamente si sprigiona dai tuoi vestiti o dalla testa, sforzati allo stesso modo nel porre fine alla rinascita tramite la rinuncia alle azioni: non c’è altro scopo più eccellente di questo.
Attraverso la moralità, la saggezza e la concentrazione otterrai il pacificato, controllato e incontaminato stato del nirvāna che è eterno, immortale, inesauribile e privo di terra, acqua, fuoco, aria, sole e luna.
I sette rami dell’illuminazione: consapevolezza, discriminazione dei fenomeni, sforzo, gioia, purificazione, concentrazione e predisposizioni, sono la raccolta delle virtù: la causa per ottenere il nirvāna.
Senza saggezza non c’è concentrazione e, ancora, senza concentrazione non c’è saggezza, ma per chi le possiede, l’oceano dell’esistenza diventa come l’acqua nell’impronta dello zoccolo di un bue.
Le quattordici asserzioni dichiarate dal Simile al Sole come essere inesprimibili nel mondo, con conducono alla pace della mente, per cui non speculare su di esse.
Il Saggio ha dichiarato: “Dall’ignoranza si originano le formazioni karmiche, da queste la coscienza, dalla coscienza nome e forma, e da queste le sei sorgenti e da loro il contatto.
Dal contatto si origina la sensazione, da questa la bramosia, da questa l’afferrarsi, dall’afferrarsi il divenire e da questo la nascita.
Quando c’è nascita ne derivano molte sofferenze quali: dolore, malattia, vecchiaia, frustrazione, paura della morte e così via. Mettendo fine alla nascita tutte queste cesseranno.”
Questa dottrina dell’originazione interdipendente è un profondo e prezioso tesoro dell’insegnamento del Conquistatore; chi vede questa correttamente vede Buddha, il supremo conoscitore della realtà.
Per ottenere la pace, pratica l’ottuplice sentiero: giusta visione, giusta condotta di vita, giusto sforzo, giusta consapevolezza, giusta concentrazione, giusta parola, giusta azione e giusto pensiero.
Tutto ciò che sorge è sofferenza e la bramosia è la sua grande sorgente; la sua cessazione è la liberazione e il sentiero per ottenerla è il nobile ottuplice sentiero.
Così è. Sforzati sempre di realizzare le quattro nobili verità, anche un laico che dimora nella prosperità può attraversare il fiume delle contaminazioni con questa conoscenza.
Coloro che comprendono la verità non sono caduti dal cielo, né cresciuti dalla terra come un raccolto: in precedenza erano persone soggette alle afflizioni.
Oh senza paura, il Beato ha detto che la mente è la radice delle virtù, quindi disciplina la tua mente: questo è un consiglio vantaggioso e utile, che bisogno c’è di dire di più?
Anche per un monaco che vive isolato è difficile seguire i consigli che ti sono stati dati, tuttavia rendi questa vita significativa sviluppando le buone qualità di qualsiasi istruzione pratichi.
Rigioisci delle virtù di tutti gli esseri viventi e dedica la tua triplice buona azione all’ottenimento dello stato di Buddha. Quindi con questa raccolta di virtù:
Diventerai un signore dello yoga per un incalcolabile numero di nascite, in tutti i reami di dei e di esseri umani e proteggerai molti esseri senza aiuto con le attività di Ărya Avalokiteśvara.
Quindi dopo aver estinto in una nascita finale la malattia, la vecchiaia, i desideri e l’odio, in una terra di Buddha diventerai come Amitābha, il guardiano del mondo dalla vita immortale.
La grande fama immacolata, sorta dalla saggezza, moralità e generosità, si diffonderà nelle terre dei deva, nel cielo e sulla terra, quindi pacificherai definitivamente la delizia (degli uomini sulla terra e dei deva nei reami superiori) nel godere di splendide fanciulle e il compiacimento di sé.
Dopo aver ottenuto il rango di conquistatore che pacifica la paura, la nascita e la morte della moltitudine di esseri senzienti afflitti dalle contaminazioni, otterrai uno stato sovramondano, pacifico, puramente nominale, senza paura, eterno e senza errori.