Wednesday 4 December 2013

LA PRATICA DEL TONG LEN














La pratica del Tong Len





Ven. Geshe  Gedun Tharchin
4 - 6 giugno 2010 Milano





  




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INDICE


Lo Jong - la pratica di addestramento della Mente
- Venerdi  sera  - Introduzione.................................................................................. 
L’importanza della Motivazione
- Sabato mattina - ..................................................................................................
Tong Len - la pratica dell’Amorevole Gentilezza e della Compassione
- Sabato pomeriggio - prima sessione...................................................................... 
 Come generare la Bodhicitta
- Sabato pomeriggio - seconda sessione.................................................................. 
Come trasformare la mente
- Domenica -........................................................................................................... 












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Lo Jong - la pratica di addestramento della Mente
- venerdi - Introduzione

Buona sera e grazie per l’invito a condividere con voi questi momenti di meditazione nel Dharma, il lavoro che cercheremo di fare non è affatto semplice, bensì difficile e complesso in quanto deve essere mantenuto ininterrottamente nella quotidianità, non può essere considerato un evento isolato, avulso dalle normali attività di ogni giorno, è l’impegno più duro di tutta una vita.
La meditazione è Dharma e il Dharma è spiritualità, il valore interiore della mente, ciò che siamo in realtà.
Cerchiamo incessantemente soddisfazione, contentezza e felicità al di fuori di noi senza renderci conto che li potremo ottenere solo nella costante ricerca dell’incommensurabile valore spirituale invisibile, impalpabile, ma sempre riconoscibile nella profondità della nostra mente.
Dov’è la mente?
Se non sappiamo rispondere concretamente a questa domanda è assai difficile raggiungere la pace interiore, non è realistico pensare di poter trovare una mente in bella mostra su un unico piano, spirituale o intellettuale, essa è nell’intera persona ed è dunque necessario avere piena consapevolezza di sé in corpo, spirito e intelligenza, una coscienza che è la chiave della meditazione.
In questi giorni analizzeremo insieme la pratica del Tong Len, cioè del dare e ricevere, e del Lo Jong che significa trasformare la mente, Lo: mente e Jong: trasformare o purificare o addestrare, è un termine dal significato molto ampio.
Per procedere su questo terreno è fondamentale sapere cosa è Lo.
Secondo la visione spirituale, dharmica, la mente si manifesta nella grande compassione e nell’amore. La mente, il cuore dell’umanità, è la grande compassione, questo è il principio fondamentale di tutte le religioni, nel cristianesimo la si chiama anima.
L’essere umano ricco di questo Amore è una grande anima, ha un cuore infinito.
La pratica del Lo Jong consiste nell’esercitare la mente di grande compassione, il vero centro dell’essere umano che, nella percezione del battito del proprio cuore, diventa pienamente consapevole di se stesso e sperimenta l’amore incondizionato che ne realizza quell’umanità da cui sgorgano tutte le qualità.
L’essere umano che non sente il battito del cuore di compassione non riconosce più nemmeno se stesso, si perde completamente.
È fondamentale sapere che l’amore e la compassione sono il vero unico cuore umano e il Lo Jong è l’addestramento che porta a riconoscere e sviluppare questa naturale amorevolezza.
Ognuno di noi può verificare in se stesso l’impatto che amore e compassione producono interiormente vivendo così concretamente l’esperienza della propria pace, della propria chiarezza, della propria gioia, che non sono la pace, la chiarezza e la gioia del Buddha che, ovviamente, appartengono soltanto a lui.
La pace, la chiarezza e la gioia che sperimentiamo nel cuore sono quelle che con tanti termini complessi e lunghi insegnamenti si tenta di spiegare, ma che si possono invece conoscere direttamente e più profondamente soltanto suscitando nel proprio cuore l’amore e la compassione.
Le qualità di una mente amorevole e compassionevole non si trovano altrove, al di fuori, in quanto già interiormente e naturalmente presenti, però purtroppo il più delle volte non se ne è affatto consapevoli giacché sono oscurate dalle emozioni, dal turbinio di fattori mentali estranei, da pensieri, eventi, condizioni esterne e dalle svariate interferenze della vita che impediscono di sperimentarle in noi stessi.
Amore e compassione sono la mente autentica, mentre altri stati mentali quali l’odio e la rabbia, non rappresentano affatto l’attitudine mentale naturale, come comprovano gli effetti devastanti che producono in noi, questa è l’infallibile chiave di lettura che ci consente di distinguere la mente autentica da quella illusoria.
La mente amorevole, compassionevole induce uno stato di benessere, sano, di guarigione interiore e rende consapevoli della propria completezza umana, una condizione di beatitudine ottenibile nella sperimentazione concreta, personale, non è infatti sufficiente averne soltanto una mera conoscenza intellettuale, speculativa.
Una mente amorevole, compassionevole, tollerante, paziente ricolma il cuore di pace, di serenità durevole, al contrario altre tipologie di menti, intolleranti, aggressive, irritate, ci allontanano da noi stessi immergendoci in una scura tensione carica di sofferenza, di insoddisfazione. Ecco la differenza radicale: in un modo siamo naturalmente nella chiarezza, nella gioia, mentre nell’altro ce ne allontaniamo inoltrandoci nella nebbia della confusione in cui non riconosciamo più nulla, nemmeno noi stessi.
Il termine Lo generalmente è tradotto con “mente” e in questo contesto si riferisce specificatamente alla mente amorevole, compassionevole, la sola autentica che ci permette di entrare in contatto con i Guru, con i Maestri, con il Buddha, con ogni Essere illuminato, con Dio, perché senza la compassione questa comunicazione sarebbe impossibile in quanto noi stessi non saremmo presenti; il termine Jong indica l’addestramento a quest’attitudine del cuore già presente in noi.
La vera devozione si esprime esclusivamente nel permanere senza paura nella verità di amore e compassione che apre il cuore e connette in armonica sintonia all’amore e compassione degli esseri spirituali.
L’amore e la compassione costituiscono l’essenza di ogni tipologia di Dharma, il Buddha stesso mette in risalto in un sūtra che i Bodhisattva non hanno necessità praticarne tanti in quanto in uno solo, la Grande Compassione, li realizzano tutti poiché tutti sono contenuti nelle loro mani.
La grande compassione è la sorgente di ogni Dharma, di tutte le qualità esistenti.
Un secondo punto riguarda le molteplici manifestazioni della mente, è possibile osservarla dal punto di vista della psicologia nell’articolazione su più livelli: conscio, inconscio, subconscio; nella concezione buddhista invece distinguiamo tra mente grossolana, sottile, estremamente sottile; secondo la visione cristiana parliamo di anima, di spirito, ma le differenze sono soltanto superficiali perché tutte queste definizioni si riferiscono alla stessa cosa, al pensiero umano.
Ciò che definiamo anima, potrebbe essere espressa in termini buddhisti con la mente di chiara luce, cioè il livello ultimo della coscienza. La purificazione dell’anima, dello spirito, del subconscio è il passaggio dagli stadi più grossolani della mente a quelli sempre più sottili sino all’ultimo grado.
I molti pensieri, sia positivi che disturbanti come le emozioni negative, che appaiono ininterrottamente sullo schermo mentale sono tutti determinati dall’energia correlata alla mente sottile.
La mente agisce su diversi piani, inizia da quello delle coscienze sensoriali, dunque più grossolane, materiali, per scendere al pensiero conscio, inconscio, subconscio, sino al più sottile dello spirito, che è assolutamente reale anche se impossibile da ingabbiare e ridurre nell’analisi di un’unica disciplina come l’osservazione psicologica.
Per acquisire questa coscienza è necessario aver compiuto un lungo e complesso processo di purificazione attraverso tutti i gradini di mente, e lo si attua con gli strumenti della meditazione, della devozione, della consapevolezza, e anche, in determinate circostanze, utilizzando rituali.
Non ci sono contraddizioni tra pensiero cristiano, buddhista, induista, materialista, psicologico o quant’altro, è necessario invece saper vedere, riconoscere, il fattore comune profondamente umano contenuto in tutti i differenti punti di osservazione. Questa capacità di unificazione, di visione ampia, armonica della realtà incrementerà automaticamente le proprie qualità.
Se al contrario si ricercano ed evidenziano i contrasti tra i diversi punti di vista e tradizioni religiose, con la presunzione intrinseca, quanto errata, di ritenere comunque migliore i propri, non si fa altro che potenziare e proiettare all’esterno le contraddizioni, alimentando così il malessere e l’insoddisfazione.
Non ha alcun senso l’irrigidimento di quelle dottrine che per difendersi da presunti attacchi di nemici inesistenti si arroccano nella certezza della propria unicità e diversità, ottenendo così il solo risultato di annientare completamente ogni forma di autentica spiritualità e consolidare invece una condizione malata che influisce negativamente sulle persone. È indispensabile purificare, aprire il proprio cuore, non rinchiuderlo in gabbie di ferro arrugginito.
Non è facile purificare la mente, però è basilare farlo, si devono eliminare tutte le calcificazioni, le chiusure, le rigidità, la mente deve essere sciolta, libera, flessibile; noi invece vogliamo proteggerci dalla vita, rinchiuderci in un buco buio per paura di tutto pur non sapendo nulla di quanto potrà accaderci, la fine arriverà inevitabilmente e per il terrore che questo suscita in noi preferiamo non vivere, nascondere la testa nella sabbia.
Siamo così infantili, impauriti, che preferiamo non guardare alla natura ultima che è vuoto, spazio, ma la nostra stessa anima è vacuità e spazio, perfino la filosofia occidentale lo riconosce, noi invece a causa dell’ignoranza fondamentale vogliamo costantemente ridurre ogni aspetto a qualcosa di tangibile, di dimostrabile, di solido, barricandoci nella falsa sicurezza di una visione limitata, gretta e falsa della realtà umana.
Un altro aspetto particolarmente importante per noi è l’atteggiamento mentale relativo alla fase successiva alle sessioni di meditazione formale che nella nostra vita sono davvero poche in quanto siamo sempre più travolti nell’attività frenetica delle urgenze quotidiane.
Se dunque non c’è mai tempo per sedersi a meditare è inutile studiare il metodo migliore per praticare ad ogni costo in questo modo, è meglio concentrarsi su come poter meditare nella condizione informale, durante lo svolgimento della consueta attività quotidiana.
Non esistono sistemi meccanicamente preconfezionati, ma è prezioso il suggerimento del Lo Jong di riflettere ininterrottamente su tre oggetti, tre veleni e tre virtù che sono alla base della vita e origine di tutta la sofferenza.
La giornata inizia con il risveglio in cui i sei sensi percepiscono tre oggetti: piacevole, non piacevole e neutro e da questo impatto scaturiscono immediatamente i tre veleni: attaccamento, rabbia e ignoranza, oppure le tre virtù: non attaccamento, compassione e saggezza della consapevolezza, da questo momento inizia il duro lavoro, la meditazione sulla condizione umana farcita della sofferenza prodotta dagli oggetti dei sensi.
Solo spostando l’attenzione dal proprio ego alla condizione in cui si trovano tutti gli esseri possiamo davvero liberare la mente rinchiusa, imprigionata nei propri affanni sempre percepiti come il centro assoluto dell’universo. Per liberarci da tali catene non c’è altro mezzo che la compassione in grado di insegnarci passo dopo passo come trasformare i tre veleni nelle tre virtù.
Domanda:  Parlando di mente grossolana e mente sottile e hai detto, se non ho capito male, che dalla mente sottile sorgono amore e compassione ma che anche in essa risiedono la paura, ignoranza attaccamento e rabbia….
Lama:         L’amore e la compassione esistono in ogni livello di mente, la diversa consapevolezza della loro presenza dipende dalle capacità individuali, e tanto più questa è chiara tanto meno si avverte la paura e tutto ciò che ne consegue, non è possibile la sussistenza contemporanea di questi elementi poiché uno annulla automaticamente l’altro.
Domanda:  Mi trovo in assoluta sintonia con ciò che hai detto circa la necessità di praticare la meditazione che sviluppa quella compassione che apre spontaneamente il cuore ai punti di unione e non di divergenza tra le diverse visioni religiose o filosofiche. Io, che da tempo mi ero allontanata dal cattolicesimo, ho avuto occasione di parlare qualche giorno fa con un sacerdote dalla mente luminosa e aperta così ho ripensato alle cause che mi avevano indotto ad abbandonare la mia cultura e mi sono resa conto che il motivo principale è dovuto all’impostazione ufficiale della chiesa fondata sostanzialmente sulla paura del peccato e il secondo è il disagio che avverto di fronte alla manipolazione del messaggio del Cristo, di amore e compassione, ridotto invece a pura teoria in una rigida classificazione di norme, di imposizioni dogmatiche in cui manca totalmente qualsiasi autentico strumento spirituale in grado di farlo nascere spontaneamente nel cuore umano. Per questo credo profondamente nella necessità di aprire la mente e la meditazione è un mezzo fondamentale.
Lama:         Certamente, questa unità è dimostrata dagli esempi di amore purissimo offerti da Gesù Cristo, da San Francesco, dal Mahātmā Gandhi, da madre Teresa, da Milarepa, non è possibile in nessun caso apporre etichette né tanto meno erigere insensate divisioni.







L’importanza della Motivazione
- Sabato mattina -

Iniziamo la giornata cercando di agire in modo eccellente, non solo per noi stessi ma per il benessere di tutti gli esseri senzienti, per rendere questo mondo migliore, infondendo questa intenzione in ogni attività.
È importante abbandonare la consueta attitudine egocentrica che si preoccupa esclusivamente di sé, del proprio benessere. Prendersi cura di sé non è negativo, ma lo diventa quando rappresenta l’unico obiettivo dell’esistenza trasformandosi in questo modo in causa prima di sofferenza.
Noi soffriamo inutilmente da mattina a sera proprio conseguentemente all’abituale atteggiamento mentale egocentrico ed egoistico, consideriamo l’aggrapparsi al sé come unica possibilità di esistere e reputiamo normale dimenticare la realtà di tutti gli altri. Ogni nostra azione, pensiero, meditazione, preoccupazione è convogliata nel tunnel di questa visione errata che ci impedisce di uscire dall’insoddisfazione, della sofferenza, ne siamo completamente schiavi, è dunque necessario ribaltare completamente il nostro punto di osservazione cominciando a percepire e riconoscere la gentilezza degli altri, la loro umanità.
E’ impossibile pensare di poter essere felici quando altri esseri non lo sono, non è davvero concretamente realizzabile una simile illusione, è il peggiore inganno, poiché tutto è interdipendente, strettamente interconnesso, non siamo un’isola autonomamente autarchica, ogni fenomeno dipende da altro.
Qualsiasi fenomeno possiede in se stesso un valore fondamentale, anche i nemici sono preziosi per la nostra sussistenza autentica, ci permettono di praticare le qualità, di aprire il cuore, di procedere sul sentiero, di vivere il Dharma. Utilizzando il linguaggio cristiano potremmo dire che tutti i fenomeni sono il soffio dello Spirito Santo, con quello buddhista diciamo che sono la realizzazione della Vacuità.
La natura della realtà è l’interdipendenza, le risorse presenti in noi sono la ricchezza infinita di ogni istante e condizione di vita, Dio è nel nostro cuore, non dobbiamo andare a cercare chissà dove, tutto è già qui e può essere realizzato immediatamente.
La giusta motivazione deve essere il punto di partenza di ogni pratica, anche di quelle apparentemente più negative, ad esempio io ho visto macellai tibetani recitare ininterrottamente il mantra Om Ma Ni Padme Hum per l’animale che stavano uccidendo. I nomadi tibetani sono costretti a nutrirsi di carne, non c’è altro, negli altipiani non cresce nulla, ecco perché la motivazione è così importante in ogni azione, questo è il Lo Jong. Lo è motivazione e Jong pratica.
La vita è un costante miracolo di cui potremmo avere sempre una luminosa visione se fossimo consapevoli di noi stessi, invece questa possibilità di chiarezza è impedita poiché con miope ottusità ci blocchiamo esclusivamente sugli aspetti che percepiamo spiacevoli e di cui in un perverso automatismo incolpiamo immediatamente e soltanto gli altri, siamo così accecati e arroganti da negare ogni nostra responsabilità e colpa e al contrario affermiamo con forza la nostra ragione.
Se invece avessimo il coraggio di fermarci ad analizzare la realtà dal punto di vista spirituale ci accorgeremmo che il vero colpevole è sempre e soltanto uno: - l’attitudine ad afferrarsi al proprio sé -. Il samsāra non è la condizione perfetta in cui tutto va bene, questo è impossibile, al contrario il samsāra è confusione, sofferenza prodotta inesorabilmente dallo spasmodico attaccamento al sé e mai imputabile a condizioni esteriori.
Proprio da questo buio, dalla presa di coscienza della propria incapacità di sviluppare la consapevolezza circa la responsabilità personale nei confronti degli eventi si manifesta la natura di Buddha, il soffio dello Spirito Santo, la liberazione da ogni ostacolo.
Per conquistare questa libertà nell’affrontare la natura samsarica è necessario adottare l’atteggiamento corretto che consiste nel concentrarsi, sin dal risveglio mattutino, sulla motivazione, la pratica in grado di trasformare la mente, di allontanarci dall’egocentrismo e dall’egoismo per imparare a divenire lentamente sempre più altruisti.
La motivazione è indotta prima di tutto dalla gratitudine nei confronti degli altri poiché senza di loro noi saremmo completamente impotenti, inutili, non esisterebbe nessuna delle condizioni che qualificano l’essere umano. Gli stessi nemici ci offrono occasioni così preziose di crescita che meritano la più sincera gratitudine.
Per penetrare a fondo questa visione leggiamo insieme la preghiera degli Otto Versi di Trasformazione della Mente:

OTTO VERSI DELLA TRASFORMAZIONE DELLA MENTE
Considerando tutti gli esseri senzienti
superiori alla gemma che esaudisce i desideri
per realizzare il fine supremo
possa io costantemente prenderli a cuore.

Quando sarò con gli altri,
riterrò me stesso come il meno importante,
e mi prenderò cura di loro fin nel profondo del cuore
come se ognuno fosse il più elevato degli esseri.

Vigile, ogni volta che sorge un’emozione negativa
Che possa nuocere me o gli altri,
l’affronterò e l’eliminerò
senza indugio.

Vedendo esseri in preda alla malvagità
Intenti a violente azioni negative, sopraffatti da sofferenze,
avrò sempre cura di tali creature così rare,
come se avessi trovato un tesoro prezioso.

Quando altri, per invidia, mi maltratteranno,
mi insulteranno o faranno cose simili,
accetterò la sconfitta e offrirò la vittoria.

Quando qualcuno a cui ho fatto del bene
e in cui ho riposto grandi speranze
mi infligge un danno terribile,
lo considererò il mio santo amico spirituale.

(ripetere 3 volte)                         In breve, direttamente e indirettamente, offro
ogni beneficio e felicità a tutti gli esseri senzienti, mie madri;
possa io segretamente prendere su di me
tutte le loro azioni negative e sofferenze.

Possa la pratica non essere mai contaminata dalle idee causate
dalle otto preoccupazioni mondane,
e, consapevole che tutte le cose sono illusorie,
possa io, privo di attaccamento, essere libero dal samsāra.

Il settimo verso è il fulcro centrale della preghiera, ripetiamolo meditandolo brevemente, con il cuore aperto alla gratitudine autentica e alla visione delle proprie responsabilità. Osserviamo ogni problema e difficoltà della vita quale parte naturale del samsāra e causato dall’attitudine ad aggrapparsi al sé.

(segue meditazione)

Leggiamo ora i versi della Mettā Sutta:

METTĀ  SUTTA

Questo dovrebbe fare chi pratica il bene e conosce il sentiero della pace:
essere abile e retto,
chiaro nel parlare,
gentile e non vanitoso,
contento e facilmente appagato;
non oppresso da impegni e di modi frugali,
calmo e discreto,
non altero o esigente;
incapace di fare ciò che il saggio poi disapprova.

Che tutti gli esseri vivano felici e sicuri:
tutti, chiunque essi siano,
deboli e forti,
grandi o possenti,
alti, medi o bassi,
visibili e non visibili,
vicini e lontani,
nati e non nati.

Che tutti gli esseri vivano felici!
Che nessuno inganni l'altro,
né lo disprezzi,
né con odio o ira desideri il suo male.

Come una madre protegge con la sua vita suo figlio, il suo unico figlio,
così, con cuore aperto, si abbia cura di ogni essere,
irradiando amore sull'universo intero;
in alto verso il cielo,
in basso verso gli abissi,
in ogni luogo, senza limitazioni,
liberi da odio e rancore.

Fermi o camminando,
seduti o distesi,
esenti da torpore,
sostenendo la pratica di Metta;
questa è la sublime dimora.

Il puro di cuore,
non legato ad opinioni,
dotato di chiara visione,
liberato da brame sensuali,
non tornerà a nascere in questo mondo.

La recitazione distratta e superficiale di qualsiasi preghiera è assolutamente inutile se non se ne introietta profondamente ogni parola, se non la si lascia penetrare nel cuore per nutrirlo e aprirlo alla motivazione.
IL cuore è simile ad una pianticella che deve essere curata, irrorata, concimata, posta nella giusta luce affinché possa crescere e fortificarsi.
Il centro del cuore è il centro dell’esistenza, non lo si può collocare fisicamente, ma lo si può sentire, esso ci parla costantemente, ci dice chiaramente come stiamo, come siamo e ci indica la possibilità di cambiare, di trasformare qualsiasi attitudine, anche la più ordinaria.
È dunque fondamentale iniziare la giornata meditando al centro del proprio essere e sviluppare amore e compassione, altrimenti si rimane nella condizione di esseri duri, aridi, senza cuore, e questo è il grande problema della società moderna.
Pace, gioia, felicità trovano la loro ragion d’essere nella presenza o meno di amore e compassione nel cuore umano.
Amore e compassione non sono soltanto il sentimento che si manifesta di fronte ad una pena, ad un triste evento esteriore, ma hanno radici interiori nel riconoscimento delle principali cause del dolore nella consapevolezza che ogni sofferenza nasce dall’attaccamento al sé, e con la certezza che invece ogni gioia e felicità provengono dagli altri e ciò determina il sorgere spontaneo della gratitudine nei confronti di ogni essere.
Da ciò deriva naturalmente l’attitudine a non incolpare in nessun caso gli altri, a non biasimarli e nemmeno a colpevolizzare se stessi, in quanto non c’è colpa, né propria né altrui, ma tutto è dovuto all’attitudine erronea dell’aggrapparsi al sé, dell’attaccamento.
L’amore e la compassione naturali devono crescere su questa base di comprensione delle ragioni che provocano la sofferenza, senza alcuna imputazione nei confronti di se stessi e degli altri.
Questo è il Lo Jong.






Tong Len - la pratica dell’Amorevole Gentilezza e della Compassione

- Sabato pomeriggio - prima sessione

Il Tong Len è l’applicazione concreta nella vita quotidiana del Lo Jong e di cui è dunque indispensabile averne assimilato il senso profondo per poter procedere. Riassumendo, abbiamo visto che ci sono quattro tipi di Lo:
1)    la mente di amore e compassione;
2)    la mente articolata in più aspetti: spirituale, psicologico, intellettuale, scientifico e così via e tutti, indistintamente, necessitano di purificazione;
3)    la mente della motivazione;
4)    Il passaggio in questi tre stadi confluisce nella mente capace di esercitare il Tong Len, la pratica in grado di trasformare la mente secondo i principi del Lo Jong.
Tong Len vuol dire “Dare e Ricevere”, dare la propria gioia e felicità agli altri come espressione di gratitudine nei loro confronti e ricevere in cambio la loro sofferenza, riconoscendo che il dolore è la conseguenza dell’attitudine egocentrica dell’attaccamento al sé.
Tong è Dare incondizionatamente, donare con amorevole gentilezza le proprie qualità, il proprio corpo, i propri beni, tutto, senza riserve, con l’unico scopo di portare felicità agli altri spalancando il proprio cuore così da permettere alla naturale compassione, già presente in esso, di espandersi all’infinito.
Len è Ricevere, prendere su di sé le sofferenze degli esseri con il forte desiderio di cancellare qualsiasi pena assumendone tutto il carico affinché proprio nessuno ne sia più afflitto, questa è l’apertura del cuore che esprime la naturale compassione umana.
Il Tong Len è la pratica dell’amorevole gentilezza e della grande compassione.
Sul piano materiale credo sia molto difficile che questo scambio di dare e prendere possa realizzarsi concretamente, ma ciò di cui ho invece certezza è che la pratica del Tong Len aiuta effettivamente a sviluppare in sé la gentilezza amorevole e la naturale compassione con una disponibilità del cuore che inevitabilmente si riversa sugli altri e influenza i loro comportamenti.
La pratica del Tong Len attiva una gentilezza amorevole e una compassione di carattere universale indiscriminato, è simile ad un’antenna televisiva in grado di ricevere tutti i segnali, senza preclusioni o discriminazioni, le trasmissioni sono disponibili a chiunque accetti di sintonizzarsi.
È possibile praticare il Tong Len per qualcuno in particolare, gruppo o individuo, ma ugualmente l’intenzione profonda deve sempre essere rivolta universalmente a tutti, questo passaggio non deve essere dimenticato, è essenziale.
Il settimo verso della preghiera degli Otto Versi di Trasformazione della Mente, esprime l’essenza del Tong Len e deve diventare il nostro mantra; la prima parte è il Tong, Dare:
“In breve, direttamente e indirettamente, offro
ogni beneficio e felicità a tutti gli esseri senzienti, mie madri;”
la seconda è il Len, ricevere:
“Possa io segretamente prendere su di me
tutte le loro azioni negative e sofferenze.”
Qualora sia possibile si offre direttamente qualcosa di materiale agli altri, ma in caso contrario è altrettanto valida l’offerta indiretta della propria felicità e qualità, con sincera ed effettiva libertà interiore.
Inoltre “direttamente e indirettamente” indica la necessità di dare segretamente, senza che nessuno ne venga mai a conoscenza, infatti non è necessario offrire le buone intenzioni in modo palese, pubblico, ciò non produrrebbe alcun effetto sugli altri e nutrirebbe unicamente il proprio ego, con le conseguenze nefaste che ben conosciamo.
L’offerta segreta più importante è quella spirituale, senza riserve né attese, eppure, malgrado questo distacco, il cuore riceve immediatamente la sua gratifica riempiendosi di gioia, di perfezione, di armonia.
Il segreto della pratica della generosità è l’assenza di aspettativa della benché minima ricompensa, è la pura intenzione di fare felici gli altri con incondizionato amore; però, poiché non siamo ancora dei Bodhisattva, è difficile per noi, anzi impossibile, dare in modo così perfetto, e dunque dobbiamo esserne consapevoli e umili e non pretendere di poterlo fare, perché otterremmo il risultato esattamente opposto e aumenteremmo i problemi nostri e altrui invece di risolverli.
Dobbiamo essere realisti, non siamo dei Bodhisattva e dunque è ridicolo pretendere di porci al loro livello, dobbiamo invece iniziare dall’aspirazione alla pura generosità, fermarci ad osservare e meditare le attitudini dei Bodhisattva e lentamente sviluppare nel cuore l’intenzione di prepararci per donare con purezza agli altri trasformando così un poco alla volta, giorno dopo giorno, l’atteggiamento mentale.
Se ci si illudesse di essere come i Bodhisattva si giungerebbe facilmente alla conclusione di essere dei Buddha, e dunque di aver terminato il proprio percorso, i problemi dovrebbero dunque essere tutti scomparsi, ma in realtà la condizione umana è ben diversa e pensare di essere Buddha crea difficoltà ed ostacoli insormontabili.
In alcune pratiche tibetane ci si visualizza come Buddha nel riconoscimento dell’orgoglio divino, della dignità della divinità, ma si tratta di concezioni molto sottili che non hanno nulla a che fare con la fantasia di essere realmente già Buddha. Queste pratiche non sono automaticamente accessibili a tutti e necessitano comunque dell’effettivo completamento di tutte le pratiche preliminari volte alla realizzazione di bodhicitta e della saggezza di vacuità nella comprensione della realtà ultima, o, per essere più precisi, con il compimento dei tre principi del sentiero: Rinuncia - Bodhicitta e Śūnyatā (vacuità).
In sanscrito śūnya significa zero ed è un concetto fondamentale presente anche in altre religioni, come l’Islam e il Tao. Rimanere in śūnya non sottintende l’aver compreso la vacuità solo sul piano intellettuale, bensì ne indica la piena realizzazione, l’esserne così permeati da divenire completamente flessibili, duttili, adattabili.
Ma al di fuori di tale realizzazione è impossibile trasformarsi nella forma di Buddha, permanere nello stato di Buddha, si tratta solo di una fantasiosa e deleteria illusione, di un gioco infantile rischioso per sé e per gli altri.
È chiaro che non siamo dei Bodhisattva e dunque ci dobbiamo avvicinare al loro insegnamento con ammirazione, con attitudine di aspirazione, senza avere la presunzione di essere già capaci di poter agire esattamente come loro prendendo alla lettera come direttiva perentoria il loro messaggio; per noi è un esempio a cui aneliamo, è il suggerimento di un percorso.
Io ho invece notato che qui in occidente, nella volontà di accelerare l’esito finale mantenendosi entro margini di sicurezza al riparo da rischi, si tende ad attenersi rigidamente e limitatamente alla regola e, non riuscendo ovviamente a concretizzare il risultato prefisso, ci si scoraggia facilmente e sorge il senso di colpa per chissà quale peccato, detto in termini cristiani, o comunque si è annichiliti nella convinzione di aver accumulato karma negativo, ma questa è una visione completamente assurda, sbagliata, la via del Bodhisattva non è un codice coercitivo e repressivo, è una proposta di percorso a cui ognuno si accosta in base alle proprie capacità.
Il karma non è mai determinato dalla realizzazione o meno di qualcosa, ma semplicemente dall’intenzione.
“In breve, direttamente e indirettamente, offro
ogni beneficio e felicità a tutti gli esseri senzienti, mie madri;
Possa io segretamente prendere su di me
tutte le loro azioni negative e sofferenze.”
Soprattutto è importante mantenere salda la giusta motivazione coltivando l’attitudine a prendere su di sé “segretamente, il mondo non deve sapere. Per quanto riguarda invece la paura di potersi ammalare o di incrementare le proprie disgrazie praticando il Tong Len, state tranquilli non si corre alcun pericolo, noi non siamo dei Bodhisattva, e se lo fossimo non avremmo certo una simile preoccupazione, anzi ce ne rallegreremmo.
La forza del Bodhisattva è la speranza di prendere concretamente e con grande gioia la sofferenza altrui, senza riserve, completamente con amore e compassione illimitati, questa è l’autentica, l’unica vera felicità.
Cos’è la sofferenza? È una domanda su cui dobbiamo riflettere sino a trovare la risposta perché, come Buddha raccomanda, è indispensabile riconoscere la sofferenza nella sua essenza profonda e vera per poterne essere totalmente liberati.
La sofferenza non è in sé negativa, al contrario possiede una grande verità e soltanto penetrando in questa essenza con piena comprensione possiamo vincere ogni pena, sappiamo andare oltre nella serena condizione di pace, gioia, felicità autentica.
È impossibile combattere la sofferenza con la forza, sarebbe come colpire un muro con un pugno, sentiremmo ancora più male; il modo corretto per affrontarla consiste nella ricerca dell’armonica convivenza con essa, nell’accoglienza consapevole della sua essenza, potendo così superarla con equilibrio e serenità.
Questa è la via del Bodhisattva, accogliere, ricevere la sofferenza imprime senso alla stessa sofferenza, propria e altrui.
Noi invece lottiamo con ogni mezzo nel tentativo di eliminare ogni pena, ma è assurdo, impossibile, il dolore è intrinseco all’esistenza umana e quando finalmente ne scopriamo il significato troviamo il vero senso della vita.
Dobbiamo in questo percorso essere realisti e sapere che praticare Len, prendere la sofferenza altrui, non è per noi realizzabile sul piano concreto, materiale, però lo possiamo, anzi lo dobbiamo, fare idealmente a livello di desiderio sincero perché in questo modo apriamo il cuore, ne espandiamo la potenzialità e più forte e radicata è l’aspirazione a prendere su di sé la pena altrui tanto minore è la propria, che anzi diminuisce progressivamente divenendo sempre più piccola, infinitesimale rispetto allo spazio creato nel cuore.
Tutto questo avviene custodito in quel segreto che, non solo si nasconde all’esterno e non attende nessuna ricompensa, ma si espande in una illimitata gratitudine. Il Tong Len non può prescindere da questi basilare principi.
Tong è la pratica dell’amorevole gentilezza e Len della compassione, e il metodo consigliato per concentrarsi sul Tong Len è quello di utilizzare il sostegno del respiro, inspirando si visualizza l’attitudine a prendere ed espirando quella a dare.
La respirazione è un fatto naturale, non prevede sforzo alcuno e osservarne il ritmo comporta consapevolezza, ānāpāna-sati, che non deve essere limitata alla seduta meditativa formale, ma rivolta continuativamente al respiro fonte di ogni istante di vita, ventiquattrore su ventiquattro.
La respirazione nasce spontaneamente, ma viverla consapevolmente ne cambia completamente la prospettiva, è un esercizio che può portare ad uno sviluppo naturale del Tong Len trasformandosi nella pratica dell’amorevole gentilezza e della compassione.
Nella consapevolezza dell’espirazione si sviluppa l’attitudine al Dare e nella consapevolezza dell’inspirazione l’attitudine al Prendere, così la pratica del Tong Len utilizza la respirazione come strumento naturale che ad ogni movimento nutre e fa crescere l’amore e la compassione universale.
Respirare è vita e la vita comporta naturalmente sofferenza che rappresenta indiscutibilmente un mezzo di arricchimento e crescita personale e dunque la qualità del respiro può trasformare la qualità della vita, se respiriamo senza consapevolezza la mente è inevitabilmente confusa e l’esistenza diventa tesa, affaccendata in mille inutili affanni, tormentata, costretta in un vero inferno.
La respirazione è un meraviglioso sostegno, ma non l’unico metodo per la pratica del Tong Len che è a disposizione di tutti gli esseri, anche di quelli che non posseggono questa funzione, ad esempio gli esseri senza forma.
È certamente positivo praticare il Tong Len durante una sessione meditativa formale, ma il suo senso profondo si rivela soprattutto nella quotidianità, nell’attitudine ininterrotta a portare in ogni normale atto della propria esistenza le qualità delle sei pāramitā: generosità, pazienza, moralità, concentrazione, perseveranza e saggezza nella conoscenza della vera natura dei fenomeni.
Le sei pāramitā contengono ed esprimo la pratica completa del Dharma e il Tong Len - Dare e Prendere - ne è la consapevole applicazione quotidiana nella condivisione e nell’apertura del cuore che dona agli altri le proprie qualità e felicità e ne accoglie in cambio il tormento.
Ordinariamente il nostro cuore è chiuso, impaurito, incapace di sopportare il minimo disagio, e solo con l’attitudine semplice ma continuativa di applicare il Tong Len ad ogni atto, anche il più banale, è possibile imparare lentamente ma progressivamente ad accettare la propria sofferenza, ad osservarla senza fuggire, e poco alla volta ci si accorge che il cuore si apre con naturalezza alla sofferenza altrui nel desiderio di alleviarla, di prenderla su di sé, dapprima questa sensibilità nuova è rivolta alle persone più vicine e man mano si espande in spazi sempre più vasti, sino a includere tutti gli esseri.
Questo è l’effetto quotidiano, concreto e realistico della pratica del Tong Len nelle sei pāramitā, qui, nel samsāra in cui concretamente stiamo, poiché sognare di uscire dalla condizione umana per raggiungere l’illuminazione al più presto può essere un’aspirazione lontana, ma ora è solo illusione che ci allontana dall’obiettivo stesso, il vero, meraviglioso Dharma di cui disponiamo è qui e ora, senza indugio, questa è l’autentica pratica dei Bodhisattva che non cercano affatto di sfuggire al samsāra, alla sofferenza, anzi, nel loro infinito amore sono risoluti a restare finché un solo essere senziente esista.
Soltanto noi vogliamo ad ogni costo abbandonare qualsiasi pena e raggiungere l’illuminazione, il nirvāna nel più breve tempo possibile, eppure proprio questi desideri sono fortemente dannosi alla nostra maturazione umana ed esprimono soltanto paura, debolezza, intolleranza in un’attitudine che aumenta la sofferenza ed è esattamente opposta al Dharma.
Dobbiamo invece vivere pienamente nel samsāra praticando le preziose qualità che lo possono migliorare a beneficio nostro e altrui. La sofferenza è il carburante necessario affinché realizziamo noi stessi qui e ora, godiamo dunque senza riserve e con immensa gratitudine di poter vivere pienamente la nostra umanità nel Dharma, nello Spirito Santo.
Dove c’è dolore e confusione possiamo trasformare il nostro cuore e trovare gioia e significato nello Spirito Santo, nel Dharma, dove c’è buio scoprire la luce, ma ciò è realizzabile soltanto qui, nel samsāra in cui viviamo ogni istante, questo è il dono del Tong Len.
Domanda:  A volte mi è successo di utilizzare il Tong Len rivolto a me, in una sorta di sdoppiamento, come se io fossi due persone quello che dà e quello che riceve, pur coinvolgendo in questa visualizzazione di flussi anche pochi altri, vorrei sapere se questa modalità può influire nello scioglimento del sé o se, al contrario, lo rafforza trasformandosi in una pratica controproducente.
Lama:        Accogliere il dolore proprio e altrui è sempre utile, ma tutto dipende dal grado di compassione e amore. La risposta è nel settimo degli otto versi: “In breve, direttamente e indirettamente, offro ogni beneficio e felicità a tutti gli esseri senzienti, mie madri; Possa io segretamente prendere su di me tutte le loro azioni negative e sofferenze.” Il punto è proprio questo: “direttamente e indirettamente, e segretamente”, dare e prendere senza aspettative, gratuitamente, così che l’io non abbia alcuna rilevanza.
Domanda:  Ma proprio questo è il problema, infatti mi chiedo se la compassione indirizzata a me stesso sia reale e positiva o piuttosto un inganno ulteriore dell’ego?
Lama:         Questa è un’astrazione tipicamente occidentale, l’amore dualistico così come l’odio verso se stessi, sono concetti assolutamente sconosciuti nella cultura e filosofia orientale, non esistono nemmeno termini linguistici per esprimerli.
Dirigere amore e compassione verso noi stessi significa avere l’attitudine alla rinuncia, a liberarci dalla schiavitù dei fattori che causano sofferenza: attaccamento, avversione, ignoranza, e solo quando rivolgiamo questa volontà nei confronti degli altri diventa amore e compassione.
Domanda:  La complicazione è però data dalla contraddizione che subito nasce con il desiderio di liberarmi dalla mia sofferenza e nel contempo con la necessità morale di dover prendere quella altrui…
Lama:         E’ importante non dimenticare mai che noi non siamo ancora dei Bodhisattva e dunque l’assunzione della sofferenza degli altri rimane sempre e soltanto a livello di aspirazione, non è effettiva in nessun caso, pensare di poterlo fare sarebbe un autoinganno grave. Noi dobbiamo camminare nell’umile coscienza delle nostre reali possibilità e capacità.
Domanda:  Per me Lo Jong e Tong Len sono mezzi abili di trasformazione della mente, un modo di lasciar andare il proprio ego, credo che siano uno strumento efficace per la capacità di accettazione della propria sofferenza, anche se piccola, consentono di contemplarla con amore e compassione e aprono in piena equanimità il cuore agli altri, si crea davvero così uno spazio che da molta gioia.
Lama:         Con la pratica di Lo Jong e Tong Len si possono ottenere grandi risultati per se stessi e per gli altri ma tutto dipende dalla purezza dell’intenzione, dall’autenticità di amore e compassione universali.
Domanda:  Io vorrei capire se nel momento in cui prendiamo la sofferenza di un altro in un certo senso lo liberiamo? e poi, dopo averla rielaborata con il cuore e con la mente, la dobbiamo restituire?
Lama:         Non ho capito, che cosa devi restituire?...
Domanda:  Mi spiego meglio, dopo aver partecipato al dolore dell’altro, compreso con empatia e compassione, dobbiamo trattenere questo patrimonio così trasformato o lo dobbiamo ridare all’altra persona?
Lama:         E’ una domanda piuttosto complicata. Prima di tutto noi non sappiamo quanto realmente comprendiamo la sofferenza di un altro, anche perché appartiene solo a lui, così come solo a noi appartiene il grado di comprensione della stessa, ma quest’attitudine a partecipare e comprendere ci aiuta a sviluppare amore e compassione, il che è già in sé una forma di restituzione, è chiaro?
Domanda:  Si e no, quando nel mio lavoro, la psicoterapia, devo affrontare una montagna di sofferenza cerco di comprenderla ed elaborarla, ma poi devo riconsegnare qualcosa alla persona che ho di fronte.
Lama:         Se senti e partecipi alla sofferenza dell’altro è già positivo, poi come sia possibile diminuirla o alleviarla è un mistero, io non lo so, non sono un esperto.
Intervento: Poiché facciamo un lavoro simile credo di poter ipotizzare che il Tong Len unito alla meditazione e l’approccio terapeutico sono due aspetti completamente diversi, anche se indubbiamente ci può essere una certa connessione. Ho vissuto personalmente l’esperienza dell’incontro con una persona fortemente sofferente e ascoltando il suo dolore provavo a praticare il Tong Len, così mi sono accorta che con questa attitudine mentale lasciavo andare con maggiore facilità ogni giudizio o volontà di imporre un percorso terapeutico e questo ha influito, non apportando un grande cambiamento, ma permettendo all’altra persona di rilassarsi e di allentare gli automatismi difensivi, la chiusura interiore.
Intervento: Vorrei aggiungere una risposta per Laura. Io credo che tu intendessi il termine restituzione in senso psicoanalitico, che si può anche fare, però si tratta di un mezzo abile della psicologia clinica occidentale, in particolare dalla psicoanalisi e quindi è molto circoscritto e appartiene ad altra cultura e società rispetto all’ambito filosofico orientale; è vero che in parte ci può essere un’area di sovrapposizione, però la restituzione psicoanalitica è tutt’altra cosa rispetto al discorso del Lama.
Domanda:  Va bene, ma io vorrei capire se le due cose possono in qualche modo armonizzarsi…
Lama:         Sicuramente, più sviluppi amore e compassione e più riesci ad aiutare gli altri, è un fattore automatico.
Domanda:  Un’altra domanda riguarda la motivazione, che nella sessione formale di meditazione è sempre facilmente positiva, però nello svolgimento delle attività quotidiane è ben più difficile mantenerla pura e non inquinata da aspetti negativi, e allora ci si accorge di essere assai meno buoni di quanto si pensasse...
Lama:         Ti risponderò con calma oggi, ora è bene concludere questa sessione.





Come generare la Bodhicitta
- Sabato pomeriggio - seconda sessione

Questa mattina abbiamo visto gli effetti positivi della pratica del Tong Len, ma come generare in noi la bodhicitta?
Ciò avviene sempre a livello di aspirazione, liberando la mente dalle tensioni, dai pensieri concettuali, dalla confusione, rimanendo stabili in una condizione di purezza, come esposto nelle preghiera di offerta preliminare.

VERSI PER GENERARE LA BODHICITTA:

Purificazione del luogo
Possa la superficie della terra, in ogni direzione, essere pura, senza asperità e imperfezioni, soffice e liscia come il palmo della mano di un bambino, naturalmente levigata come i lapislazzuli.
Offerta
Possano le offerte materiali degli umani e dei deva, quelle effettivamente preparate, quelle immaginate e le nuvole delle ineguagliabili offerte di Kuntu Zangpo, pervadere la totalità dello spazio.
“Om namo bhagavate, vajra sara pramardane tathāgataya, arhate samyak sam buddhaya, tadyatha, om vajre vajre, maha vajre, maha tejra vajre, maha vidya vajre, maha bodhicitta vajre, maha bodhi mandopa samkramana vajre, sarva karma varana visciodhana vajre soha”
Potere della Verità
Per il potere della verità dei tre gioielli del rifugio, per la grande energia ispiratrice di tutti i Buddha e i Bodhisattva, per l’imponente raccolta completa di merito e di saggezza, per il potere della vacuità inconcepibile e pura, possano tutte queste offerte rivelare la loro vera natura.
***
Pratica in sette rami
“Oh leoni fra gli uomini, Buddha passati, presenti e futuri, a quanti di voi esistono nelle dieci direzioni, mi prostro con corpo, parola e mente.
Sulle onde della potenza di questa regina delle preghiere, per i metodi supremi e sublimi con corpi numerosi come gli atomi del mondo, mi prostro ai Buddha che pervadono lo spazio.
In ogni atomo si trova un Buddha che siede tra gli innumerevoli figli di Buddha; con sguardo fiducioso mi rivolgo ai Vittoriosi che riempiono l’intero Dharmadhātu.
A coloro che hanno infiniti oceani di eccellenza, con un oceano di prodigiosa parola canto lodi alla grandezza di tutti i Buddha: un elogio a coloro che sono andati nella beatitudine.
Offro loro ghirlande di fiori, parasoli decorati, musiche piacevoli e profumi eccelsi; offro a tutti i Vittoriosi lampade al burro e sacro incenso purissimo.
Cibo eccellente, fragranze supreme e un cumulo di sostanze mistiche alto come il monte Meru dispongo in un ordine speciale e offro a coloro che hanno conquistato se stessi.
Elevo tutte le offerte impareggiabili con ammirazione per coloro che sono andati nella beatitudine con la forza della fede nei metodi sublimi, mi prostro e faccio offerte ai Conquistatori.
Da lungo tempo, sopraffatto da attaccamento, odio e ignoranza, con il corpo, la parola e la mente ho compiuto innumerevoli azioni negative. Ora le confesso tutte senza omissioni.
Nelle perfezioni dei Buddha, Bodhisattva, Arhat, sul sentiero e nella potenziale bontà di tutti gli esseri viventi, elevo il mio cuore e gioisco.
Oh luci dell’universo, Buddha che otteneste lo stato dell’illuminazione incontaminato, a tutti voi rivolgo questa richiesta: fate girare l’incomparabile “ruota del Dharma”.
Oh maestri che volete mostrare il Parinirvāna, vi prego di restare con noi e insegnare per tanti eoni quanti sono i granelli di polvere, per portare gioia e virtù a tutti gli esseri.
Possa qualunque merito accumulato tramite queste prostrazioni, offerte, purificazioni, rallegrandomi e chiedendo ai Buddha di rimanere e insegnare il Dharma, essere dedicato all’illuminazione suprema e perfetta, affinché, al più presto, io liberi dalla sofferenza tutti gli esseri.”
***
Offerta del Mandala
Con fede inamovibile nei miei guru, ydam e tre preziosi gioielli, offro il prezioso mandala ingioiellato, altre purissime offerte, ricchezze, tutte le virtù create da chiunque nel passato, nel presente e nel futuro con il corpo, la parola e la mente.
Accettandole con la vostra infinita compassione, mandatemi onde di energia ispiratrice.
“Idam guru ratna mandala kam niryata yami”
(invio questo mandala ingioiellato a voi guru preziosi)

***
Queste sono le pratiche preparatorie, ora entriamo direttamente nella pratica di bodhicitta al fine di aprire il cuore ad amore e compassione e porci nell’attitudine di aspirazione:

Generare la Bodhicitta
(ripetere tre volte)
Con il desiderio di liberare tutti gli esseri,
Fino al raggiungimento dell’essenza dell’illuminazione
Prenderò sempre rifugio
Nel Buddha, nel Dharma, nel Sangha.
Con saggezza, amore e compassione
Mi sforzerò di recare beneficio agli esseri senzienti.
Stando davanti ai Buddha,
genero la mente della completa illuminazione.
***
Le Quattro Meditazioni Illimitate
“Come sarebbe meraviglioso se tutti gli esseri senzienti fossero equanimi, senza attaccamento né ostilità, non vicini a qualcuno e distanti da altri. Possano dimorare nell’equanimità. Io farò in modo che vi dimorino. Vi prego, guru-divinità, concedetemi la vostra energia ispiratrice affinché io sia in grado di fare ciò.
Come sarebbe meraviglioso se tutti gli esseri senzienti avessero la felicità e le sue cause. Possano essi averla. Io farò in modo che la posseggano. Vi prego, guru-divinità, concedetemi la vostra energia ispiratrice affinché io sia in grado di fare ciò.
Come sarebbe meraviglioso se tutti gli esseri senzienti fossero liberati dalla sofferenza e dalle sue cause. Possano esserne liberati. Io farò in modo che ne siano liberati. Vi prego, guru-divinità, concedetemi la vostra energia ispiratrice affinché io sia in grado di fare ciò.
Come sarebbe meraviglioso se tutti gli esseri senzienti non fossero privi della gioia delle rinascite elevate o della liberazione completa. Possano non esserne mai privi. Io farò in modo che essi non ne siano separati. Vi prego, guru-divinità, concedetemi la vostra energia ispiratrice affinché io sia in grado di fare ciò.”
***
Fino a quando durerà lo spazio
E fino a quando esisteranno gli esseri senzienti.
Fino a quel momento io resterò
Per disperdere le sofferenze degli esseri.
Sāntideva
**********
Ora recitiamo insieme il mantra di Avalokiteśvara:
“Om Ma Ni Padme Hum”
E adesso:

OTTO VERSI DELLA TRASFORMAZIONE DELLA MENTE
Considerando tutti gli esseri senzienti
superiori alla gemma che esaudisce i desideri
per realizzare il fine supremo
possa io costantemente prenderli a cuore.

Quando sarò con gli altri,
riterrò me stesso come il meno importante,
e mi prenderò cura di loro fin nel profondo del cuore
come se ognuno fosse il più elevato degli esseri.

Vigile, ogni volta che sorge un’emozione negativa
Che possa nuocere me o gli altri,
l’affronterò e l’eliminerò
senza indugio.

Vedendo esseri in preda alla malvagità
Intenti a violente azioni negative, sopraffatti da sofferenze,
avrò sempre cura di tali creature così rare,
come se avessi trovato un tesoro prezioso.

Quando altri, per invidia, mi maltratteranno,
mi insulteranno o faranno cose simili,
accetterò la sconfitta e offrirò la vittoria.

Quando qualcuno a cui ho fatto del bene
e in cui ho riposto grandi speranze
mi infligge un danno terribile,
lo considererò il mio santo amico spirituale.

(ripetere 3 volte)                         In breve, direttamente e indirettamente, offro
ogni beneficio e felicità a tutti gli esseri senzienti, mie madri;
possa io segretamente prendere su di me
tutte le loro azioni negative e sofferenze.

Possa la pratica non essere mai contaminata dalle idee causate
dalle otto preoccupazioni mondane,
e, consapevole che tutte le cose sono illusorie,
possa io, privo di attaccamento, essere libero dal samsāra.
***
(Segue meditazione guidata sul’aspirazione alla mente di bodhicitta)

Grazie, ritorniamo ora al Lo Jong, come trasformare, addestrare la mente, anzi due, la mente di bodhicitta convenzionale - relativa, e la mente di bodhicitta ultima - assoluta.
La bodhicitta convenzionale concerne l’amore e la compassione e la bodhicitta ultima la saggezza di vacuità, la natura ultima dei fenomeni.
Come vedete il Lo Jong si articola in molteplici significati, la pratica della bodhicitta convenzionale, come abbiamo fatto ora, è in sé completa nella realizzazione delle sei pāramitā e delle due accumulazioni, di meriti e di saggezza.
La pratica dei Sette Rami, l’Offerta del Mandala, la Presa di Rifugio, riguardano l’accumulazione di meriti e sono pertinenti alle perfezioni della generosità, della pazienza e della moralità, mentre le pratiche della generazione di bodhicitta, dei quattro pensieri incommensurabili e della concentrazione, concernono l’accumulazione di saggezza.
Inoltre per quanto riguarda la saggezza è necessario distinguere tra saggezza della realtà convenzionale e saggezza della realtà ultima, anche se entrambe sono la saggezza della bodhicitta nell’attuazione delle sei pāramitā.
Lo Jong e Tong Len si manifestano quando è consolidata nel cuore la prassi di bodhicitta.
Prendere e Dare sono la pratica del Tong Len, supportata dall’azione del respiro consapevole e ulteriormente consolidata nella riflessione e meditazione degli Otto Versi di Trasformazione della mente, in particolare del settimo.
Lo Jong e Tong Len sono inscindibilmente correlati, l’applicazione di uno soltanto non potrebbe dare alcun risultato, entrambi devono essere esercitati insieme con impegno e costanza, e non è affatto facile, si tratta di un lavoro duro e continuo, ma è proprio questo il nostro compito.
Ora rispondo alla domanda rimasta in sospeso a fine mattinata:
Lama:         La nostra motivazione non può mai essere univoca, rigidamente delineata, perché ci troviamo entro i limiti del samsāra, dunque è necessario saper focalizzare l’attenzione sui suoi due livelli: uno principale o causale e uno secondario. Prima di procedere all’azione è stata formulata una sua motivazione causale, che ne determina l’insorgere ed è fondamentale, a questa segue l’attuazione, che è pur sempre soggetta a motivazione, ma meno importante e più facilmente inquinabile. Dobbiamo dunque concentrare l’attenzione sull’intenzione primaria basilare che determinerà il karma, positivo, negativo o neutro.
Domanda:  Però non sempre una motivazione positiva produce risultati positivi, o no?
Lama:         Forse non immediatamente, ma prima o poi i risultati positivi si paleseranno, è la legge matematica di causa effetto, non si sfugge. In ogni caso la buona motivazione si deve sempre fondare sulla saggezza perché senza intelligenza, malgrado le buone intenzioni, si possono fare grandi errori, che dunque non sono causati dalla mancanza di motivazione, quanto dalla mancanza di saggezza.
Intervento: È anche saggezza conoscere i propri limiti e non cercare di fare più di quanto si sia in realtà capaci.
Lama:         Certamente.
Domanda:  Come fai a distinguere se si tratta di compassione autentica piuttosto che di appagamento dei propri bisogni?
Lama:         La gentilezza amorevole e la compassione si fondano sull’attitudine genuina a scambiare se stessi con gli altri, senza contropartita, questo è il metro di misura.
Tradizionalmente esistono due modi per favorire la generazione della compassione:
Il primo consiste nel considerare tutti gli esseri senzienti come madri e dunque riconoscerne la naturale gentilezza sperimentando una forte e naturale empatia, desiderare di ripagarli mettendoci al loro servizio con una autentica volontà di essere loro di beneficio, questa è la vera compassione.
Il secondo modo invece consiste nello scambio di se stessi con gli altri; riflettendo sulla propria sofferenza si giunge a riconoscere che questa è la condizione naturale di ogni essere senziente e sorge spontaneo il desiderio di offrire agli altri le proprie qualità, i propri beni, e di prendere su di sé le loro sofferenze.
Questa è la pura intenzione che impone una precisa responsabilità personale esattamente opposta alla consueta, inutile e sbagliata domanda: “perché proprio io dovrei fare questo e non qualcun’altro?”
Abbiamo un esempio meraviglioso di pura intenzione in Gandhi che, malgrado dovesse fronteggiare i bisogni di una moltitudine immensa di persone in un continente tanto vasto quanto l’India, non ha pensato neppure per un istante di scaricare su altri gli infiniti compiti e la pesantissima responsabilità che reputava di dover affrontare direttamente e personalmente e con estrema umiltà si è posto accanto al popolo accogliendo la loro umanità, prendendo il loro dolore, le ingiustizie che li affliggevano e offrendo in cambio tutto se stesso, la sua gioia, la sua pace, con il cuore aperto in illimitato amore e compassione nella pienezza di generosità, moralità, pazienza, concentrazione, entusiasmo e saggezza.
Da questa pura aspirazione sorge la bodhicitta, e il Bodhisattva è colui che apre il proprio cuore all’infinito, che non teme nulla poiché è totalmente radicato nella pura intenzione.
La natura della grande compassione, della bodhicitta deve dunque essere analizzata attraverso questi processi di corretta, gentile, amorevole visione degli altri esseri senzienti maturando l’intenzione di scambiare la propria gioia con la loro sofferenza.
In questo testo si dice che al fine di praticare il Lo Jong, la bodhicitta, uno dei metodi più validi è quello di praticare le quattro applicazioni di cui la prima consiste nell’accumulo di meriti che, metaforicamente, potrebbe corrispondere al possesso di un campo da arare e seminare, non è sufficiente limitarsi ad osservare la terra sperando che qualcosa germogli, è necessario lavorare e curare ogni fase sino a raccolto maturo. Allo stesso modo la mente deve essere preparata, arata, per poter divenire la mente gioiosa e infinita della bodhicitta.
Il testo prosegue citando: “desidero essere felice, ma tutto quello che ottengo sono sofferenze e frustrazioni, questo fatto mi ricorda di smettere di compiere azioni malvagie che sono il seme della sofferenza e di accumulare invece merito, il seme della felicità e della gioia, così allora farò”. Questa è la condizione comune a tutti gli esseri, e dunque invece di deprimersi e abbattersi, giacché si conoscono le cause che determinano il karma negativo si dovrebbe reagire accumulando meriti, karma positivo.
L’accumulazione di meriti è manifestata nella pratica dei sette rami e nell’offerta del mandala e assume una valore immenso se si è autentici yogi come Milarepa o San Francesco che non possedevano assolutamente nulla, né cibo, né vestiti, ma avevano enormemente potenziato la loro capacità mentale giungendo ad elevatissime realizzazioni spirituali; lo stesso esempio ci è offerto da Gandhi, una persona che viveva pienamente nel mondo senza però appartenere al mondo.
Ciò dimostra che quanto più si è distaccati dal materialismo tanto più la mente diviene spiritualmente potente in grado di produrre un’enorme accumulazione di meriti; se al contrario siamo schiavi dei condizionamenti mondani prepotentemente proposti dalla società moderna la mente si indebolisce giorno dopo giorno e perde ogni capacità di autentica prassi e, in tal caso, qualsiasi azione si compia: la preghiera dei sette rami, l’offerta del mandala, e anche la predisposizione perfetta di un magnifico altare, è tutto vano, superficiale, esteriore, formale, senza valore, dunque dobbiamo chiederci come oggi sia possibile praticare efficacemente una autentica accumulazione di meriti.
Lo strumento a nostra disposizione, unico e ineludibile, è la pratica ininterrotta delle sei pāramitā: generosità, moralità, pazienza, perseveranza entusiastica, concentrazione e saggezza; non è necessario essere missionari in Africa o compiere gesti eclatanti, anche qui nella nostra quotidianità ci è chiesto ad ogni istante di essere generosi, pazienti, di avere un comportamento etico, di essere coscienti, gioiosi e saggi nel nostro agire.
Il forte attaccamento ai beni materiali è il vero ostacolo che impedisce ogni evoluzione umana e spirituale e non vi è modo di convivervi, è necessario abbatterlo, contrapporre al desiderio di possesso la generosità, donare con immediatezza ad altri ciò di cui hanno bisogno senza trattenere nulla, offrire amore e compassione incondizionati, senza calcolare alcun tornaconto, con moralità e pazienza.
Nutrire gli affamati, riscaldare i diseredati, è un aiuto immediato molto positivo, così come è stato fatto a Roma durante giornate particolarmente fredde dalla comunità di sant’Egidio, da gente comune, solo i buddhisti non hanno partecipato. Anche in India, le sorelle di madre Teresa operano instancabilmente, mentre i buddhisti si isolano soltanto nella meditazione e questo è un problema, la meditazione è ottima, indispensabile, ma non può essere l’unico aspetto; ad un convegno cui ho partecipato una persona ha sollevato l’obiezione che i buddhisti vivono troppo lontani, al di fuori dal mondo e dalle sue problematiche concrete, e in questo vi è un fondo di verità, per cui è bene domandarsi cosa si intende con accumulazione di meriti, qual è il metodo più consono per realizzarla. È sufficiente meditare, pregare e fare rituali di offerta? o è necessario affiancarvi anche un impegno concreto, attivo di aiuto ai più bisognosi? L’azione è oggi necessaria e deve essere compiuta con sincera generosità del cuore.
Capire profondamente il Dharma, il significato dell’accumulazione di meriti, non è affatto scontato, al contrario è estremamente difficile e richiede una instancabile ricerca onesta, sincera, pura, umile, senza aspettativa di manifestazioni esteriori, eclatanti, è la responsabilità, il lavoro di tutta la vita.
I tibetani nella parola che definisce l’accumulazione di meriti comprendono immediatamente che si tratta del fattore fondamentale dell’esistenza quotidiana, qui in occidente invece a questo concetto si attribuiscono significati diversi e alcuni possono addirittura essere negativi e fonte di fraintendimenti, per questo è fondamentale cercare la giusta risposta nella purezza del proprio cuore, senza divagare e perdersi in sterili elucubrazioni intellettuali, esteriori e mai corrispondenti all’essenza di questo fenomeno autenticamente profondo e reale.
Lo Jong e Tong Len offrono un percorso valido per tutti, di qualsiasi cultura, religione e grado di istruzione, ma è necessario che ognuno si impegni personalmente nella ricerca interiore applicandosi instancabilmente e gioiosamente nella pratica delle sei pāramitā.







Come consolidare la trasformazione della Mente
- Domenica -

Cominciamo oggi con la recitazione degli Otto Versi di Trasformazione della Mente (v testo a pag. 18)
(Seguono preghiere e breve meditazione).

Riprendiamo il discorso sul tema di queste due giornate di riflessione “Lo Jong e Tong Len”; ricordiamo che Lo designa la mente con più significati, primo tra questi la bodhicitta, la mente di compassione e di amore in cui sono racchiusi aspetti di molteplici discipline: fisiologia, psicologia, medicina, spiritualità, filosofia, religione, e tutti, senza eccezioni, devono essere purificati.
Il fondamentale compito umano consiste nella necessità di trasformare la mente ordinaria in straordinaria, di percorrere il sentieri della bodhicitta e scoprire l’amore e la compassione dimoranti nel cuore, è un lavorio lento, lungo, quotidiano, non lo si realizza in un istante, richiede un impegno ininterrotto, sistematico, naturale, e non è affatto necessario attenersi rigidamente all’applicazione di un metodo predefinito, anzi questo sarebbe indice di stagnazione acritica nel pantano di questa epoca degenerata, ci priveremmo dell’autentica aspirazione a voler sviluppare amore e compassione nella prassi concreta e continua delle sei parāmita; se avvertiamo la necessità di tecniche, di regole meccaniche, significa che siamo completamente fuori strada, fermi in un punti morto, la libertà sarà raggiunta solo con l’apertura del cuore.
Dobbiamo dunque applicarci tangibilmente nella pratica del Lo Jong e del Tong Len concentrando l’attenzione sui tre oggetti e i sei sensi nel periodo successivo alla sessione meditativa formale, perché è proprio nella semplicità di ogni gesto ordinario, naturale, che si sviluppa la sensibilità umana alla compassione e all’amore.
Invece, a causa dei sei sensi da cui ci lasciamo dominare, di fronte ai tre oggetti: piacevole, spiacevole e neutro, immediatamente concepiamo i tre veleni: attaccamento, avversione e ignoranza, se però sapessimo applicare in ogni consueta azione quotidiana, giorno e notte, le tre virtù: amore, compassione e saggezza, saremmo davvero in grado di ribaltare la consueta attitudine limitante e di liberare e trasformare radicalmente la nostra mente.
È dunque necessario non smettere mai di riflettere sulla realtà umana cominciando da se stessi tramite l’analisi delle proprie reazioni impulsive basate sui tre veleni, in questo modo ci apriamo spontaneamente alla condizione altrui, soggetta alle stesse influenze e distorsioni, e sorgono spontaneamente l’empatia, la compassione, l’amore e la saggezza.
Come insegna il Buddha è indispensabile riconoscere la natura della sofferenza, le sue cause, i tre veleni che controllano in egual misura noi e gli altri, non c’è nulla da avversare, da combattere, è sufficiente averne chiara consapevolezza, riconoscerli istantaneamente così da determinare la reale possibilità del loro superamento. La sofferenza è parte della vita, è la stessa condizione umana, fare la guerra alla sofferenza significherebbe fare la guerra alla vita, la si oltrepassa soltanto conoscendone le profonde radici.
Comprendere e accogliere la natura della sofferenza nella propria esistenza comporta la capacità di sviluppare in sé la sensibilità che permette di penetrare profondamente nella sofferenza degli altri, spalancando il cuore ad una piena condivisione con amore e compassione nell’auspicio che tutti in egual misura possiamo liberarci da questo dolore.
L’effettiva conoscenza della natura della sofferenza è la consapevolezza della vita, il passaggio indispensabile affinché si possa praticare autenticamente nella quotidianità il Tong Len, in quanto si è fortificati dalla consapevolezza, dall’esperienza che consente di accogliere con gioia la sofferenza degli altri offendo loro in cambio la propria felicità.
Per ricordare a noi stessi l’immenso valore di questa pratica e mantenerne costantemente viva l’applicazione è utile recitare ogni giorno con consapevolezza gli “Otto Versi di Trasformazione della Mente”; ecco perché è usuale vedere anziani tibetani che ruotano ininterrottamente il mulino di preghiera, sgranano la mala o ripetono semplicemente “Om Ma Ni Padme Hum” contemporaneamente allo svolgimento delle consuete attività. Però non è scontato che queste persone siano veramente concentrate nella dimensione spirituale della loro pratica, spesso è quasi un riflesso automatico ad una tradizione culturale, si fa così perché lo si è sempre fatto e non per una reale cognizione dell’immenso valore dell’azione.
È dunque necessario mantenersi svegli e vigili nella via di mezzo con amore e compassione e applicare i “Quattro Pensieri Incommensurabili”, detti anche Quattro Meditazioni Illimitate”:
“Come sarebbe meraviglioso se tutti gli esseri senzienti fossero equanimi, senza attaccamento né ostilità, non vicini a qualcuno e distanti da altri.
Possano dimorare nell’equanimità.
Io farò in modo che vi dimorino.
Vi prego, guru-divinità, concedetemi la vostra energia ispiratrice affinché io sia in grado di fare ciò.”
Il primo verso esprime amore e compassione nel desiderare che tutti gli esseri possano godere allo stesso modo di felicità e pace nell’equanimità che libera da ogni attaccamento o avversione, permettendo di dimorare nella stabile gioia.
Soprattutto è fondamentale assumere in prima persona la responsabilità di agire: - io farò questo - direttamente, senza delegare a nessun altro ciò che è mio preciso compito, prendendo così una posizione integra, determinata, anche se in netta contrapposizione con gli schemi culturali di questa società lassa che autorizza a cercare e immancabilmente trovare esclusivamente le responsabilità altrui; noi ci riteniamo sempre assolutamente innocenti, mai implicati, ma questo è il più grande fraintendimento e ostacolo del mondo moderno, è la grettezza miope che si contrappone all’attitudine del Bodhisattva.
Il testo continua:
“Come sarebbe meraviglioso se tutti gli esseri senzienti avessero la felicità e le sue cause.
Possano essi averla.
Io farò in modo che la posseggano.
Vi prego, guru-divinità, concedetemi la vostra energia ispiratrice affinché io sia in grado di fare ciò.

Come sarebbe meraviglioso se tutti gli esseri senzienti fossero liberati dalla sofferenza e dalle sue cause.
Possano esserne liberati.
Io farò in modo che ne siano liberati.
Vi prego, guru-divinità, concedetemi la vostra energia ispiratrice affinché io sia in grado di fare ciò.

Come sarebbe meraviglioso se tutti gli esseri senzienti non fossero privi della gioia delle rinascite elevate o della liberazione completa.
Possano non esserne mai privi.
Io farò in modo che essi non ne siano separati.
Vi prego, guru-divinità, concedetemi la vostra energia ispiratrice affinché io sia in grado di fare ciò.”
I “Quattro Pensieri Incommensurabili” e gli “Otto Versi di Trasformazione della Mente” non solo devono essere mantenuti vigili nella memoria, ma è anche conveniente verbalizzarli poiché se ne incrementa la naturale e potente energia.
A questo punto sorge una domanda pertinente: - cos’è la felicità? - Non è da intendersi secondo la consueta definizione ideale o filosofica, ma è inerente a ciò che si sperimenta concretamente. Voi come la definireste?
Risposte:     Amore silenzioso; bellezza; pace; dare amore; essere senza conflitti; vivere con ciò che c’è; serenità; accettazione; essere presenti in tutte le azioni; un po’ di tutto questo; quando si sperimenta un senso di beatitudine; armonia; libertà; pace con se stessi; assenza di sofferenza;…
Lama:         Le parole usate possono essere molto diverse, ma il concetto concreto credo sia unanime e, in base a quanto detto sinora “Tong Len - Lo Jong” e alla mia ricerca personale nel Lam Rim, ciò che io sento essere la felicità corrisponde allo stato di equanimità che è stabile pace e serenità interiore, lontano da attaccamenti ed ostilità, sensazioni automaticamente dissolte nell’azione di lasciarle andare, così da essere liberi da ogni condizionamento, al di sopra di sentimenti di odio o di bramosia, permanendo in uno stato di pienezza e di completezza che non necessità di null’altro.
La stessa vacuità è uno stato di equanimità. L’equanimità è in perfetta armonia con amore e compassione, pur essendone indipendente ne ha piena comprensione, ma va al di là del sentimento.
Dall’incontro dei tre oggetti con i sei sensi si manifestano spontaneamente le emozioni sia negative che positive, ed è già un passo determinate averne coscienza, ma poiché non siamo dei Bodhisattva e la nostra mente è estremamente fragile, è necessario dunque mantenersi consapevolmente fermi nella pace dell’equanimità, senza lasciarsi condizionare da attaccamenti o da avversioni che rappresentano il maggiore ostacolo alla maturazione umana.
I “Quattro Incommensurabili” sono meravigliosi, esprimono lo stato profondo della mente equanime, infatti le consuete sensazioni di disagio, di insoddisfazione che ci pervadono sono gli indicatori del nostro confuso coinvolgimento nelle emozioni di attaccamento o avversione e di conseguenza della totale assenza di equanimità.
Il primo errore è quello di confondere la felicità con il piacere, sono due condizioni assai differenti e opposte, il piacere è effimero, non è altro che sofferenza, esattamente come lo è il dolore. Dunque solo nell’equanimità che è la via di mezzo e infine la vacuità, possiamo trovare quella felicità che rincorriamo con pena su percorsi fuorvianti.
Lo stato della via mezzo e lo stato di vacuità corrispondono pienamente allo stato equanime della mente, condizione fondamentale in questa epoca altamente conflittuale e problematica da cui è possibile non lasciarsi travolgere solo avendo introiettato la profonda natura spirituale con l’applicazione ininterrotta del Dharma nella prassi delle sei perfezioni - della generosità, della moralità, della pazienza, della perseveranza, della concentrazione, della saggezza e non sulla base di emozioni temporanee.
Oggi invece il pericolo di confondere i due piani, spirituale ed emotivo, è più che mai presente e solitamente l’emotività ha inconsapevolmente il sopravvento, l’unica possibilità di evitare questo macroscopico errore è rimanere centrati nell’equanimità che concretamente è pace, è felicità.
Cos’è la felicità? È sentire profondamente in sé stessi la pace, la serenità nella stabilità equanime, dunque la pratica del Dharma nelle sei perfezioni ha lo scopo di realizzare questa condizione ed è un obiettivo concreto, tangibile, realizzabile qui e ora, non domani.
La presenza regolare dell’equanimità nella quotidianità offre un assaggio di piccola illuminazione, non si tratta dell’illuminazione vera e propria, ultima, ma di quello stato imparziale di pace gioiosa, lontana dalle emozioni di attaccamento e avversione; è autentica felicità, l’illuminazione concreta, reale, tangibile a cui si riferisce il Buddha nel suo insegnamento, non quella sognata o poeticamente raccontata nelle fiabe, dipinta con stupendi colori e manifestata in clamorosi miracoli.
Il Buddha era una persona semplice e pratica, non raccontava favole, ma spiegava la realtà dell’illuminazione da lui realizzata, sperimentata direttamente nella chiara visione della condizione umana. Aveva compreso che il fondamentale ostacolo alla felicità a cui tutti possono accedere è la sofferenza e che questa si concretizza in conseguenza a precise cause e dunque soltanto con la loro radicale rimozione è possibile annientare ogni sofferenza, e il mezzo per eliminare le cause del dolore è il sentiero del Dharma.
Per annullare la sofferenza è dunque indispensabile coltivare lo stato mentale di equanimità abbandonando le cause della sofferenza del dolore come della sofferenza del piacere.
A questo punto è inevitabile e giusto porsi l’interrogativo su cosa sia davvero l’illuminazione, perché irrazionalmente ne diamo sempre un’interpretazione fantasiosa quanto errata, la complichiamo nei modi più assurdi, mentre è la realtà più semplice e naturale proprio come esprime la parola stessa e il Buddha ha indicato la via per raggiungerla con una spiegazione lineare, limpida e comprensibile a tutti, di impatto immediato, concreto, basata sullo stato mentale dell’equanimità che è già di per sé una prima, piccola, illuminazione.
Io ho trascorso molti anni della vita nello studio di quel meraviglioso, incomprensibile fenomeno che è l’illuminazione ultima, ho analizzato libri, definizioni, interpretazioni di ogni tipo, effettuato infiniti rituali, ripetuto mantra, ho ascoltato elevati insegnamenti di autorevoli guru, di tutto troppo, e alla fine ho compreso di non sapere assolutamente nulla dell’illuminazione, anzi ne sono ancora più confuso, poiché non è possibile per nessuno acquisire diritti d’autore su Buddha-Dharma, e sono dunque rattristato nel constatare che la visione forviante, quasi magica, così spesso reiterata nel buddismo tibetano, si riflette ancor più pesantemente in occidente.
Le credenze, le superstizioni, allontanano dall’illuminazione che invece è una realtà semplice e concreta di cui se ne può sperimentare un pallido riflesso già in questa stessa vita, qui e ora in quanto si tratta di una qualità già presente nella mente, non proviene dall’esterno.
Il Dharma non ha bisogno di nessuna permesso per essere praticato, anzi tutte le trafile per richiedere autorizzazioni a muoversi da una pratica all’altra innescano un meccanismo che potrebbe essere comparato alla peggiore burocrazia italiana e che non conduce da nessuna parte, si perde tutto il tempo di questa vita nell’attesa di un certificato di illuminazione che non arriverà mai e se ci venisse dato sarebbe altrettanto inutile, tutta questa confusione non fa altro che allontanarci sempre più dall’illuminazione vera.
L’illuminazione può essere ricercata solo interiormente, nella propria mente, in questo stesso momento, all’esterno ci sono solo illusioni, ingannevoli ostacoli che impediscono di avanzare di un solo passo. La vera fede è la fiducia in sé, nelle proprie possibilità, nella propria divinità interiore, e il Buddha è la qualità della mente, non un principio esterno, la vera ricerca dell’illuminazione è dunque rivolta alla propria interiorità nella domanda da porre a se stessi: “cos’è il Dharma, cos’è l’illuminazione”, ritornando alla semplicità, alla radice, della propria essenza attivando così con convinzione e con fede in sé la ricerca del Buddha interiore.
L’esempio più autentico di questo tipo di ricerca ci è dato dagli antichi maestri Kadampa formatasi durante la seconda diffusione del buddismo in Tibet ad opera del grande maestro indiano Atīsha.
Il suo primo e più capace discepolo che dette inizio alla tradizione Kadampa fu Dromtönpa, un laico estremamente umile e semplice da cui nasce il temine Geshe che significa amico spirituale, al di là di qualsiasi gerarchia è semplicemente un importante e vitale compagno di percorso.
Tutte le classificazioni strutturate in seguito in Tibet in chiuse e rigide graduatorie: berretti rossi, berretti gialli, ecc. rispondendo più a logiche di potere mondano che di essenzialità spirituale, non esistevano affatto tra i grandi maestri Kadampa che invece esprimevano con estrema chiarezza e in modo sostanziale la natura dell’illuminazione.
Al principio la mente originale è mente di equanimità, quando il bambino nasce la sua mente è zen, fondamentale, equanime, è la mente di piccola illuminazione e tutto ciò che può esprimere qui e ora in questo stato mentale è Dharma, tutto il resto è sogno, illusione, perdita di tempo.
Non c’è nulla da aspettare, il Dharma lo devo praticare in ogni istante qui e ora, non esiste pūja, rituale, autorizzazioni, certificati, gerarchie, poteri; purtroppo in Tibet queste pratiche sono diffusissime ed è una delle cause del disastro in cui è precipitato il paese.
Delegare ai sogni, alle superstizioni, alle ingannevoli fantasie è estremamente pericoloso, il Dharma è tanto prezioso quanto rischioso, praticarlo in modo errato può essere davvero disastroso.
Domanda:  L’equanimità è un effetto o una causa? cioè, per poterla acquisire è necessario prima aver ripulito completamente la mente dai difetti mentali? oppure è sufficiente liberarla un po’?
Lama:         La mente nella sua origine è già pura, però è soggetta a inquinamenti che devono dunque essere eliminati affinché possa a ritornare allo stato originale puro, equanime, libero da ogni confusione e la pratica del Dharma nell’applicazione delle sei pāramitā è lo strumento per ottenere questo stato che porta all’illuminazione.
DomandaIo ho sperimentato per due volte un certo livello di illuminazione, non so perché sia successo né come, però quando ho provato a condividere con altri questa esperienza mi sono trovata di fronte ad un muro, alla chiusura più completa, sono stata etichettata come pazza, ed è stato molto doloroso perché dovrebbe essere una gioia per tutti…
Lama:         Ognuno ha esperienze molto personali e non sempre è possibile condividerle con altri, tu hai un lungo percorso di pratica, da sempre sei concentrata nella spiritualità, quindi vivi serenamente le tue esperienze, senza dimenticarle, a livello di ricerca personale con calma e serenità nella pratica delle sei pāramitā.
Domanda:  Da quando ho iniziato questo percorso mi sono reso conto con spavento che accanto ad un’attitudine altruistica, compassionevole, ne ho un’altra assolutamente opposta, vorrei aiutare gli altri, ma nello stesso tempo ho reazioni contrarie.
Lama:         Aiutare veramente gli altri è una delle azioni più difficili, perché noi tendiamo sempre ad aiutare gli altri secondo la nostra visione, i nostri desideri, e non realmente in risposta ai loro bisogni, ma così non può funzionare, non possiamo imporre a nessuno ciò che noi decidiamo di dover dare, il vero aiuto è la nostra disponibilità ad accogliere l’altro con equanimità, in pace e serenità. Senza equanimità il nostro aiuto può diventare addirittura dannoso, è molto pericoloso.
Domanda:  Tu dici che la natura dell’illuminazione è già presente nella nostra mente, ma allora perché facciamo di tutto per allontanarcene e per complicarci la vita che è sempre più confusa nella ricerca dell’illuminazione?
Lama:         Proprio Il desiderio di raggiungere qualcosa è l’ostacolo, non dobbiamo rincorre un obiettivo, in tutti gli insegnamenti, buddhisti e non, nella stessa bhagavadgītā, si richiama alla necessità di “azione senza azione”, di permanere nell’equanimità. Il “non fare” è la più grande e difficile azione.
Domanda:  Vorrei un chiarimento sulla prima nobile verità, della sofferenza, perché mi è sempre stato contestato che la vita non è tutta sofferenza.
Lama:         Credo che qui ci sia un problema linguistico, in realtà di tratta della stessa natura di sofferenza implicita in ogni condizione e realtà a livello fisico, chimico e psichico, onnipresente nel dolore come nel piacere, questa è dukkha, la natura imprescindibile della sofferenza, ma ne sono state date le traduzioni più disparate con grandi fraintendimenti. Si può superare questo ostacolo solo con la meditazione, con l’applicazione delle sei pāramitā, con un’attitudine equanime, mentre l’impostazione della società attuale è esattamente contrapposta, così come non sono di nessun aiuto i rituali, le cerimonie, tutto è reso più confuso e allontana dalla comprensione del vero significato della prima nobile verità.
Domanda:  Praticando l’equanimità è possibile perdere la capacità di reagire fortemente per esempio anche alle ingiustizie?
Lama:         L’equanimità è la reazione più forte a qualsiasi condizione, è la medicina più potente, illimitata, a volte un’azione non consapevole in reazione a un male può essere in sé ancora più dannosa del male stesso e dunque l’azione senza azione ha il maggior effetto.
Domanda:  Allora, l’azione compiuta senza attaccamento al suo risultato è l’equivalente di questo agire senza agire, o è altra cosa?
Lama:         Si, azione senza azione è azione senza aspettativa, azione nella via di mezzo, perché ovviamente l’assenza di qualsiasi azione è soltanto pigrizia e non certamente equanimità, azione senza azione è azione che non crea karma.
Domanda:  Ho recentemente visto una mostra fotografica sulle guerre nel mondo con immagini tremendamente crude e ho constato le mie immediate reazioni di rabbia, di attaccamento, di avversione e mi sono chiesta quale potesse essere la cosa migliore da fare di fronte a tanta ingiustizia che evidentemente io non sono in grado cambiare, ma che non posso nemmeno osservare con indifferenza?
Lama:         Precisamente non lo so, la situazione oggi è così complessa che è ben difficile trovare una risposta adeguata, credo che la sola possibilità sia mantenersi nella via di mezzo, con la mente rivolta al bene di tutti gli esseri, amici e nemici, nessuno escluso, ma fortemente intenzionati a cambiare se stessi, perché la trasformazione della mente individuale è fondamentale per la trasformazione della società, non possiamo far altro. Fare la guerra per combattere la guerra non risolve i problemi, li aumenta soltanto.
Domanda:  Per fare un esempio pratico, se cammino per strada e vedo un uomo robusto che picchia qualcuno più debole, è giusto un mio intervento, oppure no?
Lama:         Reagire nel modo giusto al momento giusto è necessario, azione non azione non significa non fare nulla. In questo esempio specifico è fondamentale un intervento mirato e corretto perché tu non puoi picchiare chi sta picchiando, commetteresti lo stesso identico errore, la sofferenza coinvolge chi picchia e chi è picchiato, è essenziale essere di aiuto a entrambi, il Dharma non è semplice, è molto sottile. La guerra provoca inevitabilmente guerra così come soltanto la pace può produrre pace, non ci sono eccezioni. L’amore e la compassione sono fondati sull’equanimità.
Domanda:  Credo che il nostro timore sia relativo ad una possibile incapacità di confrontarci con una compassione privata di emotività e che ciò possa determinare un atteggiamento di indifferenza.
Lama:         Ciò avviene a causa dei desideri, noi desideriamo sentirci compassionevoli per nostra gratificazione personale, quindi abbiamo bisogno della verifica emotiva, questo è attaccamento.
Domanda:  Oppure paura, temiamo di essere coinvolti dalla sofferenza altrui…
Lama:         Non è affatto semplice, ma è già un passo importante riflettere, meditare, aspirare al benessere di tutti senza desiderio e attaccamento. Troviamo in noi stessi, nella natura pura della mente le risposte alla nostra ricerca. Ogni realizzazione è nelle nostre mani, possiamo decidere se percorrere questa strada oppure no, nessuno ci obbliga, è unicamente nostra responsabilità, è molto semplice, tutti gli orpelli esterni sono solo confusione inutile e fuorviante.

Grazie a tutti, è stata davvero una bellissima esperienza condividere la riflessione su fenomeni così fondamentali quali Lo Jong e Tong Len.