La Grande Compassione - Pratica di Avaloketesvara
Geshe Gedun Tharchin
2008
INDICE
Nota
dell’Autore
Capacità della
Mente nel Lo Jong di riconoscere la confusione dei tempi
degenerati
Risultati
della pratica del Lo Jong e applicazione del Tong Len
Pratica
di Avalokitésvara. La Grande Compassione
Il
significato del Rifugio e della Terra Pura
Conclusioni
Author’s note
This
is the last Dharma talks I delivered in Torino during the weekend of 11 - 12 October 2008. The talks were delivered
in English and translated into Italian by Dharma friend Roberto
Volpon. The registration and transcription of the talks accomplished
by Dharma friend Renata Simonotti. I am grateful of their gentleness
and enthusiasm in Dharma, which made possible this work to share with
many people. I wish that may it will become a resource for well-being
of all sentient beings.
Gedun
Tharchin
*****
Capacità della Mente nel Lo Jong di riconoscere la confusione di quest’epoca degenerata.
Apriamo
questo incontro di Dharma recitando insieme la preghiera del Rifugio.
(segue preghiera)
Portare
il Dharma in un’altra nazione non è cosa facile. Anche in Tibet,
territorio sconfinato, il suo avvento dall’India ha incontrato
numerosi ostacoli, e le difficoltà non sono nemmeno mancate quando
lo si è reintrodotto alla fonte originaria, in Nepal e in India e,
ovviamente, gli impedimenti maggiori si sono presentati quando è
approdato in occidente.
E’
dunque positivo e particolare che esistano luoghi in cui le persone
possano incontrarsi per parlare di Dharma approfondendone la
conoscenza.
In
passato nel Tibet vivevano grandi Lama, che purtroppo stanno
scomparendo e, quando non ne resterà in vita nessuno, si compirà la
fine di un periodo fertile e si cementeranno questi tempi bui. I
grandi maestri scompaiono, il mondo moderno è cambiato e la pratica
del Dharma deve affrontare più impedimenti e meno agevolazioni e
condizioni favorevoli; così si prospetta un periodo particolarmente
arduo per l’insegnamento, per l’ascolto e per la pratica del
Dharma.
Le
difficoltà e gli ostacoli alla pratica del Dharma non dipendono
dalla colpa di qualcuno in particolare, sono il risultato del momento
storico decadente in cui, in inscindibile connessione, i tempi e la
mente si deteriorano, le qualità si depotenziano e sviliscono e
tutto degenera.
Se
da un lato la modernità ha apportato un rinnovamento, un
miglioramento delle condizioni di vita, dall’altro non vi è
altrettanta corrispondenza in una crescita delle qualità umane,
della mente umana.
Possiamo
constatare la decadenza quotidianamente: viviamo in Italia, un paese
bellissimo, con un buon clima, economicamente sviluppato, in cui
usufruiamo di tutte le comodità, abbiamo ottimo cibo, case belle e
confortevoli e spesso ne possediamo più di una, in città, al mare e
in montagna, abbiamo un lavoro ben retribuito, una o più automobili,
godiamo di periodi di vacanza da trascorrere dove e come vogliamo,
seguiamo la moda cambiando frequentemente abiti e possiamo soddisfare
tanti desideri.
Abbiamo
tante comodità, ma cosa apportano alla nostra vita? un giorno
dovremo comunque abbandonarle, e non ci accorgiamo nemmeno che questi
agi in realtà ci incatenano ad un sistema consumistico,
intrinsecamente insaziabile, che incrementa ogni tipo di
complicazioni e ci allontana definitivamente dalla semplicità di una
vita sana e costruttiva; questa è decadenza.
La
visione materialistica del pensiero moderno definisce questo fenomeno
“sviluppo”, ma dal punto di vista dell’essenza della realtà è
assoluta “degenerazione”.
Usufruiamo
di un’efficiente assistenza medica, accessibile a tutti, ma, nel
contempo la medicina è diventata troppo potente, ha travalicato i
confini dell’umano e spesso condiziona tragicamente la vita delle
persone rendendole assolutamente dipendenti dal rimedio adottato,
quasi fossero automi condannati a vivere in uno stato di dipendenza
ininterrotto.
Oggi
la medicina non lascia la libertà di morire, vuole mantenere in vita
ad ogni costo, non si sa bene cosa.
Nella
medicina moderna l’essere umano è stato trasformato in un anonima
macchina in cui si deve intervenire ad ogni costo aggiustando,
sostituendo i pezzi difettosi, affinché continui a funzionare
all’infinito, se malamente non importa, basta che non si fermi. In
questo modo il corpo è diventato qualcosa di materiale, di
meccanico, e ha perduto ogni sua qualità spirituale.
Questa
è la degenerazione della medicina.
Non
nego assolutamente che esista un effetto positivo e degno di tutto
rispetto della medicina moderna, sono stati scoperti farmaci efficaci
contro la tubercolosi, i tumori e tante malattie, ma quando si
oltrepassano i limiti umani significa che si è caduti in concezioni
errate, degenerate.
La
stessa decadenza ha coinvolto il sistema economico mondiale; si è in
fibrillazione per il crollo delle borse, un tipo di affari che non
maneggia direttamente il denaro, si tratta di un gioco perverso di
numeri ipotetici che appaiono convulsamente su uno schermo, tutto è
virtuale completamente illusorio e le persone non sanno assolutamente
cosa succeda al loro denaro, tutto può scomparire in un istante.
Questa
è la degenerazione dei nostri tempi che si manifesta nel progressivo
aumento della confusione generale.
Al
contrario il Dharma non incrementa il disordine o l’illusione, non
si ferma nemmeno al sogno delle terre pure o del paradiso, è
un’essenza concreta che permette di uscire dalle nebbie del caos e
percorrere la chiara via della realizzazione.
Il
Dharma non pretende di allontanarci dai problemi, e non sarebbe
comunque possibile perché ne siamo immersi, e il desiderio di
rifuggirli non è altro che un’ulteriore illusione; ci mostra
invece, nella stessa confusione, la visione corretta della realtà,
ci permette di comprenderla con chiarezza e di affrontare serenamente
e costruttivamente ogni ostacolo.
Un
aspetto particolarmente grave della degenerazione dei tempi moderni è
la corsa ad armamenti sempre più sofisticati e devastanti. In epoche
antiche le armi erano limitate, si poteva uccidere in battaglia un
certo numero di nemici con lance, frecce o altro, ma oggi il
potenziale distruttivo è in grado di annientare tutto, di sterminare
indiscriminatamente militari e civili, sino a cancellare dal pianeta
intere aree geografiche.
Con
la scusa della sicurezza nazionale si impegnano capitali enormi nella
ricerca e fabbricazione di macchine belliche inimmaginabili,
sperperando denaro pubblico che dovrebbe essere utilizzato per
servizi e benefici a favore delle persone.
Come
definire questo stato di cose? “sviluppo” o “degenerazione”?
Dal
punto di vista del Dharma è degenerazione, decadenza, senza ombra di
dubbio, e su questo dobbiamo riflettere seriamente.
La
visione storica dell’universo suddivide il tempo in “eoni”,
che possono essere piccoli o grandi. Pare che negli eoni più remoti
la vita umana sulla terra fosse lunghissima e che si sia man mano
accorciata fino ad arrivare, oggi, ad una durata massima di un
centinaio di anni.
Si
dice che nei lontani eoni la vita individuale durasse senza
difficoltà migliaia di anni, invece in questo eone, pur
caratterizzato da manifestazioni di esseri spirituali di grande
levatura come il Buddha, il Cristo, Maometto sino ai più recenti
Gandhi, Krishnamurti, Martin Luther King, madre Teresa di Calcutta, e
tanti altri, la vita è corta, a dimostrazione che siamo in un’epoca
difficile, tormentata.
Per
realizzare qualcosa di significativo cento anni sono un periodo
davvero troppo breve:
- i primi vent’anni sono dedicati alla crescita;
- i successivi venti trascorrono nelle fantasie, nel sogno di un futuro infinito;
- dopo i quarant’anni si è più maturi ed occupatissimi, ci si affanna costruire la solidità, la stabilità, la propria sicurezza;
- a sessant’anni si manifestano i primi acciacchi, il corpo e la mente si indeboliscono progressivamente e tante porte cominciano a chiudersi;
- a ottant’anni si è nella vecchiaia, le forze sono definitivamente perdute e, se anche si raggiungono i cent’anni, osservando nel dettaglio ogni fase si vede che il tempo dell’esistenza umana in realtà è brevissimo. Questa è la degenerazione dell’età, del tempo di vita.
L’argomento
dell’insegnamento del nostro incontro è il “Lo Jong”, la
trasformazione della mente, ed è strettamente connesso al
riconoscimento della degenerazione dell’attuale era.
Nella
confusione quotidiana lo stato mentale è completamente occupato
dalle ansie, dai timori, dalle difficoltà, dai problemi.
Il
termine Lo Jong è suddiviso in due sillabe, “Lo”
significa mente, ma non la mente di Buddha che è già sviluppata,
liberata, si riferisce alla mente degli esseri comuni che vivono in
questa epoca, e che ha bisogno di essere addestrata, educata,
esercitata, come indica appunto il termine “Jong”,
così che possa essere liberata dal caos.
La
mente confusa non è felice, né soddisfatta, né serena, all’interno
del meccanismo, “non
è giusto”, “non mi piace”, “non va bene”…...
si deprime e affonda nel più assoluto condizionamento. Un problema
ne porta mille altri, una mente infelice ne genera infinite altre, si
alimenta così una situazione progressivamente negativa.
Il
Lo Jong è il metodo che trasforma la mente sofferente e problematica
in una mente capace di superare ogni tormento e difficoltà,
rendendoli anzi strumento di illuminazione.
Il
Lo Jong non tende a creare artificiosamente uno stato di gioia, di
felicità o di allegria, ma è l’esercizio attraverso il quale la
mente impara a riconoscere il reale significato della sofferenza di
cui è ammantata e, in questa capacità di capire, apprende la
modalità per trasformarla in sentiero verso l’illuminazione.
Praticando
il Lo Jong si ha la sensazione di penetrare più profondamente nel
tormento riconoscendone con maggior chiarezza l’essenza.
Se
invece non si pratica il Lo Jong, ma qualche altro tipo di Dharma con
lo scopo di eliminare il dolore e realizzare uno stato di felicità,
il benessere apparentemente ottenuto ha una durata limitata e, nel
momento immediatamente successivo, ci si ritrova immersi negli stessi
problemi, nulla è effettivamente cambiato.
Nel
Lo Jong, al contrario, si manifesta visibilmente di giorno in giorno
l’effetto della mente che muta nella conoscenza e accoglienza di
una sofferenza in grado di divenire cammino verso una stabile pace e
serenità.
Il
Lo Jong può sembrare difficile, incoerente, ma in realtà è
meraviglioso, la sua introduzione in Tibet risale al X° - XI°
secolo, era praticato dai grandi maestri Kadampa, di cui il primo è
stato Atīsa.
Il
Lo Jong, promosso e portato avanti in questo lignaggio, è penetrato
in seguito in tutte le grandi tradizioni delle scuole tibetane e ne
ha costituito di fatto il cuore, la pratica essenziale,
indispensabile, la bodhicitta, la vera intenzione o motivazione che è
alla base del Dharma.
Certamente
non è facile modificare le situazioni problematiche, complicate e
spesso estremamente dolorose, ma se si osserva l’effettiva
potenzialità della mente e si inizia lentamente e sistematicamente
ad addestrarla nell’intenzione altruistica, poco per volta si
scoprirà che si possono affrontare condizioni pesantissime e
trasformarle in via di realizzazione, in altrettante occasioni di
Dharma. Si comincia piano piano, affrontando dapprima semplici
circostanze, sino a giungere a quelle più complesse e difficili.
I risultati della pratica del Lo Jong e applicazione del Tong Len
Iniziamo
la sessione leggendo insieme gli “Otto Versi di Trasformazione
della Mente”. (segue
lettura pag. 3)
Avete
capito bene il significato del Lo Jong?
“Lo”
è riferito alla mente ordinaria, che affronta la vita quotidiana, e
“Jong” è l’addestramento, la trasformazione della mente
ordinaria.
A
questo punto possiamo chiederci: “cos’è la mente ordinaria?”
La
mente ordinaria è totalmente condizionata, resa confusa dagli stessi
problemi dell’esistenza, una mente che non trova pace, serenità,
riposo, essendo costantemente agitata, mossa dalle ansie e dalle
preoccupazioni.
Lo
stato ordinario della vita quotidiana è difficile da contrastare,
siamo nati con questa mente e siamo abituati a pensare secondo canoni
predefiniti, ma ciò che conta è essere consapevoli di questa
condizione e riconoscerla, la situazione caotica in cui siamo immersi
non ci deve disturbare, perchè solo così abbiamo la possibilità di
imparare a confrontarci con una sofferenza che può divenire fonte di
gioia e di pace.
Se
la sofferenza si mantiene statica e inalterata è causa di ulteriore
sofferenza e ciò indica chiaramente che non si è dato inizio al
processo di trasformazione della mente, che invece è ben evidente
nel momento in cui la sofferenza diventa opportunità di gioia, di
pace.
Nel
Lo Jong non si afferma di dover riconoscere un particolare Buddha,
nel suo palazzo divino, con le sue specifiche eccelse qualità, ma si
insegna semplicemente ad entrare in contatto con la situazione
immediata, concreta, della propria vita, con la realtà del
condizionamento e della sofferenza e a scoprirne l’essenza, così
da poter trasformare il negativo in positivo, le circostanze
difficili in favorevoli, il nemico in amico; questa è la pratica del
Lo Jong, della trasformazione della mente.
Si
soffre per gli amici, si è preoccupati, si è attaccati, possessivi,
e l’amicizia è fonte di sofferenza, e poi si soffre per i nemici,
si matura risentimento, offesa, avversione; in entrambi i casi si
soffre.
Si
soffre perchè si cercano facilitazioni nella vita e non si ottiene
nulla o se ne riceve solo una parte, si soffre per la moltitudine di
problemi che la quotidianità ci propone, si è insoddisfatti di ciò
che si possiede e angosciati dai problemi che non si vogliono.
Il
primo passo del Lo Jong consiste proprio nel comprendere che tutti
gli aspetti dualistici sono fonte di sofferenza, e nel voler uscire
dalla costante dicotomia di giudizio: “bianco - nero”, “buono
-cattivo”, “bello brutto”.
Il
Lo Jong insegna a liberarsi dal dualismo che produce ulteriore
sofferenza.
Il
Lo Jong è una pratica importante, e non necessita di nulla, ovunque
voi siate, in qualsiasi circostanza e tempo, potete praticare.
Il
Lo Jong e il Tong Len sono due pratiche interconnesse.
Si
soffre perché si desidera la felicità e il benessere e si soffre
perché non si vuole la sofferenza e si fugge dai problemi.
Nel
Tong Len, la pratica del “dare e ricevere”, si prova l’immensa
gioia di offrire agli altri le proprie virtù, qualità e meriti, e
di prendere i loro problemi e negatività.
Agendo
in questo modo la sofferenza che nasce dalla preoccupazione di
felicità e dalla preoccupazione del dolore svanisce, c’è la
gioia, nel Tong Len, di dare agli altri la felicità e accogliere la
loro sofferenza.
Il
desiderio di felicità e di non sofferenza è sostituito e superato
dalla compassione che non teme il dolore e non desidera una felicità
illusoria.
La
pratica del Tong Len è semplice, consiste nel maturare l’attitudine
a dare le qualità e prendere i problemi, offrire agli altri la
felicità e accogliere la loro infelicità, è come trovarsi in una
condizione in tutti siamo ugualmente affamati, ma noi abbiamo del
pane che, con gioia, diamo agli altri, tutto qui, è semplice.
Riguardo
al Tong Len ci sono interpretazioni estremamente fantasiose, qualcuno
pensa che sia una pratica di guarigione “Prendo
su di me la malattia dell’altro, lui si risana, e io mi posso
ammalare”,
ma questa è follia totale, perché si ridurrebbe la realtà
profonda, universale, incommensurabile, della bodhicitta ad una
piccola attività per curare il mal di testa.
Simili
fraintendimenti sono quasi scontati nelle società sviluppate, è
normale manipolare gli eventi secondo concetti di efficienza
industriale, tanto da inquadrare anche il Tong Len in parametri
pragmatici e utilitaristici, lo si pubblicizza scrivendo libri di
facile lettura e di cui si vendono moltissime copie diventando anche
famosi e ricchi, un ulteriore espressione del condizionamento del
Dharma in un’epoca degenerata.
Per
praticare il Tong Len è necessario prima comprendere il
significato del Lo Jong, la trasformazione della mente, e solo sulla
base di questa consapevole acquisizione è possibile attuare la
pratica del “dare e ricevere”.
Il
Lo Jong insegna ad addestrare la mente che soffre, e il primo
risultato è perlomeno imparare a non soffrire più del necessario.
E’
necessario osservare con chiarezza alcuni interrogativi di base:
“cos’è
questa mente?” “cos’è questa mente sofferente?”, “cos’è
questa sofferenza della mente?”
Si
apprende a penetrare nel significato della sofferenza esaminandone
tutti gli aspetti: è
attaccamento? avversione? confusione?
Senza
questa analisi si rimani bloccati nel desiderio di essere felici,
senza sapere cos’è la felicità, nel desiderio di non soffrire,
senza sapere cos’è la sofferenza.
Riflettere
su questi aspetti induce la cognizione della sofferenza e genera
l’attitudine alla trasformazione della mente: la sofferenza che non
si voleva, diventa l’oggetto da ricevere, e la felicità che si è
sempre cercata, diventa l’oggetto da dare. In questo modo si esce
dal dualismo che impediva la corretta visione della realtà, si è
liberi da ogni giudizio e pregiudizio su felicità e sofferenza.
Questa
è la via di uscita e, anche se non esiste nessuna coercizione, né
obbligo, né punizione in caso non la si applichi, non c’è
comunque nulla da perdere, dunque perché non provarci?
Lo
Jong e Tong Len sono solo quattro parole, ma talmente affascinanti e
misteriose per cui potremmo essere indotti a pensare che forse solo
Buddha ne possedesse la piena comprensione, trasmessa direttamente ai
suoi discepoli, di generazione in generazione che, di conseguenza, ne
sarebbero gli unici depositari.
Ma
non è così, Lo Jong e Tong Len sono una realtà che ciascun essere
ha dentro di sé. I discepoli del Buddha attraverso il dono della
spiegazione ci facilitano la comprensione, il riconoscimento del suo
immenso valore. E’ come trovarsi di fronte ad una grande torta,
tutti se ne possono servire, ma chi non ne vuole lascia liberamente
la sua fetta nel piatto, ne godrà qualcun altro, non c’è
coercizione, né obbligo.
Io
viaggio spesso e alla stazione Termini incontro tanti barboni, ieri,
alla partenza per Torino, ho visto due signore che dormivano su una
panchina, probabilmente due sorelle, una accanto all’altra, con
tanti sacchi di plastica intorno, la loro intera ricchezza. Anche
alla stazione di Zurigo è praticamente stanziale un’anziana
signora su una sedia a rotelle, e allora ho pensato che forse queste
persone sono grandi praticanti, non posseggono nulla, proprio come
gli yogi del passato che donavano tutto, e non ho potuto non
paragonarli ai Lama di oggi, così imponenti in palazzi riccamente
decorati, serviti in ogni necessità e per i loro spostamenti
dispongono di automobili con tanto di seguito. Questo non è Lo Jong,
non è Tong Len, anzi è esattamente l’opposto.
La
pratica del Lo Jong e del Tong Len è caratterizzata dal dare e non
dal preoccuparsi di ricevere, è una qualità intrinseca all’essere
umano, è un Dharma naturale, è parte della natura dell’essere e
nessuno può rivendicare di esserne depositario esclusivo.
L’attuale
società è sopraffatta dalla confusione e proprio per questo è
necessario praticare il Lo Jong, la trasformazione della mente, in
modo da contrapporre al caos una poderosa accumulazione collettiva di
meriti.
Riguardo
all’acquisizione di meriti nel sentiero spirituale ci sono tanti
modi differenti di concepirla, ordinariamente si offrono ad esempio
centomila candele, centomila incensi, centomila prosternazioni, ma
nel Lo Jong si esprime in modo profondamente diverso, e la stessa
confusione stessa diventa fonte di merito.
Quanti
più problemi, difficoltà, caos la persona abbia, attraverso la loro
trasformazione, tanti più meriti realizza. Quindi la propria
modalità di acquisizione di meriti esiste già di fatto, è
sufficiente prendere atto dell’enorme ricchezza disponibile,
costituita da disordine, problemi, difficoltà; non c’è null’altro
da fare.
Probabilmente
conoscete la storia di Bodhidharma, un prezioso yogi indiano che
portò il buddhismo in Cina. Egli rimase per nove anni in meditazione
silenziosa rivolto verso un muro.
L’imperatore
cinese dell’epoca, fervente seguace del buddhismo, edificava
monasteri e sosteneva numerosi monasteri con generose elargizioni; un
giorno invitò Bodhidharma nel suo palazzo affinché insegnasse il
Dharma e gli confidò di essere un devoto scrupoloso e generoso e di
aver operato in modo da acquisire tanti meriti e, a questo punto,
desiderava conoscere dal maestro quanti ne avesse accumulati grazie a
tutte queste attività.
Bodhidharma
lo guardò e gli rispose: “In
questo modo tu hai distrutto tutta l’accumulazione di meriti che
avevi, ora hai finito i tuoi meriti, io non verrò nel tuo palazzo”.
Bodhidharma
era un praticante solidissimo, come Milarepa, e molta gente gli
chiedeva insegnamenti, che però non era in grado di capire, per
questa ragione egli smise di insegnare e si rivolse verso il muro in
meditazione silenziosa, aveva constatato che nessuno recepiva
quell’insegnamento, ad eccezione di una persona che fu in grado di
comprenderlo pienamente nel silenzio, senza che fosse pronunciata una
sola sillaba. Il Dharma va oltre le parole.
Nel
mondo moderno invece tutto deve essere catalogato, quantificato: due
ore di lezione corrispondono a venti euro, tre ore trenta euro,
quattro ore quaranta euro e così via; il prezzo dipende da quanto si
chiacchiera, così è nella visione materialista
dell’industrializzazione e commercializzazione che ha inquinato
anche il Dharma e, se lo si pesa in base alla lunghezza del discorso,
significa che non lo si è capito per nulla e non se ne conoscono le
incommensurabili qualità.
Nel
Lo Jong l’accumulazione di meriti non dipende da quante attività
meritorie si sono compiute, come costruire templi, sostenere
monasteri o altro, ma esclusivamente dall’effettiva trasformazione
della mente.
Il
sovrano cinese che si affannava a compiere tante azioni per
accumulare meriti non avrebbe potuto nemmeno confrontarli con quelli
ottenuti dalle anziane signore che, nella loro vita da barbone,
praticano probabilmente il Tong Len in assoluto rilassamento e
serenità.
Quando
ieri sera arrivando in stazione ho visto queste due anziane donne
serenamente addormentate una accanto all’altra, completamente
serene, rilassate, mi sono fermato a contemplarle e ho paragonato la
loro pace con la frenesia del mondo moderno così teso, insicuro,
aggressivo, in cui ben pochi possono dormire con tanta serenità.
Questa
è l’attitudine degli yogi, dei meditatori del Tong Len,
pacificati, già oltre, non più soggetti ad ansie, né paure;
eppure, nell’ignoranza ordinaria, la gente si allontana infastidita
dai barboni, con paura, pensando a quanto sono sporchi, senza scarpe,
a cosa mangiano, a come vivono, a chissà quali batteri e virus
possano trasmettere…..
La
società industrializzata è schiava di una mentalità ristretta, e
lo yogi del Tong Len non vi corrisponde affatto, ne è l’esatto
contrario, in qualsiasi circostanza è a proprio agio, ha
un’accettazione serena e totale di ogni difficoltà e accumula
infiniti meriti.
Il
vero yogi meditatore del Tong Len non è riconosciuto come Lama,
perché non si veste come un Lama, non abita in palazzi adeguati al
suo rango, non esibisce le certificazioni di Lama, non sta seduto in
una certa posizione davanti a testi rari, non possiede nessun oggetto
prezioso che attesti la sua diretta discendenza dal Buddha nel
lignaggio del Tong Len.
Ma
così non è scritto da nessuna parte che così dovrebbe essere, è
pura e folle fantasia, strutturata solamente a nostra gratificazione,
il Buddha non ha mai sostenuto la necessità di tali credenziali.
Il
praticante del Tong Len è un perfetto, inosservato, sconosciuto,
come ce ne sono tanti e ovunque, camminano per le strade senza
esibire segni particolari, né distintivi, né diplomi o
autorizzazioni.
Ripeto,
in occidente si pensa assurdamente che il Tong Len sia una pratica
taumaturgica e molti fantasticano di poter diventare guaritori e di
avere il potere di curare il mal di testa di qualcuno, anche se
immediatamente dopo si preoccupano di doverne sperimentare
personalmente il dolore. Pura follia!
Poiché
questa pratica deve essere mantenuta nel segreto, le fantasie si
moltiplicano illimitatamente, si vuole scoprirne il potere nascosto,
e tutto questo è veramente assurdo e sciocco.
In
questo modo si snatura e riduce il Tong Len ad una mera arida tecnica
per togliere il mal di testa e si potenzia il proprio ego perché si
pensa di avere il potere magico di guarire il prossimo.
Ma
il Tong Len è ben più radicale e profondo, è una pratica
meditativa semplicissima e potentissima in grado di liberare gli
esseri dalla sofferenza, possiede l’attitudine di donare tutte le
qualità e di sciogliere completamente dalla sofferenza universale
con grande equanimità.
Il
Tong Len cambia la persona ordinaria in straordinaria, non è
limitato all’eliminazione dei malanni altrui, non muta le
condizioni dell’altro perché ognuno ha il proprio karma e risponde
personalmente di se stesso.
Il
Tong Len trasforma la persona che lo pratica, mostra al meditante la
via per uscire dalla sofferenza.
Se
è presente qui un guaritore per favore, con tanta compassione,
prenda il mio raffreddore così fastidioso!.... No, questo non è
proprio possibile, quello che invece è realizzabile è la
trasformazione della sofferenza in fonte di gioia, di accumulazione
di infiniti meriti. Per questo bisogna essere forti come Milarepa,
Bodhidharma e San Francesco.
Domanda:
Il karma che accumuliamo si manifesta già in questa vita, o al
massimo nella successiva?
Lama: Non
sappiamo niente; il karma, sia negativo che positivo, può
manifestarsi ora, dopo un minuto, tra molte vite, o anche mai, tutto
dipende dall’evoluzione individuale.
Domanda:
Noi abbiamo molte paure, come il timore di ritrovarci in ristrettezze
se doniamo i nostri beni agli altri, è una preoccupazione normale
per tutelare la propria sicurezza o è attaccamento?
Lama: Ognuno
è un caso a sé stante e deve valutare personalmente la propria
situazione, non c’è una regola generale. Un buon praticante del
Tong Len potrebbe apparire agli altri strano, come i barboni della
stazione, ma non è necessariamente così, potrebbe condurre una vita
normale e, nello stesso tempo, realizzare il Tong Len. Chissà, forse
i barboni potrebbero rappresentarne gli yogi più elevati.
Domanda:
Ma i barboni hanno consapevolezza di essere yogi del Tong Len? Come
si può desiderare di vivere in una condizione così dura?
Lama: La
loro è una vita straordinaria, perché non siamo in Asia dove le
condizioni sociali sono diverse. Qui il loro coraggio è davvero
eccezionale, non si preoccupano di essere famosi, né accettati, né
del loro aspetto. Noi forse li consideriamo pazzi e questo è uno
degli aspetti della degenerazione dei nostri tempi in cui i peggiori
mafiosi sono riveriti, considerati persino onesti e tenuti in grande
considerazione perché in grado di ostentare ricchezze e potere.
Domanda:
Però in genere il fatto di essere barboni non è una scelta di vita,
è piuttosto il risultato di più circostanze sfortunate….
Lama: Non
lo sappiamo, non possiamo giudicare nessuna situazione.
Intervento:
In ogni caso anche se non ha scelto quella specifica condizione,
comunque la vive, e quindi ha coraggio.
La
struttura esterna c’entra poco nel Lo Jong , perché magari è
molto più difficile fare il direttore di banca e praticare il Tong
Len che non essere un barbone.
Io
ho chiesto a un barbone se era felice e lui mi ha risposto: “si,
molto più di quando ero normale, perché allora non mi bastava mai
niente, mentre ora so che al massimo racimolo dieci euro e con quelli
campo”.
Domanda:
Se voglio praticare il Tong Len a chi lo rivolgo?
Lama: Ai
più deboli, ai bisognosi, all’inizio non si comincia con una
pratica completa del Tong Len, si parte dalle situazioni più
semplici, più facili, poi la si estende progressivamente sino a
farla diventare completa, universale.
Domanda:
Quindi la meditazione quotidiana sull’impermanenza e sulla vacuità
ci aiuta profondamente.
Lama: Sicuro.
Nel poco tempo a disposizione è stato possibile spiegare una minima
parte del Lo Jong, perché questo insegnamento richiede di essere
trattato diffusamente. Cerco solo di trasmettervi almeno i punti
essenziali, più concreti e facilmente praticabili.
Traduttore:
Scusate vorrei esprimere un’impressione personale, quello di cui mi
sono reso conto dopo molti anni è che la chiave di volta è capire
che tutto sta nel cambiare l’attitudine mentale, nel riconoscere
che solitamente si fanno le cose senza conoscerne la motivazione.
A
un certo punto ci si accorge che si agisce con automatismo, perché
si è ricevuta una determinata educazione, perché è consuetudine e
si intravede la possibilità di avere un’attitudine e un approccio
diversi.
Questa
consapevolezza è l’interruttore che accende la luce su un mondo
diverso, possibile, e credo di concordare perfettamente con la
raccomandazione di Geshe-la in cui diceva che non importa quanto si
legga o si studi il Dharma per ottenere rilevanti cambiamenti, mentre
è essenziale sperimentare la comprensione di quanto è scritto.
Io
credo di non averlo realmente compreso fino a quando non è stato
evidente nella mia mente che non c’è proprio nulla da cambiare se
non la mia attitudine interiore, contrariamente alle sollecitazioni
della società che imputa ogni risultanza a fattori esterni, la colpa
di tutto è sempre di qualcosa o qualcun altro e dunque questi sono i
soggetti e gli oggetti che devono essere cambiati.
Così
il barbone è anomalo, lo si emargina, perché la corretta condizione
stabilita socialmente è provvedere al proprio agio, accumulare
ricchezze, abitare una casa confortevole e ben riscaldata,
presentarsi vestirsi alla moda e così via.
Alcuni
aspetti sono legittimi, ma la necessità di trasformazione è più
che mai reale, pressante, e l’unica cosa che può essere cambiata è
la propria attitudine interiore, non certamente la casa o
nessun’altra condizione esterna.
Domanda:Vorrei
un chiarimento circa i sei reami del samsāra, noi vediamo, oltre al
nostro quello degli animali, ma gli altri che sono invisibili
interagiscono ugualmente con noi, o no?
Lama: Ci
sono due modi di classificare gli esseri dei sei reami, uno secondo i
gradi di sofferenza e l’altro secondo una collocazione geografica,
ma il livello definitivo appartiene alla sofferenza e non alla
territorialità.
Intervento:
La compassione è la chiave di tutto perché anch’io mi rendo conto
che noi siamo abituati a discriminare ogni situazione, ad esempio
studiamo il buddhismo qui o sui libri, ma poi dimentichiamo di
trasferirlo nel cuore, di attuarlo, e penso che la pratica del Lo
Jong consista nell’essere meno intellettuali e aprire il cuore alla
sofferenza di tutti e, anche senza dover necessariamente essere
barboni, viverlo nella quotidianità, nel lavoro, nelle relazioni.
Lama: Dobbiamo
concentrarci sulla qualità, non sulla quantità. Tutto può essere
pratica. Il mio ruolo è quello di insegnare, ma soprattutto ho molto
da insegnare a me stesso, non c’è maestro che comanda, siamo
amici, tutti condividiamo, sofferenza, dolore, vita.
Concludiamo
con la preghiera di dedica.
Pratica di Avalokitésvara. La Grande Compassione
Prima
di riprendere l’insegnamento meditiamo la pratica di
Avalokitésvara, o Chenresig, in tibetano.
(Segue pratica)
Questa
è la meravigliosa pratica del Buddha della compassione,
Avalokitésvara, riscalda il cuore e ci rende aperti e disponibili, è
la forma della divinità della “Grande Compassione” o “Grande
Gentilezza Amorevole”.
Avalokitésvara
non è un individuo, ma una emanazione che si manifesta in moltissimi
modi, più semplicemente si può dire che è l’espressione della
Grande Compassione di tutti gli esseri illuminati, buddhisti e non,
non esiste limite ideologico o religioso.
Siamo
in Italia, le vostre radici sono cristiane, quindi la domenica
mattina è bene partecipare alla Messa e al pomeriggio venire qui e
praticare la meditazione di Chenresig, non c’è alcuna
contraddizione.
Buddha
non è prerogativa buddhista né orientale, è l’emanazione degli
esseri illuminati che sono al di là di ogni tentativo di
classificazione strumentale.
Questo
concetto è fondamentale, Avalokitésvara non è una persona con
caratteristiche esterne predefinite, in luoghi diversi si elaborano
visualizzazioni differenti, ad esempio in Cina si manifesta nella
figura femminile di Guanyin.
La
grande compassione appartiene al cuore umano, dunque Avalokitésvara
è parte del proprio cuore, non è qualcosa di esterno, di separato.
Non è nemmeno prerogativa di una fede o di un’altra, non è
esclusiva proprietà del buddhismo, né del cristianesimo, né di
nessun’altra religione, né dei credenti, come dei non credenti, è
parte del cuore di ogni persona, singolarmente.
Praticare
il Lo Jong, in cui “Lo” si riferisce al cuore umano, è praticare
Avalokitésvara nella Grande Compassione.
Quando
meditiamo e dedichiamo la preghiera ad Avalokitésvara visualizziamo
la divinità fisicamente, con quattro braccia, un viso e così via,
ma l’analisi della forma è concentrazione sulle caratteristiche
della compassione che risiede nel cuore. Osserviamo il nostro cuore
nella visualizzazione dell’immagine così da confrontare e
verificare la reale presenza della compassione in noi e le sue
caratteristiche.
La
pratica della sādhana di Avalokitésvara è importante da questo
punto di vista, è confrontare l’immagine della Grande Compassione
con la compassione nel nostro cuore, trasformandola così nella
Grande Compassione di Avalokitésvara.
Non
è dunque un confronto con un’entità esterna, ma una verifica
della compassione del proprio cuore con la qualità universale della
Grande Compassione rappresentata da Avalokitésvara.
La
sādhana è volta a trasformare il cuore nella forma di
Avalokitésvara e trasformare il corpo e la parola nel corpo e nella
parola di Avalokitésvara, cioè non in qualcosa di esterno, ma
piuttosto cambiando noi stessi nel corpo puro e nella parola pura di
Avalokitésvara, dunque, nel proprio corpo puro e nella propria
parola pura.
Questa
è la sādhana rivolta all’yidam, la divinità di meditazione
personale, individuale e, nella sua meditazione, ci si trasforma
nella propria purezza che è rappresentata dall’yidam, non esterno
a sé, ma forma stessa della propria illuminazione.
Ciascuno
medita la forma dell’illuminazione nella quale apparirà come
illuminato, e la scelta è individuale.
Le
forme possibili sono innumerevoli e ciascuno può optare per quella
che gli è più congeniale, e meditare così sul proprio aspetto
illuminato fino al suo compimento.
Non
si tratta di meditare una figura esterna, separata da sé, bensì
focalizzare l’attenzione sulla forma che meglio riflette le qualità
interiori della propria illuminazione, per questo motivo la scelta è
vasta. C’è chi focalizza la propria illuminazione nella forma di
un Buddha, altri trovano maggiori affinità con Milarepa, Gesù
Cristo, San Francesco d’Assisi, Madre Teresa…
Qualsiasi
forma scelta rappresenta la propria illuminazione, quella in cui
trasformare la propria mente. Ciò non significa diventare qualcosa
di estraneo al di fuori di sé, ad esempio io posso meditare la forma
della mia illuminazione come Michele, ma non significa che io diventi
Michele, bensì che Michele è la forma illuminata su cui medito in
quanto riflette la qualità della mia illuminazione, quindi me
stesso.
L’yidam
è una scelta personale, io ad esempio trovo una connessione
particolare con il mahatma Gandhi.
Meditare
sull’yidam Gandhi è facile perché è una figura umana, normale,
con un viso, due braccia, due gambe, un solo bastone, un paio di
occhiali e un abito semplicissimo, mentre un yidam tibetano è assai
più complesso da visualizzare, prima di tutto bisogna ricordare il
numero di teste, braccia e gambe, possiede diversi oggetti nelle mani
ed è abbigliato in modo intricatissimo e ricco di particolari, così
la faccenda si fa ardua.
Se
non vogliamo complicarci troppo la vita nel buddhismo tibetano la
figura più semplice è Buddha Sākyamuni che in mano ha una sola
ciotola.
La
semplicità è particolarmente importante, mentre creare
sovrastrutture può essere faticosamente pericoloso, come notò il
grande maestro Atīsa non appena giunto in Tibet: “Voi
tibetani praticate centinaia di divinità, ma non ne realizzate
nemmeno una, in India noi ne pratichiamo una soltanto e le
realizziamo tutte”,
perché praticando in modo completo una sola divinità, che le
rappresenta tutte, è evidente che si realizzino tutte. In Tibet
invece, volendo praticare innumerevoli divinità, si disperdeva ogni
possibilità di realizzazione.
Se
leggiamo le storie dei grandi traduttori del passato, come Marpa
Lotsāva, Ra Lotsāva, gNy Lotsāva e tanti altri che hanno
introdotto il tesoro del Dharma dall’India, e in particolare di
questi tre che hanno portato in Tibet le scritture dello yoga tantra,
vediamo che nella loro vita sono avvenuti fatti miracolosi,
eccezionali, non spiegabili secondo la concezione ordinaria, ciò
dimostra che erano persone veramente straordinarie, al di là di ogni
consuetudine.
Ma
se in Tibet vivevano queste persone assolutamente eccezionali, ve ne
erano molte altre che barattavano il Dharma come merce da esporre
sulle bancarelle. I tibetani affermavano di avere un lignaggio
particolarissimo che dava loro il diritto di possedere la verità e,
in concorrenza, gli indiani rivendicavano di essere gli unici
detentori di grandi iniziazioni e lignaggi risalenti alle origini.
Ognuno
camuffava la propria mercanzia con i colori più accattivanti,
spacciandola per unica autentica, senza rendersi conto che le
variopinte bancarelle di Dharma non facevano altro che alimentare il
mostro di un’immensa confusione e che tutte le sbandierate presunte
verità, vendute per ottenere denaro, si rivelavano assolutamente
fallaci.
Atīsa,
preso atto della drammatica situazione, espresse le sue amare
considerazioni sullo stato caotico del Dharma in Tibet, mettendo in
guardia la gente che, volendo praticare le centinaia di false
divinità acquistate sulle bancarelle del mercato, non avrebbero mai
potuto realizzarle, mentre se avessero praticata una sola, ma
autentica, le avrebbe realizzate tutte.
Questi
sono tempi decadenti, il Dharma peggiora, i maestri di Dharma
peggiorano, gli studenti peggiorano, la pratica peggiora, i Centri di
Dharma peggiorano, tutto degenera.
In
quest’epoca difficile la pratica necessaria è proprio il Lo Jong,
apprezzare in Avalokitésvara la qualità della mente della Grande
Compassione.
Apprezzare
Avalokitésvara non significa diventarne fanatici. Allo stesso modo
si apprezza il Dalai Lama, questa grande figura di uomo, perché lo
si ritiene l’incarnazione di Avalokitésvara, quindi la
manifestazione della Grande Compassione, e se ne ammira la qualità
che, com’è in Avalokitésvara, è nella propria mente.
Se
però questo concetto non è ben chiaro nella mente si finisce per
diventare esaltati seguaci del Dalai Lama come persona, sviluppando
un malsano atteggiamento che non esprime ammirazione, ma solo
idolatria.
Proprio
a causa di questo tipo di fanatismo succede spesso che anche in
Europa, come in America, si scontrino fazioni diverse, una a favore e
l’altra contraria al Dalai Lama, in un conflitto che si estende
alle diverse scuole e maestri. Non si tratta dunque di autentica
devozione, ma di una presunta fede bugiarda e sbagliata che è
l’esatto contrario del Lo Jong.
La
preghiera in sette rami che abbiamo recitato nella sādhana iniziale
è una indispensabile preparazione al Lo Jong, che non può essere
realizzato mediante l’accensione di un interruttore affinché
immediatamente appaia la luce. Occorrono fasi e tempi di necessaria
preparazione, come ha richiesto l’ottimo pranzo di oggi che Michele
ha cucinato con tanta attenzione, tempo e cura.
La
pratica in sette rami inizia con:
- l’omaggio, l’onore, l’offerta alla Grande Compassione di ogni cosa di cui si goda, si offre cibo, ricchezze naturali, preziosità universali; qualunque bene si possegga, o azione si compia, non appartiene a sé, per questo deve essere con devozione offerta alla Grande Compassione.
- Segue la confessione delle colpe, che è necessaria purificazione, consiste nel ricordare i propri atti nocivi e riconoscerli come tali. Tutto ciò che si oppone alla Grande Compassione è disdicevole, sbagliato.
L’azione
negativa non è quella che contraddice una regola, una legge, un
ordine, ma è tutto ciò che contrasta il principio della Grande
Compassione.
- Si procede poi con l’elogio, decantando i frutti e le azioni ammirevoli compiute nella Grande Compassione.
- Il ramo seguente è la richiesta dell’insegnamento sulla Grande Compassione.
- Ci si rivolge dunque ai maestri, esempio della Grande Compassione, con la supplica di restare, di essere presenti, fino a quando il principio della Grande Compassione si realizzi.
- Infine vi è l’offerta del Mandala, di tutto ciò che si possiede, delle virtù dei tre tempi, delle qualità di corpo parola e mente, delle qualità dei virtuosi, dei maestri, dei Buddha, tutto è offerto alla Grande Compassione.
- L’ultimo dei sette rami è la dedica delle virtù dei tre tempi per la causa dell’illuminazione a beneficio degli esseri senzienti.
Il significato del Rifugio e della Terra Pura.
Leggiamo
un’altra preghiera a Chenresig:
“Prego
te, Lama Chenresig,
Prego
te, Yidam Chenresig,
Prego
te, Sublime Nobile Chenresig,
Prego
te, Signore Protettore Chenresig,
Prego
te, Protettore Amorevole Chenresig,
Buddha
Amorevole, tienici sotto la tua compassione!
Per
gli esseri che vagano innumerevoli volte nel samsāra senza fine,
provando sofferenze insopportabili, Signore, non esiste nessun altro
rifugio al di fuori di Te!”
Tutte
le religioni hanno la preghiera del rifugio, nel cristianesimo la
salvezza è in Gesù Cristo, in questo contesto è Avalokitésvara,
l’importante è comprenderne, in qualsiasi ambito, il significato
profondo.
Ad
esempio “non
esiste nessun altro rifugio al di fuori di Te”
non significa affatto che non si possa prendere rifugio in
nessun’altra divinità, sarebbe un’interpretazione ristretta,
errata, che porterebbe soltanto a divisioni faziose e ingiustificate
fra le diverse religioni.
Il
rifugio è pura compassione e dunque non può essere discriminante.
Avalokitésvara cos’è? Compassione! Buddha cos’è? Compassione!
Gesù Cristo cos’è? Compassione! Il Dalai Lama cos’è?
Compassione! Tutto qui, null’altro che questo.
“Dacci
la tua benedizione affinché possiamo realizzare lo stato del Buddha
Onnisciente.”
La
preghiera a Chenresig come yidam, protettore, maestro, non è rivolta
a un soggetto, ad una persona, ma alla qualità della compassione
della mente che è illimitata e non può essere circoscritta entro i
confini di un individuo, di religioni, di culture, è assolutamente
universale.
Dunque
la frase “non
esiste nessun altro rifugio al di fuori di Te” non
è discriminante, ha una valenza inclusiva e non esclusiva, significa
affidarsi completamente, prendere rifugio nella pura Grande
Compassione, qualità che comprende in sé ogni essere, che è
universale, illimitata, perfettamente manifesta nei Buddha e
Bodhisattva.
Esprime
esattamente lo stesso significato del primo comandamento “Non
avrai altro Dio all’infuori di me”,
perchè Dio tutto include, Dio è il rifugio.
Ma
nella nostra società caotica e offuscata ci si affida
all’interpretazione più gretta e restrittiva e questa frase
diventa ingiustamente causa di divisioni e di presunte supremazie
religiose, di clamorosi fraintendimenti per cui si pensa che
prendendo rifugio in Buddha si sia automaticamente esclusi dalla
protezione di Gesù Cristo, o viceversa, quasi vi fosse competizione,
si crea così una situazione paradossale e profondamente stupida che
alimenta unicamente la sofferenza.
Nei
documenti ecclesiastici si afferma che la chiesa è l’unica
possibile salvezza e, altrettanto, nei testi tibetani si legge che i
tre gioielli, gli insegnamenti del Buddha, sono l’unico mezzo per
salvarsi, ma queste affermazioni non devono essere prese alla
lettera, bensì interpretate nella loro realtà inclusiva che tutto
accoglie, rappresentano la Compassione Universale che mai potrebbe
appartenere a qualche esclusiva e insensata supremazia.
L’insegnamento
del Buddha non esclude l’insegnamento del Cristo, né
l’insegnamento del Cristo esclude quello del Buddha, e tutti i
possibili fraintendimenti in proposito sono originati soltanto dalla
loro cattiva interpretazione, dalla non conoscenza della Grande
Compassione.
Ogni
interpretazione ristretta nell’ignoranza è simile all’acquisizione
di un dogma che necessita di un timbro del potere costituito, ma
qualsiasi certificazione di potere non è mai veritiera, e pertanto è
sbagliato che esistano dogmi, sia nel buddhismo che nel
cristianesimo, perchè sono in netto contrasto con il messaggio
spirituale.
Il
dogma è contrario alla libertà dell’uomo, e questo vale sia per
le religioni che per la politica.
La
sādhana continua parlando degli inferi, conseguenti alle proprie
azioni negative:
“Per
la forza degli atti negativi accumulati da tempo senza inizio, sotto
il potere della collera si rinasce nell’inferno; possano tutti gli
esseri che provano il tormento del caldo e del freddo, Sublime
Divinità, rinascere di fronte a Te
OM
MANI PADME HUM”
Lo
stato infernale non indica un luogo geografico, ma è riferito alla
condizione mentale determinata da rabbia e odio. Ipoteticamente, una
persona che abiti in un palazzo bellissimo, disponga di cibi
prelibati, gioielli preziosi, abiti raffinati, ma sia dominata dalla
rabbia e dall’odio, non è in grado di goderne perché sta vivendo
in uno stato infernale.
Questo
è il significato dell’inferno, anche se esistono infinite altre
interpretazioni leggendarie che collocano ad esempio l’inferno
nelle viscere della terra sotto Bodgaya, ma questa è fantasia, lo
stato infernale vero invece lo si sperimenta subito, lo si vive
concretamente nelle azioni negative, non è necessario aspettare le
prossime rinascite, è presente qui e ora.
Nella
grande compassione tutti i tormenti infernali sono naturalmente
superati, questo è il potere del Lo Jong, il significato di:
“rinascere
vicino a Te”.
Non è necessario morire sperando di avere l’opportunità di
realizzazione in una prossima rinascita, già ora siamo di fronte ad
Avalokitésvara nella Grande Compassione.
I
maggiori yogi, meditatori del passato, sia indiani che tibetani,
Nāgārjuna, Chandrakīrti, Atīsa, Lama Tsong-Kha-Pa, ad un certo
punto della loro esistenza ebbero la visione di Avalokitésvara, di
Tārā, di Mañjusrī, perché avevano realizzato la Grande
Compassione, questo è il potere della pratica del Lo Jong.
La
ripetizione del mantra di Avalokitésvara “Om
Mani Padme Hum”
richiama l’essenza del proprio cuore al fine di sviluppare la
Grande Compassione, per questo è il mantra del Lo Jong, non occorre
altro.
La
gente cade ripetutamente negli stessi errori e riduce il Lo Jong -
Tong Len ad una possibile pratica di guarigione e, ritenendo di
essere in grado di curare il mal di testa a qualcuno, si illude di
avere poteri taumaturgici, anche se in fondo resta sempre il timore
che, se funziona, ci si possa davvero ammalare al posto degli
altri!….
Il
mantra del Lo Jong è “Om Mani Padme Hum”; la divinità del Lo
Jong è Avalokitésvara; l’essenza del Lo Jong è la Grande
Compassione.
I
versi continuano:
“Per
la forza degli atti negativi accumulati da tempo senza inizio, sotto
il potere dell’avarizia, si rinasce nella forma di spirito
affamato; possano gli esseri che provano il tormento della sete e
della fame, rinascere nel sublime reame del Potala.
OM
MANI PADME HUM
Per
la forza degli atti negativi accumulati da tempo senza inizio, sotto
il potere dell’ignoranza, si rinasce nello stato animale; possano
tutti gli esseri che provano il tormento della stupidità, nascere di
fronte a Te, o Signore
OM
MANI PADME HUM
Per
la forza degli atti negativi accumulati da tempo senza inizio, sotto
il potere del desiderio, dell’attaccamento, si rinasce nel mondo
degli uomini; possano gli esseri che provano le sofferenze di
eccessive attività e frustrazioni, rinascere nella terra pura di
Dewa Chen
OM
MANI PADME HUM
Per
la forza degli atti negativi accumulati da tempo senza inizio, sotto
il potere della gelosia, si rinasce nel mondo dei semidei gelosi;
possano gli esseri che provano la sofferenza di continue liti e
discussioni, rinascere nel dominio del Potala.
OM
MANI PADME HUM
Per
la forza degli atti negativi accumulati da tempo senza inizio, sotto
il potere dell’orgoglio, si rinasce nello stato degli dei; possano
gli esseri che provano la sofferenza della trasmigrazione e della
decadenza, rinascere nel regno del Potala.
OM
MANI PADME HUM”
In
queste righe sono descritti gli esseri appartenenti ai sei reami del
samsāra:
- Abbiamo già visto che rabbia e odio corrispondono a stati infernali;
- gli esseri tormentati dall’avarizia sono insaziabili, avidi e non possono che appartenere al regno degli spiriti affamati;
- la causa principale della nascita nel regno animale è l’ignoranza, la stupidità;
- per gli esseri umani invece la causa della loro condizione è l’attaccamento e il desiderio;
- la rinascita nel regno dei semidei è principalmente provocata dalla gelosia, dall’invidia;
- mentre quella nel mondo degli dei è prodotta dall’orgoglio.
Non
è necessario morire per sperimentare queste condizioni in una
prossima esistenza, tutto è già presente in ogni istante di questa
vita: nella collera siamo realmente esseri infernali; nell’avarizia
inesorabilmente avidi, insaziabili e affamati; nell’ignoranza in
uno stato animale; nell’attaccamento e desiderio la sofferenza è
costantemente presente; nella gelosia e nell’invidia siamo semidei
competitivi e arroganti che lottano incessantemente per affermare un
ipotetico potere; nell’orgoglio di aver fatto imprese importanti,
ad esempio aver scalato l’Everest, essere al comando di qualcosa,
far parte di un’élite, ci fa sentire degli dei, felici, ma è una
felicità fittizia che dura per un tempo limitato e il ritorno alla
condizione inferiore è causa di grande sofferenza. Non si possono
scalare tutti i giorni gli ottomila, si invecchia e il corpo si
deteriora inesorabilmente.
Questi
sono i sei reami del samsāra e, anche il cristianesimo che fonda
tutto su un’unica vita, richiama con uguale insistenza alla
necessità di realizzare la propria condizione in questa esistenza
perchè il regno dei cieli è già qui e ora.
Non
è necessario rinascere per vivere diverse esperienze, tutto si
sperimenta in questa vita e, sia nel cristianesimo che nel sentiero
meditativo del vajrayāna, è possibile decidere del proprio destino
in una sola esistenza.
Le
religioni serbano un patrimonio di valori e di segreti non
chiaramente e istantaneamente accessibili alla mente ordinaria. La
stessa resurrezione del Cristo non è così facile a capirsi, è
un’esperienza misteriosa, difficile da assimilare.
Altrettanto,
nel buddhismo tibetano l’insegnamento del bardo è complesso,
eppure non è necessario morire per fare esperienza del periodo
intermedio prima della prossima rinascita, lo si può sperimentare
durante lo stato meditativo. I grandi maestri del passato, nel corso
della loro esistenza, hanno provato questa condizione.
La
lettura delle vite degli ottanta mahāsiddha è veramente
interessante, erano personaggi incredibili, umili pescatori, pastori,
probabilmente barboni, in netto contrasto con la moderna
rappresentazione dello yogi.
Secondo
la nostra visione consumistica i grandi maestri devono avere una
bella casa, abiti appropriati, un ufficio completamente attrezzato,
un sito web, tre o quattro cellulari, gli assistenti che li servano,
abbondanza di risorse che consentano ogni comodità e opulenza.
Questa
è la nostra fantasia sui mahāsiddha moderni, in assoluto contrasto
alla loro vera essenza.
Per
questi motivi sono rimasto colpito dalle due barbone della stazione
di Roma, dormivano serenamente, pacifiche, e traspariva dal loro viso
la completa assenza di emozioni conflittive, causa dell’esistenza
nei sei reami, ciò significa che sono libere, già al di là del
samsāra.
Cosi
è essere mahāsiddha, yogi, se invece noi pratichiamo il Dharma per
appagare il nostro ego e soddisfare ogni desiderio diventiamo esseri
umani peggiori, alimentiamo l’attaccamento attraverso la pratica
del Dharma, ed è spaventoso! Ci ritroviamo in un circolo vizioso,
irrisolvibile, perché l’unica soluzione possibile, il Dharma che
elimina l’attaccamento, è strumentalizzato al fine di appagare i
desideri e, di conseguenza, aumentare i problemi.
Se
abbiamo bisogno di esemplificazioni guardiamo la storia dell’umanità,
costellata da eventi tragici, come il nazismo e tanti altri, si sono
manifestati proprio a causa di quest’attitudine devastante.
Ciò
dimostra quanto siano pericolose le bancarelle del Dharma
sponsorizzate da tanti Lama.
Gli
occidentali non conoscono il Dharma e sono attratti dalle belle
bancarelle variopinte per acquistare facili soluzioni ai loro
problemi. Un esempio è stata la grande diffusione dei primi libri
sul Tibet e sulla sua religione, molto commerciali come “Il Terzo
Occhio”.
Questa
non vuole essere un’accusa, ma è un richiamo alla necessità di
saper riconoscere limiti intrinseci in ogni situazione, avere la
consapevolezza di essere un’epoca degenerata, pregna di confusione
e di problemi. Questo stesso riconoscimento è parte della pratica
del Lo Jong che indica la necessità inderogabile di sviluppare la
compassione.
Nel
Lo Jong si afferma che il tempo delle cinque degenerazioni può
essere trasformato nella via per l’illuminazione.
Viviamo
tempi difficili e particolarmente critici in cui la potente pratica
del Dharma è limitatissima, sta scomparendo definitivamente e più
che mai vi è una assoluta necessità di compassione.
Questa
preghiera è dunque fondamentale ed è parte della pratica del Lo
Jong, prosegue:
“Avendo
così pregato con concentrazione il corpo del nobile Chenresig emana
raggi di luce che purificano le impurità delle apparenze karmiche e
le conoscenze illusorie,
il
mondo esterno diventa la terra della grande felicità, Dewa Chen,
corpo,
parola e mente degli esseri si trasformano nel corpo, parola e mente
di Chenresig,
apparenze,
suoni e pensieri sono indivisi dalla vacuità
OM
MANI PADME HUM”
Tutte
le difficoltà e i problemi che si manifestano non sono che il frutto
del karma negativo e della mente impura.
Sempre
noi decretiamo ciò che è buono o cattivo, ad esempio l’euro non è
in sé né buono né cattivo, siamo noi i responsabili della sua
discriminazione in un senso o nell’altro, definiamo un attributo in
base a parametri assolutamente soggettivi.
Siamo
incapaci di osservare la realtà così com’è, dobbiamo etichettare
ogni evento dividendolo in: positivo - negativo, buono - cattivo,
piacevole - spiacevole, bello - brutto, senza renderci conto che ciò
che appare altro non è che il riflesso del karma e della mente.
Dunque
l’immagine di un karma e di una mente impura si mostrerà negativo,
repellente, spiacevole, doloroso; mentre l’immagine di una mente
pura, di un karma positivo, si presenterà buono, accogliente,
piacevole, che genera contentezza.
L’immagine
che noi valutiamo corrisponde al karma e alla mente che l’hanno
prodotta; le cose sono buone o cattive in dipendenza del giudizio
attribuito, e non oggettivamente, è dunque evidente l’impossibilità
di ottenere un cambiamento purificando l’immagine esterna, ciò è
realizzabile soltanto nella purificazione della mente che osserva.
Nella
purificazione della mente si purificano tutte le apparenze che le si
manifestano, tutti fenomeni esterni appariranno purificati, saranno
la grande felicità, Dewa Chen, o Sukhāvatī.
Dov’è
la terra della grande felicità, Dewa Chen?
In
genere si pensa che la si possa raggiungere solo dopo la morte.
I
tibetani hanno elaborato metodi complicati, come la pratica del Powa,
per trasferire durante il processo della morte la coscienza in Dewa
Chen. Va bene, ci credono e io non lo metto in dubbio, però
personalmente non lo so, non l’ho studiato a fondo, né praticato.
Mi pare che possa essere pericolosamente frainteso tanto da indurre a
credere che basti premere un pulsante e lanciare un missile nello
spazio, ma per un simile viaggio si deve essere ricchissimi, il
biglietto costa moltissimo.
Molti
che pretendono di praticare il Powa pensano ad un evento miracoloso,
di non dover far nulla, qualcun’altro preme un determinato pulsante
e ci si ritrova catapultati direttamente nella terra pura, ma non è
così.
Affinché
questo possa avvenire si deve impiegare un intero patrimonio, cioè
avere accumulato una quantità immensa di meriti, poi si deve
incontrare la persona speciale che sappia premere correttamente il
pulsante e, a livello personale, si deve avere maturato una solida
convinzione e disponibilità ad entrare in quell’astronave.
Soltanto
quando tutte queste condizioni saranno soddisfatte si potrà
confidare nella possibilità del Lama di spedirvi in Dewa Chen.
Altrimenti
Dewa Chen dov’è?
E’
qui, è la mente pura, e le apparenze che le si presentano sono
anch’esse pure, la vostra casa diventa Dewa Chen, così come
concepita dalla vostra mente, tutto questo si realizza nel Lo Jong,
cioè purificando la mente, praticando la Grande Compassione.
I
tibetani sono inquieti perché gli è stato insegnato che, per poter
rinascere in Dewa Chen, prima devono morire, per cui vivono tutta
l’esistenza recitando il mantra con l’attenzione proiettata verso
le future esistenze e, in questo modo, rimangono bloccati, statici,
senza minimamente scalfirne la sofferenza samsarica del presente. Non
concepiscono che non è affatto necessario morire per rinascere in
Dewa Chen e che la terra pura è realizzabile qui e ora.
I
tibetani hanno molti problemi e, alla visione di un ipotetico Dewa
Chen comunque soltanto futuro, si sono aggiunti la perdita del
proprio paese, della terra, la povertà, la violazione delle libertà
e dei diritti umani. Però, chissà, forse si sentono appagati di
essere nati nel paese delle nevi e di avere di conseguenza la
cittadinanza di Avalokitésvara, ne avvertano la potente
protezione!....
I
tibetani oggi sono più confusi che mai e ciò è causa di ulteriori
difficoltà, sono afflitti da enormi preoccupazioni e non
usufruiscono più di nessun progetto collettivo, di un programma che
dia indicazioni precise, per cui ognuno procede a casaccio
affidandosi alle proprie interpretazioni e fantasie. Prima il Tibet
aveva un governo che dava regole, era una sicurezza, un punto di
riferimento, ora invece sono tutti allo sbaraglio, in un caos
doloroso in cui vengono inevitabilmente trascinati anche gli amici
del Tibet.
Il
karma del Tibet ha determinato una situazione veramente paradossale e
drammatica e l’unica soluzione per uscirne è la pratica del Lo
Jong, purtroppo però gli stessi tibetani in questo momento non
credono più nella sua incommensurabile potenza.
Soltanto
il Dalai Lama pratica costantemente il Lo Jong; gli anziani pregano
tutto il giorno per rinascere in Dewa Chen e i giovani non sono più
interessati al Dharma, al buddhismo.
Il
Dalai Lama, nella pratica ininterrotta del Lo Jong, cerca nella via
di mezzo una soluzione equilibrata che risponda alle esigenze di uno
e dell’altro, ma di fatto, essendo rimasto solo, subisce
l’opposizione di tutti perchè non sono più in grado di
comprendere la Grande Compassione.
Non
esiste più un corpo compatto di praticanti del Lo Jong in grado di
contrastare le difficoltà del momento e quello che succede è il
disordine e la sofferenza che tutti abbiamo sotto gli occhi.
Il
Lo Jong fa parte della cultura tradizionale e autentica del Tibet,
iniziata e promossa dai mastri Kadampa, ma invece di potenziarsi è
purtroppo progressivamente diminuito nei secoli, sino a scomparire.
Quando
la mente è purificata si vede l’altro, chiunque sia, come
Avalokitésvara.
La
terra pura, Dewa Chen o Sukhāvatī significa che tutti gli esseri
sono Avalokitésvara.
Invece
la mente ordinaria, non trasformata dal Lo Jong, è offuscata, non è
in grado di vedere con luminosità e purezza e coglie negli altri
esclusivamente i difetti.
Perché
si verifica questo fenomeno? perché la mente che osserva è essa
stessa difettosa; nel momento in cui riuscisse a liberarsi dal
proprio difetto non lo proietterebbe più all’esterno e questo
svanirebbe naturalmente.
Qualsiasi
oggetto mentale appaia alla tua mente, siano insulti, parolacce,
musica celestiale, parole buone, canto di uccelli… tutto si
trasforma nella natura della vacuità, tutto è puro nella vacuità.
Vedi,
senti, pensi solo con purezza, ecco il frutto della pratica del Lo
Jong.
La
grande compassione è la Terra pura, Sukhāvatī.
Conclusioni
Io
credo che il mio compito di essere umano sia quello di dover
praticare il Dharma in questa vita, realizzarlo qui e ora, senza
preoccuparmi delle esistenze future, ed esattamente questo è il
vajrayāna.
Non
è necessario arrovellarsi in ipotetiche interpretazioni; il
cristianesimo afferma un’unica possibilità di esistenza, il
buddhismo ne prevede moltissime e ha fiducia nelle opportunità
offerte dalle reincarnazioni, il buddhismo non crede in un Dio
creatore, mentre il cristianesimo ne ha la certezza.
Il
trincerarsi dietro le differenze, come se si dovesse sancire un’unica
verità assoluta, alimenta soltanto il caos, i conflitti e le guerre
e pone in evidenza la chiusura e la ristrettezza mentale che non
hanno nulla a che fare con la pratica del cuore, della bodhicitta.
Ci
sono domande?
Domanda:
Se si rompe la mala come la posso eliminare? devo bruciarla, gettarla
nel fiume, o altro?
Lama: La
puoi buttare dove vuoi, non è questo che conta, ma sarebbe bene
cambiare il filo e ricomporla nuovamente.
Domanda:
Non mi è chiara la questione della reincarnazione, la differenza tra
cristianesimo e buddhismo…
Lama: Non
c’è differenza, le differenze sono solo visioni dualistiche di chi
le interpreta. E’ assolutamente inutile e dispersivo concentrarsi
sulle diverse concettualizzazione di uno o dell’altro, non ha
nessun senso.
Domanda:
Ho avuto un periodo particolarmente difficile, ero molto arrabbiato e
persino incattivito verso gli altri, e ora ho iniziato il lungo
percorso per cambiare questo atteggiamento, ma ho seri problemi anche
pratici e vorrei abbreviarlo il più possibile, come posso fare?
Lama: Non
ci sono scorciatoie prestabilite, tutto dipende dalla tua forza, dal
tuo impegno, non sono in grado di darti altro consiglio.
Praticare
il Lo Jong è la via migliore, per chiunque in qualsiasi circostanza,
per questo sono davvero contento di aver meditato con voi questa
pratica.
Domanda:
Tu parlavi delle cinque degenerazioni, ma noi singoli come possiamo
aiutare concretamente gli altri, io mi sento totalmente incapace, non
so che fare?
Lama: Lavora
su te stesso, noi cerchiamo sempre le soluzioni all’esterno,
vogliamo cambiare situazioni e persone, mentre dobbiamo semplicemente
cambiare noi stessi e, automaticamente, saremo di aiuto agli altri.
Domanda:
E come posso cambiare me stesso? Soltanto recitare i mantra o fare la
pratica sarà certamente utile per purificare la mente, ma non mi
sembra sufficiente per la liberazione.
Lama: Non
è necessario praticare leggendo o recitando questi testi e tanti
altri, tu devi valutare cosa sia più utile per te, nella tua vita,
nel tuo lavoro, nel tuo quotidiano. Non c’è una ricetta rigida.
Roberto
tu che pratichi da tanto tempo, dai un consiglio a questo giovane.
Roberto
(il
traduttore):
A
me sembra che l’insistenza che Geshe-la ha posto sulle circostanze
che inducono confusione sia veramente il punto centrale che dobbiamo
affrontare, perché, osservando me stesso, vedo che ho seguito un
percorso che, se da un lato era partito da una condizione di
confusione destinata a crescere progressivamente, dall’altro invece
ha usufruito di occasioni, come quella di oggi, in cui uno spiraglio
di luce e riuscito a penetrare nel caos, apportando chiarezza nella
visione delle cose.
Rifacendomi
dunque alla mia esperienza, l’unico consiglio che posso darti è
riferirti che il primo insegnamento di Dharma che ho avuto la fortuna
di ascoltare è stato proprio il Lo Jong, in un tempo in cui la mia
mente era priva da ogni possibile preconcetto, non conoscevo nulla e
quindi ero aperto a ricevere tutto con freschezza.
Terminata
la settimana di ritiro, in cui si è concluso questo primo
fondamentale insegnamento, ho detto a me stesso: “ecco
ho trovato quello che cercavo”,
ho vissuto un momento di vera chiarezza.
Poi,
nel corso degli anni successivi, ho voluto approfondire altre
conoscenze, ho incontrato tanti maestri, ricevuto molte iniziazioni
di cui peraltro comprendevo poco, con il risultato di trovarmi in una
nebbia sempre più spessa, ma una simile confusione non era
certamente imputabile ai maestri, era esclusiva conseguenza del mio
vagare in superficie senza mai fermarmi ad approfondire gli aspetti
fondamentali dell’esistenza.
In
questa esperienza ho potuto verificare che ritrovavo la chiarezza
ogni qualvolta incontravo un maestro che, in tutta semplicità,
riprendeva il Lo Jong, puro e semplice.
Geshe-la
ci ha mostrato come il Lo Jong e la pratica di Chenresig siano due
facce della stessa medaglia, la prima osservata nell’ottica più
universale e l’altra secondo la tradizione tibetana.
Concludendo,
credo che la confusione samsarica non sia evitabile, però, qualora
si abbia ricevuto la giusta intuizione sul percorso da seguire,
invece di disperdersi, è bene mantenersi concentrati su quello.
Quando
si riconosce un insegnamento come rispondente alle proprie necessità
io consiglierei di approfondirlo e seguirlo con determinazione e
fermezza.
Domanda:
la pratica del Tong Len è diversa da quella del Lo Jong?
Lama: E’
la stessa, è la Grande Compassione. Il Lo Jong è la qualità della
mente, il Tong Len la sua pratica.
Ora
sarebbe bello se voi esprimeste le vostre impressioni e conclusioni,
Michele, tu che pensi?
Michele:
Grande confusione!.....
Vorrei
però riprendere la domanda di Andrea, forse sarebbe opportuno
mantenere come atteggiamento di fondo un po’ di saggezza e umiltà,
perché i maestri sono tutti i preziosi, ma non bisogna rivolgersi a
loro pretendendo che premano un pulsante che velocizza la
purificazione. Dobbiamo avere l’umiltà di ascoltare, accogliere la
ricchezza che ti offrono, ognuno ti dà esattamente tutto ciò che ti
serve e con il tempo forse potremo apprezzarlo. Il metodo veloce
dipende solo da noi.
Francesco:
Mi sembra che la pratica del Lo Jong ci possa essere molto utile
nella quotidianità, è la più benefica anche se molto difficile.
Però dà anche una grande gioia, forse perché è davvero unica, non
ha riferimenti, è universale.
Renata:
Il Lo Jong è, come diceva Geshe-la, semplicissimo, ma proprio per
questo difficile, non immediato, richiede un paziente lavoro, ma c’è
un aspetto fondamentale che tutti siamo in grado di applicare, ed è
cominciare dal presente.
Io
osservo la mia vita e vedo che, inesorabilmente, in ciò che sto
facendo, là dove le circostanze mi hanno portato e in quella precisa
concreta situazione, non posso fare altro che desiderare di applicare
la compassione.
Non
si tratta di gesti eclatanti, si comincia proprio con poco, come il
non giudicare ed etichettare tutto ciò che si presenta, sia persona,
situazione, azione o pensiero, forse in questo modo si avvia il
processo di trasformazione della mente, piccolo passo dopo piccolo
passo, con grande lentezza ma continuità, senza pensare di poter
realizzare dall’oggi al domani la Grande Compassione; è davvero
essenziale osservare con consapevolezza il presente, con le sue
condizioni e persone.
Simona:
A casa ho una stanza apposta per la meditazione, in cui ora faccio
le prosternazioni, ma cerco di portare anche a scuola dove insegno la
mia pratica, e in famiglia con mia figlia, e sento che in questo modo
si affievoliscono le differenze, non c’è più confine tra il mio
io e il non io.
Seguo
molti maestri, frequento vari Centri e ho ricevuto tante iniziazioni
di cui anch’io non ho capito niente, ma credo ugualmente che tutto
sia servito, ugualmente benefico e utile perché il seme, che forse
germoglierà solo più tardi, è stato piantato.
Lama: Molto
bene, possiamo terminare così il nostro incontro.
Grazie
a tutti per il vostro impegno e grazie al traduttore, una figura
fondamentale, Roberto è un grande amico, un buon praticante e
conoscitore del Dharma. E’ sempre una bella occasione quella di
poterci incontrare, abbiamo affrontato l’argomento in modo
tranquillo, senza troppe parole, rivolgendo l’attenzione al
significato più profondo, tutto è scaturito con naturalezza e in
modo perfettamente sintonico con la pratica di Avalokitésvara che
abbiamo meditato insieme e che voi effettuate settimanalmente qui al
Centro.
Io
non pianifico mai l’insegnamento in modo rigido, esprimo quello che
ogni situazione mi suggerisce, questo è bene per il Dharma, ma non
tanto per la vita ordinaria che invece richiede programmazione,
pianificazione in ogni suo aspetto, nell’organizzazione della
giornata, nel lavoro, nella famiglia.
Nella
prassi non è sempre facile far coincidere il Dharma con la vita, ma
occorre essere consapevoli della peculiarità di entrambe le
circostanze, se vi sono punti di convergenza tanto meglio, ma questo
non è affatto obbligatorio.
Sono
veramente soddisfatto di come si è sviluppato l’insegnamento in
questi due giorni, non è il prodotto di una programmazione
preliminare, di una scelta su come articolare la spiegazione in un
modo piuttosto che in un altro, è scaturito naturalmente.
Insieme,
abbiamo posto le condizioni affinché si ottenesse questo risultato.
E’
importante che così avvenga, e possiamo concludere con la preghiera
di dedica dei meriti.
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