Commentario sul
Sutra del Essenza della Saggezza
( IL SUTRA DEL CUORE DELLA SAGGEZZA )
Ven. Geshe Gedun Tharchin
ROMA - 2004
****
Introduzione
dell’autore
Parte I
Prajnaparamita
Madre
di tutti gli Illuminati
Percezione profonda
Il
sentiero dell’accumulazione
Parte II
Dharma semplice
Ka dam pa
Il
Sutra del Cuore e il Kalachakra
Tre tipi di Buddha
Il sentiero della
preparazione
Parte III
Lo Jong
Lam Rim
Il
sentiero della visione
Parte IV
Dare un senso al
tempo
Il sentiero della
meditazione
Stato di Buddha
Parte V
Meditazione sul
“Sutra del Cuore
Testo
del Sutra del Cuore
******
Introduzione dell’autore
La Via di Mezzo e Vacuità
Introduzione dell’autore
La Via di Mezzo e Vacuità
Nel corso dei miei
insegnamenti ho enfatizzato il modo di rendere l’antica saggezza
della Via di Mezzo un pratico strumento spirituale accessibile a
tutti i tipi di esseri umani, per portare armonia, rispetto e
tolleranza nel mondo odierno. Lo scopo di ciò è semplificare il
Dharma e fare in modo che questo non rimanga un argomento puramente
filosofico o una qualche performance rituale. Nel corso di queste
lezioni ho cercato di cogliere l’essenza del Dharma, presentandolo
come un “mezzo abile” per integrare i valori spirituali
universali con tutte le azioni e gli eventi della vita quotidiana.
Penso, infatti, che ciò sia di estrema necessità nel mondo moderno,
improntato ad un rapido sviluppo tecnologico e spero di esporre un
Dharma che si adatti al XXI secolo!
In questo libro ho
cercato di presentare un Dharma profondo e al contempo semplice,
concentrandomi sui concetti fondamentali del Buddhismo e sul suo
messaggio della Via di Mezzo, senza far riferimento a nessuna
tradizione specifica. Il mio obiettivo è cogliere l’essenza del
pensiero e della meditazione buddista senza tener conto delle
influenze derivanti dal retroterra culturale di ogni individuo, in
maniera tale da illustrare in modo lucido, puro e modesto un Dharma
che possa integrarsi facilmente alla vita quotidiana e semplificarla.
Nonostante le mie capacità limitate, tenterò di mostrare in quale
modo il Buddhismo possa fornire dei validi contributi al
miglioramento di una società sofisticata come quella d’oggi.
Penso
che il cosiddetto Dharma possa essere definito in una parola “Via
di Mezzo”, in tibetano Uma
ed in sanscrito Madhyamaka.
Essere nel mezzo significa saper equilibrare ogni cosa e comprendere
che il Dharma, la compassione, la rinuncia e anche la realtà ultima,
cioè la vacuità o Mahamudra
(il Grande Sigillo, l’Unione delle Due Verità) non sono
nient’altro che Uma.
In breve, Uma è l’essenza di tutti i fenomeni e coincide
con il Dharma da realizzare e in cui trovare rilassamento e pace. Le
descrizioni più esplicite di Uma si trovano nel
Mulamadhyamakakarika di Nagarjuna. Tecnicamente il
termine Madhyamaka si riferisce alle due Bodhicitta del testo
di Nagarjuna, dette Bodhicitta del livello convenzionale e del
livello ultimo, che sono rispettosamente la grande compassione e la
realizzazione della realtà ultima. Sono anche conosciute come
Compassione e Saggezza, come sintetizzato nell’ultimo e nel primo
verso del Mulamadhyamakakarika:
Mi prostro a Gautama
Che mediante la
compassione
Ha insegnato la vera
dottrina
Che porta all’abbandono
di tutte le teorie.
Mi prostro al Buddha Perfetto,
Il migliore dei maestri, che ha insegnato che
Ogni cosa sorta in maniera dipendente è
Senza fine, senza nascita,
Non annichilita, non permanente,
Non viene, non va,
Senza distinzione, senza identità,
E libera da costruzione concettuale.
Uma
o Madhyamaka
è quindi la descrizione del Dharma così come è rivelato dal grande
Nagarjuna
in opere quali I Sei Trattati che provano con la logica la Via di
Mezzo, specialmente I Versi della Saggezza Fondamentale, in cui viene
detto:
Qualunque cosa sorta in
modo dipendente
È detta essere la
vacuità.
Questa, essendo un
designazione dipendente
È essa stessa la via
di mezzo.
Quando la vacuità è
possibile,
Ogni cosa è possibile;
Dove la vacuità non è
possibile,
Nessuna cosa è
possibile.
Questa filosofia è
riconducibile ai seguenti versi di un sutra del maestro Sakyamuni:
Colui che vede
l’Origine Interdipendente
Vede il Dharma della
Vacuità,
Allora
vede il Dharmakaya
dell’Illuminato.
Il sistema filosofico è stato conosciuto poi come
Prasangika
Madhyamaka
dal suo più fervido seguace Chandrakirti
nel suo commento al Mulamadhyamakakarika, Introduzione alla Via di
Mezzo o Madhyamakavatara.
Un breve commento poetico al Mulamadhyamakakarika di Nagarjuna
è stato scritto da Lama Tsongkhapa
e porta il titolo “Omaggio a Buddha Sakyamuni per il suo
insegnamento sulla relatività”. Se ne riportano dei versi:
Omaggio a colui la cui visione e parola
Resero un insuperabile
saggio e maestro,
Il vittorioso, che vide
la relatività
E la insegnò a tutti
noi!
Di tutti problemi nel mondo;Colui che vide ciò e se ne liberò
Secondo quanto dice una leggenda buddista, Buddha apprese la Via di Mezzo da un fenomeno semplice, una chitarra indiana: né un tocco troppo debole né uno troppo forte produce perfettamente e correttamente il suono desiderato. Quindi, per appagare il desiderio umano bisogna saper seguire la Via di Mezzo, la saggezza che riesce ad equilibrare tutto!
Proclamò la relatività universale.
e
Tutto ciò è
oggettivamente vacuo
E questo effetto deriva
da questa causa;
Queste due verità non
si escludono a vicenda
Ma anzi sono
complementari.
Tra i maestri, il
maestro della relatività,
Tra le saggezza, la
saggezza della relatività;
Questi sono come
Vincitori Imperiali nel mondo
Che ti rendono Campione
Mondiale di Saggezza, al di sopra di tutti.
È permeata di
relatività,
E dal momento che
quest’ultima conduce al Nirvana
Nessuna delle tue
azioni non procura pace.
Atisha, autore de
“La lampada del sentiero che conduce all’Illuminazione”,
Shantideva,
autore di Bodhisattvacaryavatara
e molti praticanti in Tibet, come Marpa,
Milarepa,
Tsongkhapa
e l’attuale quattordicesimo Dalai Lama del Tibet, hanno basato il
loro pensiero sulla Via di Mezzo di Nagarjuna
così come viene descritta nel Buddhapalita
di Buddhaviveka,
nei “Quattrocento versi sulla Via di Mezzo” di Aryadeva,
nel Madhyamakavatara
di Chandrakirti.
Anche due grandi maestri di logica indiani,
Dignaga e
Dharmakirti,
autore dei sette trattati Pramana,
inoltre i cinque Dharma di Maitreya,
le cinque Bumi di Asanga,
l’Abhidhramasamucchaya
di Asanga,
l’Abidharmakosa
di Vasubandu
e centinaia di commenti e opere di studiosi tibetani, sono basati su
questi testi.
I
trattati Lam Rim e i trattati Lo jong dei maestri ka
dam pa
del Tibet hanno costituito un grande supporto per la Via di Mezzo del
Buddha, giacché le hanno consentito di giungere ai giorni d’oggi,
preservandola come un tesoro vivente di spiritualità. Vi è anche un
sistema di dialettica tibetano, chiamato due
dra,
che si è sviluppato basandosi sui sistemi di logica indiani degli
studiosi Sakyapa,
e che distingue leggermente il sistema di studiare la filosofia
buddista proprio delle Università Monastiche tibetane da quello
della grande Università di Nalanda in India.
All’interno al Buddhismo Tibetano vi è la scuola di pensiero del
Vajrayana, che si basa sul sentiero spirituale promosso dagli 80
Mahasiddha indiani. Tale sistema è conosciuto come un mezzo segreto
del Dharma, e funziona solo per le persone che possiedono capacità
paragonabili a quelle degli 80 Mahasidda. Il sistema Vajrayana è
anche un modo d’approccio verso Uma o Madhyamaka
(l’unione delle due verità della Chiara Luce e del corpo Illusorio
o corpo d’Arcobaleno o Corpo Vacuo) attraverso la penetrazione nei
punti vitali del sistema sottile dell’esistenza umana.
Dunque la Via di Mezzo non consiste in un una filosofia o in un
atteggiamento fisso e predeterminato, ma si basa sulla realtà della
relatività della verità, sulla perfezione di una conoscenza
intelligente, che riesce a fornire adeguate risposte a ciascun
individuo, tenendo conto dei ritmi di continuo cambiamento cui sono
sottoposti gli eventi e le cose. Quindi, la Via di Mezzo non è
qualcosa per eruditi o per persone particolarmente realizzate, ma
piuttosto è un mezzo che permette a tutti gli esseri viventi di
gestire la loro vita riuscendo a dare equilibrio a tutti i momenti,
gli eventi, le situazioni che capitano loro senza far venir meno
l’esperienza gioiosa del Dharma all’interno del flusso mentale.
Anche
un santo dei tempi moderni come Mahatma Gandhi ha applicato
fondamentalmente il principio della Via di Mezzo, il punto di vista
proprio del Madhyamaka
o Uma,
utilizzandolo come un modo per sistemare ed equilibrare tutte le
situazioni che ha incontrato. Gandhi riuscì a mantenere la Via di
Mezzo anche nelle questioni fra credenti in Dio ed atei, religioni
monoteiste e politeiste, sostenendo che “Dio è la Verità e la
Verità è Dio” e “Non c’è nessun Dio se non la Verità” e
riuscendo così a portare equanimità ed equilibrio tra queste
posizioni che si escludono l’una l’altra.
Colpisce
molto anche il suo modo, proprio della Via di Mezzo, di avvicinarsi
alla fede Induista e Buddhista in India, dal momento che lui ha
affermato: “Ma l’insegnamento di Buddha, come il suo cuore, si
espandeva dappertutto e abbracciava ogni cosa, e per questo è
sopravissuto al suo corpo e si è diffuso sulla faccia della terra.
Il
Buddha non ha mai rifiutato l’Induismo, ma ne ha ampliato la base,
ha dato vita a degli insegnamenti che erano seppelliti nei Veda e che
erano ricoperti di erbacce. Il suo grande spirito induista ha
spianato la sua strada tra le foreste di parole, parole senza senso
che avevano ricoperto l’aurea verità presente nei Veda. Le
leggi di Dio sono eterne ed inalterabili e non possono essere
separate da Dio stesso. È una condizione indispensabile della Sua
Perfezione. Da
qui la grande confusione che Buddha non credeva in Dio e credeva
semplicemente nella legge morale.”
Credo
che la vita di Gandhi sia un esempio della grandezza del genere umano
e dell’animo umano. La sua vita fu semplice, modesta e umile
tuttavia in grado di affrontare tutte le situazioni. Inoltre egli era
intelligente, istruito culturalmente e possedeva forza pacifica,
tolleranza e amore, che lui chiamava ahimsa
bavana,
letteralmente azione di non-violenza e la sua pratica era Satyagrah,
cioè basata sulla Verità…parole estremamente sagge!
Quindi, secondo me, la Via di Mezzo è uno stato
di completa libertà da posizioni estreme e di assoluta pace, e
costituisce il più semplice, il più umile e allo stesso tempo il
più grande e il più potente principio naturale che permette di
superare tutti i problemi stando sull’infallibile livello zero
della vacuità, Sunyata.
I seguenti tre versi, tratti dal Bodhisattvacaryavatara di
Shantideva, chiariscono in che modo avvicinarsi al Dharma:
Uno dovrebbe impegnarsi
assiduamente negli esercizi
Appropriati alle varie
situazioni in cui si viene
A trovare sia
volontariamente, che per volontà altrui.
Non c’è nulla da cui
il Bodhisattva non può imparare.
Non esiste niente che
non costituisca azione di merito per la buona persona
Che si comporta in
questo modo.
Non si dovrebbe fare
nient’altro che ciò che direttamente
O indirettamente reca
beneficio agli esseri senzienti, e solo per il beneficio
Degli esseri senzienti
uno dovrebbe dedicare ogni cosa all’Illuminazione
Il
Grande Nagarjuna
afferma nel Ratnavali,
“La preziosa ghirlanda”:
Un grammatico prima
insegna ai
Suoi studenti a leggere
l’alfabeto,
Allo stesso modo Buddha
insegnò ai suoi seguaci
La dottrina che essi
potevano comprendere.
Ad alcuni insegnò
dottrine
Per evitare di
commettere azioni peccaminose,
Ad altri dottrine
basate sulla dualità.
Ad alcuni insegnò
dottrine basate sulla non-dualità, ad altri
Insegnò ciò che è
profondo e spaventoso per colui che è pauroso.
Avente come essenza la
vacuità e la compassione,
I mezzi per ottenere
l’Illuminazione.
Quindi l’insegnamento
del Dharma non consiste nell’esporre le proprie idee e i propri
pensieri, ma piuttosto ciò che reca beneficio agli altri.
Spero che il mio libro,
nato come il primo in Italia, vale a dire nel contesto della cultura,
della religione, della società, dello stile di vita occidentale,
possa soddisfare l’inevitabile attrazione naturale che molte
persone provano nei confronti del pensiero e della pratica della Via
di Mezzo e che possa dare un presentazione del Dharma aggiornata ed
adeguata alla mentalità del mondo contemporaneo, così da aiutare il
genere umano a condurre una vita significativa, ricca di pace,
armonia e serenità.
Secondo
Shantideva
tutte queste pratiche possono essere realizzate tramite la
meditazione sulla consapevolezza:
Dove potrei trovare
abbastanza cuoio per coprire l’intero mondo?
Il mondo intero può
essere coperto con il cuoio sufficiente per un paio di scarpe.
Allo stesso modo, dal
momento che non posso controllare gli eventi esterni,
Controllerò la mia
mente.
Perché preoccuparmi di
controllare tutte le altre cose?
e
In breve, questa sola è
la definizione della consapevolezza:
L’osservazione in
ogni istante
Dello stato del proprio
corpo e della propria mente.
Sarei molto grato ai
lettori se mi dessero qualche consiglio per il miglioramento delle
edizioni future. Spero che questo libro possa essere un mezzo per
rivelare nel mondo presente l’antica saggezza e possa essere utile
allo sviluppo di amore universale e tranquillità in ogni individuo –
qui ed ora.
Un mio sogno è che le
religioni del XXI secolo diventino aperte come il cielo, inclusive
come internet (che non escludano cioè altre tradizioni spirituali e
religiose) e veloci come le e-mail nel dare risposte ai problemi
umani…penso che essere un buddista puro significhi che egli possa
essere anche un Cristiano puro, un induista puro, un islamico puro.
Vorrei
aggiungere qui i miei versi preferiti di Shantideva,
che reputo essere l’essenza dell’amore che abbraccia ogni cosa,
della compassione, della saggezza e della Via di Mezzo
dell’equanimità:
-Il maestro Sakyamuni ha dichiarato che il campo degli esseri
senzienti è il campo dei Buddha, perché molti hanno raggiunto la
più alta perfezione onorandoli.
-Dal
momento che l’ottenimento delle qualità di Buddha è ugualmente
dovuto sia agli esseri senzienti che ai Buddha, che senso ha non
rispettare gli essere senzienti come si rispettano i Buddha?
-La
loro grandezza non dipende dall’intenzione ma dall’effetto
stesso. In tal senso gli esseri senzienti sono pari ai Buddha.
-Una disposizione amichevole, che è onorabile, costituisce la
grandezza degli esseri senzienti. Il merito dovuto alla fede nei
Buddha costituisce la grandezza dei Buddha.
- Perciò, gli esseri senzienti sono uguali ai Buddha nell’aspetto
dell’acquisizione delle qualità dei Buddha; ma nessuno di essi è
del tutto pari ai Buddha, che sono oceani di buone qualità dagli
aspetti illimitati.
Dei versi citati
frequentemente (che si trovano nelle raccolte di sutra in pali e in
sanscrito) sono attribuiti al maestro Sakyamuni:
“O
Bhiksu e uomini saggi,
Come un orefice
testerebbe il suo oro
Bruciandolo,
tagliandolo e levigandolo,
Così voi dovete
esaminare le mie parole e accettarle,
Non solamente per la
riverenza che nutrite per me”.
Il Buddha ha dato hai suoi seguaci la grande libertà di analizzare
le sue stesse parole per vedere se sono attendibili o no e ciò
significa anche che i suoi discepoli si possono fidare delle sue
parole solo dopo averne compreso appieno il significato.
Le mie spiegazioni e i miei
discorsi sul Dharma sono semplicemente dei consigli che do ai miei
amici spirituali e spetta loro la decisione finale. Penso infatti che
questo sia il significato della frase di Sakyamuni: “tu sei il tuo
stesso maestro e sei anche il tuo stesso nemico”. Ogni insegnamento
di Dharma dovrebbe cominciare con la motivazione dell’altruismo,
tecnicamente chiamata amore o compassione, in tibetano Nying
Tze,
letteralmente Cuore Sensibile, che è il vero mezzo abile per servire
gli altri ed è per questo che un maestro dovrebbe sempre insegnare
ciò che è utile agli altri piuttosto che le sue idee e la sua
filosofia.
Mi sforzo sempre di insegnare il Dharma con questa motivazione, ma
per via di limitazioni samsariche, sicuramente la mia motivazione è
stata sempre mescolata a molti interessi mondani.
Qualsiasi azione basata sulla motivazione della compassione sarà
automaticamente positiva, poiché l’amore e la compassione sono
l’essenza del Dharma.
Possano tutti gli esseri senzienti essere felici nello spirito della
Via di Mezzo e nella realizzazione della Vacuità.
Vorrei
esprimere la mia gratitudine verso tutti i miei amici che mi hanno
aiutato in un modo e nell’altro per realizzazione di questo testo
e, sopratutto alla dottoressa Rita, chi e fatto tutto
traduzione, trascrizione e revisioni finale di questo testo.
Gedun Tharchin
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I Parte
(9 Novembre 2003)
Prajnaparamita
Parleremo
del Sutra del Cuore, anche detto l’Essenza della Saggezza o Cuore
della Saggezza: si tratta di un sutra molto famoso, conosciuto in
tutto il buddismo mahayana e spesso utilizzato come testo di
riferimento per la pratica quotidiana. Come ho scritto nel mio libro
“la via del Nirvana”, possiamo trovare varie versioni del
prajnaparamita
sutra
o Sutra della Saggezza: la più grande conta 100,000 versi, la
versione intermedia è composta da 20,000 versi e la più breve da
8,000. L’essenza di tutte queste versioni del prajnaparamita
sutra
è costituita dal Sutra del Cuore della Saggezza, il cui contenuto è
pertanto molto ricco. L’estrema sintesi del contenuto del
prjanaparamita
sutra
è il mantra in esso riportato:
tadyata gate gate pragate parasamgate bodhi svaha.
Il
Sutra del Cuore della Saggezza è generalmente considerato un sutra
maha-yana, ma poiché hina-yana
e
maha-yana
sono
termini utilizzati a fini comparativi che possono dare luogo a
confusione, oggi useremo il termine bodhisattva-yana,
sinonimo di maha-yana.
Da molto tempo avevo
intenzione di tenere un discorso su questo sutra e spero che quando
avremo finito di studiarlo, potremo praticare sulla base del suo
contenuto.
Per comprendere meglio
l’essenza di questo sutra è importante iniziare spiegando che cosa
s’intende per sentiero nel buddhismo.
La
parola yana
significa veicolo o sentiero. Esiste il veicolo del bodhisattva, per
secondo viene il veicolo dei pratyekabuddha
o buddha solitari e per terzo il veicolo degli shravaka
o ascoltatori. Questi sono i tre tipi di seguaci di Buddha, ognuno
dei quali pratica il proprio sentiero in modo diverso.
Lo
scopo del bodhisattva è raggiungere lo stato di pieno risveglio, lo
stato di Buddha. Lo scopo degli altri due praticanti è l’ottenimento
della liberazione, il Nirvana
o moksha,
la liberazione individuale. Ed infatti, quando questi due ultimi
sentieri vengono considerati come uno solo, questo viene spesso
chiamato il sentiero della liberazione individuale, mentre il veicolo
del bodhisattva spesso viene tradotto in inglese come veicolo
universale.
La
differenza tra il veicolo del bodhisattva e quelli della liberazione
individuale risiede nella motivazione, che per il primo è la
bodhicitta,
mentre per gli altri due è la rinuncia. Quindi, rifacendoci ai “Tre
Aspetti Principali del Sentiero’’ di Jey Tzongkhapa, possiamo
vedere come la rinuncia sia la motivazione alla base dei due veicoli,
la bodhicitta sia alla base del veicolo del Bodhisattva, mentre il
terzo aspetto, la saggezza che realizza la realtà ultima dei
fenomeni, è necessario a tutti e tre.
Per riuscire a portare
a compimento ognuno di questi tre veicoli, bisogna seguire i cinque
sentieri. Questo è un altro argomento che volevo spiegare da molto
tempo, ma che finora non sono mai riuscito ad affrontare.
I
quindici sentieri sono un argomento molto importante nello studio
della filosofia buddista: i primi cinque sono i sentieri del
bodhisattva, seguono i cinque sentieri dei pratyekabuddha, e poi i
cinque sentieri del veicolo degli shravaka. In tutto sono quindici,
dunque. In tibetano si dice Lam
Nga Sum Con Nga,
che significa per tre volte cinque sentieri: Lam
è
sentiero, Nga
significa cinque, Sum
vuol dire tre, Con
Nga
quindici: “i quindici sentieri del cinque per tre”.
Il primo sentiero è il
sentiero dell’accumulazione, il secondo sentiero è quello della
preparazione, il terzo è quello del vedere o della visione, il
quarto è quello della meditazione e il quinto è quello della fine
dell’apprendimento. Questi cinque sentieri hanno lo stesso nome per
tutti e tre i veicoli di cui abbiamo parlato. Tra i sentieri, i primi
quattro sono le cause, mentre il quinto è il risultato, in quanto
essi rappresentano la tappe da percorrere per raggiungere il
risultato che ognuno dei tre veicoli si propone.
Come si procede lungo i cinque sentieri? Bisogna praticare due cose:
il metodo e la saggezza. Il metodo è sempre un mezzo intelligente.
Nella pratica del bodhisattva, il mezzo intelligente è rappresentato
dalla bodhicitta. Quindi per raggiungere lo scopo del veicolo del
bodhisattva, che è lo stato di Buddha, il pieno risveglio, occorre
utilizzare come strumento intelligente la bodhicitta. Abbiamo inoltre
la saggezza, cioè il terzo dei “Tre Aspetti Principali del
Sentiero”. Riguardo agli altri due veicoli lo strumento da usare è
la rinuncia, che è il mezzo intelligente per raggiungere il moksha,
il Nirvana, la liberazione individuale. Anche in questo caso è
necessaria la saggezza.
Che differenza c’è
tra il veicolo degli ascoltatori e quello dei buddha solitari, dal
momento che entrambi hanno la rinuncia quale strumento e la loro
saggezza è simile? La differenza risiede proprio nella saggezza che
di cui si servono per affrontare il loro sentiero. Gli ascoltatori
hanno un modo molto più conciso, molto più breve per realizzarla;
mentre i praticanti solitari hanno una prospettiva molto più ampia
sulla saggezza. Ed è proprio per questa diversità che i praticanti
del sentiero solitario tendono a raggiungere il loro obbiettivo molto
più velocemente dei praticanti del sentiero degli ascoltatori.
Vi è anche un’altra
differenza: gli ascoltatori amano essere in presenza del Buddha
inteso come figura storica, mentre i praticanti solitari preferiscono
non essere in presenza di nessun Buddha. Quando appare un Buddha
appaiono i praticanti del sentiero dell’ascoltatore, quando il
Buddha scompare, scompaiono anche loro e in questo momento cominciano
ad apparire i praticanti del sentiero solitario. È interessante
ricordare come nel momento in cui il Buddha iniziò ad impartire gli
insegnamenti a Varanasi, facendo girare per la prima volta la ruota
del Dharma, tutti i praticanti solitari, che erano già lì prima
della sua apparizione, cominciarono a scomparire. La leggenda dice
che scomparvero cominciando a volare e mentre volavano si
“autocremarono”, fiammeggiando nel cielo. Possiamo dunque
osservare come vi siano vari tipi di praticanti e vari modi per
avvicinarsi al Dharma e alla pratica.
Gli
ascoltatori non praticano il bodhisattva da soli, ma ascoltano questo
veicolo dal Buddha e lo trasmettono agli altri, anche se loro stessi
non lo praticano; per questo sono chiamati ascoltatori. I praticanti
solitari, invece, vogliono praticare da soli, senza un Buddha, senza
avere intorno una comunità di praticanti. Essi hanno una particolare
missione, che è quella di recare beneficio agli esseri che si
trovano in quei luoghi in cui non sono presenti Buddha, né
Bodhisattva, né ascoltatori. I pratyekabuddha
hanno la capacità di trasmettere il Dharma senza parlare, senza
avere nessun tipo di contatto con le persone: la loro missione è
quella di recare beneficio agli altri esseri tramite la loro pratica
solitaria. Molti dicono: “Ma se tu stai solo su un monte a
praticare, come puoi essere di beneficio a quelli che stanno in
città?”. Questo, però, non è un ragionamento giusto, perché
quando una persona pratica, la sua bontà si trasmette
automaticamente agli altri, come un’energia che si diffonde
automaticamente nell’ambiente circostante e quindi giunge anche
alle persone che ne fanno parte. Qui in occidente invece si dice:
“Marciamo per la pace, combattiamo per la pace!” e si va a
manifestare per la pace pieni di rabbia ed astio, pensando che questa
sia una azione molto efficace. Ma se non abbiamo la pace dentro di
noi come possiamo cercare di creare la pace? Questo è il primo shock
che ho avuto quando sono venuto nella società occidentale: qui ci
sono tante persone amanti della pace, piene di rabbia! Lo si capisce
chiaramente partecipando alle loro conferenze. La non violenza è
compassione, quindi una persona che medita sui monti magari è molto
meno violenta di una persona che fa una manifestazione in città. In
occidente andare a meditare sui monti sarebbe molto facile perché si
hanno le pensioni: uno scende dal monte una volta al mese, va alla
posta a ritirare la pensione e poi torna tra i monti: è comodo, no?
A Dharamsala vi sono
praticanti che vivono sulle montagne, come eremiti, e vengono
assistiti dall’ufficio del Dalai Lama. Ogni mese scendono dai monti
per prendere i soldi, poiché c’è un fondo speciale per queste
persone e si possono fare offerte specifiche per loro. Molto spesso,
però, capita che arrivino persone a Dharamsala dicendo di voler
andare in eremitaggio e si precipitino subito presso questo ufficio,
ma si vede che hanno soprattutto bisogno di soldi. In realtà, si
dovrebbe andare senza pensare ai soldi che l’ufficio dà, prendere
l’acqua e andare a fare l’eremita là, altrimenti non ha senso:
bisogna seguire l’esempio di Milarepa. A Dharamsala c’è un po’
di confusione intorno agli eremiti. D’altronde non c’è
soluzione, perché è normale che in tempi moderni si verifichi
questo genere di cose. Qui però c’è la fortuna di avere
direttamente la pensione, senza andarla a chiedere a qualche ufficio
per eremiti, e quindi bisognerebbe fare un piano per diventare
praticanti solitari subito dopo l’età pensionabile.
A Mundgod, nel mio
monastero, c’era solo un monaco Geshe che faceva questo tipo di
vita. Era un Geshe che d’estate stava in monastero, ma d’inverno
trascorreva tutto il suo tempo su una montagna vicino al monastero e
scendeva di tanto in tanto al villaggio tibetano a chiedere la
carità, ma quando è morto nessuno l’ha sostituito. In Tibet in
passato era più facile fare queste cose rispetto ad oggi, ma la
situazione moderna dell’India e del Tibet è molto complicata
perché non c’è né una pensione, né delle terre libere dove
andare. Bisogna andare in un ufficio apposito per diventare un
eremita!
Quindi abbiamo parlato
dei tre tipi di veicoli e dei cinque sentieri che caratterizzano ogni
veicolo. Ognuno di questi cinque sentieri può essere praticato, a
seconda del veicolo, in due modi: il metodo e la saggezza. Abbiamo
specificato quale sia il metodo da utilizzare e quanta la saggezza
necessaria per ogni veicolo. Questo sutra, in particolare, spiega il
metodo per la pratica del Bodhisattva e dunque spiega i cinque
sentieri del Bodhisattva. La motivazione che sta alla base di questo
sutra è la bodhicitta e il tema principale affrontato in questo
sutra è la saggezza, riferita al sentiero del bodhisattva. Ed è per
questo che spesso questo sutra viene detto Bodhisattva-yana sutra o
maha-yana sutra.
Madre di tutti gli Illuminati
Il
titolo è in sanscrito: Bhagavati
Prajna Paramita Hridaya;
in
tibetano: Chom Den De Ma She Rab Kyi Pa Rol Tu Chin Pe Nying Po; in
italiano:
Il
cuore della Bhagavati, la Perfezione della Saggezza
o
il sutra dell’essenza della saggezza.
Chom
Den De
significa bagavan, Buddha o essere illuminato che ha eliminato tutti
gli ostacoli e ottenuto tutte le qualità. Chom
vuol
dire colui che ha eliminato ogni confusione, che ha distrutto tutti
gli ostacoli e le oscurazioni mentali; Den
che
ha ottenuto tutte le qualità ; De che è andato al di là di tutte
le confusioni e della sofferenza. Non so esattamente come ciò
corrisponda al sanscrito baghavan, perchè in tibetano Chom
ha un significato, Den
un altro, De
un altro ancora. Insieme queste tre parole danno la definizione dello
stato di Buddha.
Ma
significa madre, la madre di Chom
Den De,
del risvegliato e cioè la Perfezione della Saggezza. Quindi la
perfezione della saggezza è la madre dello stato del pieno
risveglio. Questo sutra è l’essenza, il cuore della perfezione
della saggezza, di cui ci dà i punti essenziali. Il che significa
che chiunque voglia raggiungere lo stato di perfetta realizzazione,
ovvero d’Illuminazione, deve attraversare il processo di
perfezionamento della saggezza. È interessante notare come si è
soliti dire: “chi vuole distruggere tutti i problemi, gli ostacoli,
chi vuole ottenere tutte le qualità, chi vuole essere libero dalle
sofferenze, questo deve ottenere la realizzazione della saggezza”,
per questo la saggezza viene chiamata madre. Tuttavia la madre da
sola non è sufficiente per causare l’Illuminazione. Il padre è il
metodo, lo strumento intelligente, cioè la bodhicitta.
Metaforicamente, quando si parla in termini filosofici all’interno
del veicolo del bodhisattva, il padre è la bodhicitta e la madre è
la saggezza ed è così anche nelle immagini tantriche, in cui vi è
sempre una figura femminile (la saggezza) ed una maschile (la
bodhicitta). L’unione di queste due realizzazioni produce la
beatitudine dell’Illuminazione, cioè Chom Den De, lo stato di
eliminazione degli ostacoli, di ottenimento delle qualità e lo stato
di libertà.
Quando parliamo di queste cose, percepiamo spontaneamente
l’Illuminazione come qualcosa di lontano, concepiamo una forte
distanza da essa e ci sentiamo separati da questo stato, sebbene
protesi verso di esso. Ma questo è un modo sbagliato per affrontare
il concetto. Infatti Chom Den De sono tre differenti qualità che non
devono essere considerate estranee alla nostra mente. Non dobbiamo
considerarle come degli stati che possiamo raggiungere solo dopo un
lunghissimo percorso, come un qualcosa di distante da noi. Intendo
dire che ci si può avvicinare al percorso spirituale in due modi:
uno è pensare che siamo dei viaggiatori che devono andare da un
posto all’altro, l’altro è pensare che non siamo dei
viaggiatori, ma stiamo solamente purificando la nostra mente, in cui
vi è una sorta di equilibrio, ci sono delle parti negative e delle
parti positive e non si sta cercano di passare da uno stato negativo
ad uno positivo o viceversa, è lo stesso luogo, lo stesso momento, è
qui, ora.
Ora
passiamo alla perfezione della saggezza, Phar
Chin. Perfezione
significa saggezza che va al di là. Ma chi o cosa è andato al di
là? Ciò che è andato al di là è la vera natura della mente, la
sua realtà ultima, cioè la vacuità della mente stessa. Quindi la
vacuità della mente è l’essenza della perfezione della saggezza.
Tale essenza non è riferita alla mente in generale, ma a quella che
va dalla mente di tutti gli esseri comuni alla mente dei Buddha.
L’essenza della perfezione della saggezza ha ora due significati:
uno si riferisce al sutra, lo strumento attraverso cui si cerca di
spiegare l’essenza della perfezione della saggezza, e l’altro è
la natura ultima della mente, vacuità della mente, reale natura
della mente. Di conseguenza, quando leggiamo un discorso sulla madre
del Vittorioso, l’essenza della perfezione della saggezza, non
dobbiamo pensare al sutra, ma la natura della nostra mente. Il titolo
possiede dunque un significato molto speciale.
Dov’è la madre
adesso? La madre è dentro di noi, la natura ultima della mente è la
madre stessa, la madre dei bhagavati. Quindi lo strumento che
possiamo utilizzare per raggiungere pienamente il totale risveglio è
la natura della nostra stessa mente. Ma come possiamo farle assumere
questo ruolo di madre? Attraverso la purificazione della nostra
mente: purificare significa permettere alla vera natura della mente
di manifestarsi. C’è un profondo significato in questo. L’unica
cosa che dobbiamo fare è lasciar apparire la vera natura della
mente, senza complicazioni come andare all’ufficio per eremiti,
salire sulla montagna a fare il ritiro e scendere ogni mese a
prendere i soldi... quando guardiamo le cose, la prima cosa da
guardare è la vera natura della nostra mente. Quando meditiamo la
prima cosa che dobbiamo cercare di vedere è la vera natura della
nostra mente. Quando parliamo, il posto da cui provengono le nostre
parole, dovrebbe essere la vera natura della nostra mente e noi
dovremmo parlare alla natura ultima della mente di chi ci ascolta.
Anche questa è una questione di consapevolezza, di presenza mentale.
È l’essenza di ciò che Buddha ha insegnato. Ma non è un qualcosa
che il Buddha ha creato, è qualcosa di universale, che è sempre
stato qui. Si tratta di qualcosa da scoprire per potersi liberare da
tutte le confusioni.
Questo è un punto
importante perché mostra come il titolo racchiuda in sé tutto il
contenuto del testo. Dobbiamo ricordarci sempre che l’essenza della
perfezione della saggezza è la natura della mente, che a sua volta è
la madre di coloro che hanno superato gli ostacoli, hanno ottenuto le
qualità positive, sono liberi dalle sofferenze.
Percezione profonda
Cominciamo il sutra:
Così una volta udii: Il Bhagavan dimorava a Rajgriha, presso il
Picco dell’Avvoltoio, con un gran numero di Arhat ed un gran numero
di Bodhisattva, ed a quel tempo il Bhagavan era entrato
nell’assorbimento meditativo sulla varietà dei fenomeni chiamato
“percezione profonda”.
Un’altra versione riporta “comunità di monaci” ma si intende
gli Arhat, tra cui vi erano gli ascoltatori. Poi vi erano i
Bodhisattva e altri. Se ‘’comunità di monaci” si riferisce ai
bikkhu, allora bikkhu significherebbe non-bodhisattva oppure
bodhisattva significa non-bikkhu. Questo concetto potrebbe causare
dei fraintendimenti, facendo sembrare i bodhisattva e i bikkhu come
due categorie che si escludono l’una l’altra. Invece, qui il
sangha, i bodhisattva e gli arhat potrebbero tutti essere in forma di
bikkhu.
Per percezione profonda
s’intende meditazione sulla vacuità.
In quello stesso tempo, l’arya Avalokiteshvara, il Bodhisattva
mahasattva, era assorto nella stessa pratica della profonda
perfezione della saggezza e vide che anche i cinque aggregati sono
vuoti di natura intrinseca.
Da qui inizia un altro
capitolo.
Quindi, tramite
l’ispirazione del Buddha, il venerabile bikshu Shariputra si
rivolse all’arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, e gli
disse: “Come deve addestrarsi un figlio o figlia del lignaggio dei
Bodhisattva, che desideri impegnarsi nella pratica della profonda
perfezione della saggezza?”.
Quando fu detto
questo, l’arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, rispose
al venerabile bikshu Shariputra e disse: “Shariputra, ogni figlio o
figlia del lignaggio dei Bodhisattva, che desideri impegnarsi nella
pratica della profonda perfezione della saggezza, dovrebbe vedere
chiaramente nel seguente modo; dovrebbero vedere distintamente che
anche i cinque aggregati sono vuoti di natura intrinseca.
Il capitolo finisce
qui. All’inizio si dice in quale occasione è avvenuta questa
discussione. Cominciamo da “Una volta ho sentito così, Così una
volta udii:”, poiché anche questa frase è considerata parte del
sutra. Questa frase, pur facendo parte del sutra, non è stata
pronunciata direttamente da Buddha.
Il
Sutra del Cuore non è incluso nel canone pali, nel buddismo
theravada,
poichè non rientra negli avvenimenti ordinari, ma fa parte degli
insegnamenti mistici: nonostante vi sia scritto che Buddha andò
sulla montagna dell’avvoltoio e vi tenne un discorso, in realtà
tutto ciò non è avvenuto in senso comune, non se ne ha la certezza.
Non si è sicuri del fatto che questo discorso sia storicamente
avvenuto nelle circostanze riportate e perciò questo insegnamento
viene considerato appartenente alla categoria di quelli mistici o
misteriosi.
In
occidente quando si parla di mistico, si pensa subito a qualcosa di
speciale, di superiore rispetto al resto. Qualcuno pensa che il testo
sia stato composto da Ananda, l’assistente del Buddha, ma non se ne
può essere sicuri. Potrebbe essere stato il Bodhisattva
Avalokiteshvara, dal momento che
i maha-yana sutra o bodhisattvayana sutra sono stati composti dal
Bodhisattva Avalokiteshavra, dal Bodhisattva Maitreya, dal
bodhisattva Manjushri, ecc. Secondo i sutra del maha-yana il Buddha
storico avrebbe avuto otto discepoli più vicini a lui, che erano
appunto gli otto bodhisattva, i quali, in un secondo momento,
avrebbero composto i sutra del maha-yana, di cui sono gli autori.
Questi otto Bodhisattva sono: il Bodhisattva Manjushri, il
Bodhisattva Vajrapani, il Bodhisattva Avalokitesvara, il Bodhisattva
Ksitigarbha, il Bodhisattva Sarvanivaranaviskambini, il Bodhisattva
Akasagarba, il Bodhisattva Maitreya, il Bodhisattva Samantabadra.
Generalmente tutti i sutra sono stati scritti dai tre discepoli
principali, realmente esistiti sul piano storico: Ananda,
Mahakasappa, Njevarkor (in tibetano). Invece, come abbiamo detto, i
sutra del maha-yana non hanno un riscontro storico e gli autori, gli
otto bodhisattva, non sono registrati da nessuna fonte storica e
anche questo fatto è una sorta di mistero;
probabilmente
furono discepoli monaci, forse apparsi come ascoltatori. Può darsi
che il Buddha, in virtù delle loro capacità misteriose, possa aver
impartito loro questi insegnamenti maha-yana.
Poi c’è un’altra questione, riguardante il Bodhisattva
Avalokitesvara, che si è soliti immaginare come la figura con
quattro braccia, undici teste, o come quella con 1000 braccia e 1000
occhi. In realtà non bisogna identificare il bodhisattva
Avalokitesvara del sutra né con questa né con quella figura,
giacché deve essere apparso sotto forma di monaco. Era un
ascoltatore, perché i monaci dovrebbero sempre avere l’apparenza
esterna di ascoltatori, e dentro, magari, possono essere bodhisattva.
Questo insegnamento segreto è il risultato di una speciale
comunicazione fra un discepolo, dalla forma esterna di monaco ma
interiormente Bodhisattva, e il Buddha. Così possiamo dire che
questo insegnamento proviene veramente dal Buddha.
Andare a fondo nel sutra del cuore è qualcosa di molto complicato,
tant’è vero che vi sono tantissimi commentari su di esso. Quando
recitiamo il sutra del cuore, possiamo visualizzare come si sviluppa
questa storia, come avviene il discorso, il contesto, così da avere
anche una pratica di visualizzazione.
Il sentiero dell’accumulazione
La
domanda di Shariputra riceve come risposta: i
cinque aggregati sono vacui, non hanno un’esistenza intrinseca.
Questo
è il primo passo per praticare la meditazione sulla saggezza. Fino a
questo punto, ‘’dovrebbero
vedere distintamente che anche i cinque aggregati sono vuoti di
natura intrinseca’’,
si descrive come praticare il primo dei cinque sentieri del
bodhisattva-yana. Quando si parla della pratica del bodhisattva,
bisogna sottolineare che deve essere sempre basata sulla motivazione
di bodhicitta. Basandoci su questa motivazione, la bodhicitta,
dovremmo meditare sui cinque aggregati, che sono i costituenti che ci
fanno esistere, che fanno sì che il nostro io esista, che noi stessi
esistiamo.
I cinque aggregati sono: la forma, la sensazione, la percezione, i
fattori composti, la coscienza. È facile dire che sono vacui, ma poi
quando si va a vedere che cosa sono questi cinque aggregati si
sconfina nel terreno dell’Abhidharma. Questi cinque aggregati sono
uno dei modi per classificare gli elementi che formano tutto ciò che
è esistente. Quando si parla di forma non s’intende solamente la
forma in senso comune e il colore, ma anche altri attributi. Le
sensazioni si identificano con le emozioni, quelle positive come
quelle negative, di cui tutti noi facciamo esperienza. Il
discernimento è un fattore mentale, è la capacità di giudicare le
cose giuste e sbagliate. Quella degli elementi composti è una
categoria che include tutto il resto dei fenomeni non facente parte
degli altri quattro aggregati: tutti i fattori mentali diversi dal
secondo e terzo aggregato. Il secondo e terzo aggregato sono dei
fattori mentali che sono stati specificati, mentre tutti gli altri
rientrano in questo quarto aggregato degli elementi composti. Il
quinto aggregato, il più importante, è la mente, è la coscienza.
Gli esseri umani non
hanno nulla che non possa essere ricondotto a questi cinque
aggregati. Se andiamo ad osservare questi cinque aggregati, possiamo
vedere come in essi non vi sia nulla di realmente esistente. Ed è un
modo, questo, per vedere come tutti i fenomeni siano vacui, privi una
loro esistenza autonoma.
Quando guardiamo qualcosa con gli occhi vediamo forme, colori.
Possiamo vedere un bel pizzetto. Ma quando guardiamo dal profondo
della meditazione non c’è pizzetto. Dovremmo imparare a vedere le
cose sia dal punto di vista convenzionale, sia dal punto di vista
della realtà ultima. Se tagliamo via il pizzetto, ci ritroviamo con
un po’ di peli in mano, e ci chiediamo: “Che cos’è questo?”.
È un pizzetto o no? Non è più un pizzetto, vero? Quindi c’è
qualcosa che va al di là di ciò che percepiamo al livello
convenzionale. Guardare attraverso gli occhi della profonda
meditazione significa vedere le cose in modo estremamente
dettagliato.
Fino
a questo punto si parla della maniera per praticare il primo dei
sentieri, quello dell’accumulazione. Il sentiero dell’accumulazione
ha tre passaggi diversi e anche tre tipi di pratiche mentali diverse:
la prima pratica è quella delle quattro contemplazioni vicine; la
seconda è quella dei quattro completi abbandoni; la terza è
costituita dalle quattro concentrazioni. Queste tre pratiche devono
essere eseguite in quest’ordine perché l’una porta a quella
successiva. Generalmente nel mondo occidentale si parla di vipassana,
che viene sviluppata attraverso sati
o consapevolezza. Questa pratica si basa sul Satipatana
sutra,
che dà le istruzioni per la pratica delle quattro contemplazioni
vicine. Spiegare il sutra del cuore è spiegare l’intero buddismo,
perché la pratica completa di vipassana, tutto il Satipatana sutra,
arriva solamente allo stadio delle quattro contemplazioni vicine. In
seguito, bisogna spiegare i quattro completi abbandoni e le quattro
concentrazioni, così da aver finito di parlare del primo sentiero,
quello dell’accumulazione.
Le quattro contemplazioni, corrispondenti alle quattro pratiche di
consapevolezza indicate nel Satipatana sutra, sono: la contemplazione
sul corpo, sulle sensazioni, sulla mente o coscienza, su tutti gli
altri fenomeni.
Finite queste pratiche, si passa ai quattro completi abbandoni che
coincidono principalmente con la perseveranza entusiastica, lo sforzo
gioioso, che riguarda lo sviluppo di nuove virtù. Dapprima si
abbandona la pigrizia per sviluppare la perseveranza entusiastica che
ci porta a generare nuove virtù. La seconda perseveranza riguarda
l’incremento delle virtù che si possiedono già. Poi bisogna
abbandonare la pigrizia che ci fa porre in essere nuove azioni non
virtuose e quella che, in modo simile, non ci fa sviluppare azioni
virtuose che abbiamo generato. Questi sono i quattro abbandoni.
In terzo luogo vi sono le quattro concentrazioni: la concentrazione
sull’aspirazione, la concentrazione sulla perseveranza
entusiastica, la concentrazione sul pensiero, poi quella
sull’analisi. Queste concentrazioni vengono tutte attuate con
l’aiuto della profonda visione e le sei perfezioni sono la sintesi
di tutte le pratiche.
Il sutra della
saggezza, fino al punto in cui si parla dell’assenza di esistenza
intrinseca nei cinque aggregati, corrisponde dunque al primo dei
cinque sentieri del pratica del bodhisattva, cioè il sentiero
dell’accumulazione.
Basandoci sulla bodhicitta, dobbiamo poi sviluppare le tre pratiche:
quella delle quattro contemplazioni vicine, quella dei quattro
abbandoni completi, quella delle quattro concentrazioni. Quest’ultima
è anche conosciuta con il nome di “quattro gambe miracolose”.
Per
questo bisogna studiare l’Abidharma
(Abidharmakosa di Vasubhandu e Abidharmasamuccha di Asangha),
conoscere i cinque aggregati, la Madhyamaka
(essenzialmente di Nagarjuna e Chandrakirti), la vacuità, il
Prajnaparamita
(principalmente l’Abhisamayalamkara di Maitreya) che ci spiega in
dettaglio come procedere in queste quattro pratiche. In questo modo
quando leggeremo “i cinque aggregati sono vuoti di natura
intrinseca” potremo praticare tutte queste cose per sviluppare la
bodhicitta, per suscitare la quale è molto utile il Bodhicaryavatara
di Shantideva, così come molti altri testi che descrivono la
bodhicitta.
Spiegare il sutra del
cuore è qualcosa di molto complicato, ma al contempo molto bello.
II Parte(14 Dicembre 2003)
II Parte(14 Dicembre 2003)
Dharma semplice
La mente virtuosa o
l’attitudine virtuosa che sorge nel nostro cuore è rara ed è come
un fulmine, un lampo nella notte; dovremmo considerare il nostro
incontro di Dharma come un’occasione importante per riscaldare il
nostro cuore. Dedicare se stessi a questa attività è un gesto
significativo.
Generalmente noi collochiamo questo tipo di attività all’ultimo
posto nella lista delle cose che abbiamo in programma da fare. È per
questo che questa pratica viene svolta solitamente di domenica, il
giorno in cui facciamo le cose che sono rimaste per ultime nella
nostra lista! Ma lo svolgimento di questa attività di domenica non è
intenzionale, è piuttosto dovuto alle condizioni che ci circondano,
non è motivato solo dalla decisione del singolo, ma anche basato
sulla struttura sociale. A livello sociale, infatti, la pratica
spirituale, la pratica del Dharma, è giudicata superflua, poco
importante, spesso manca del tutto. Dipende dall’individuo
organizzare il proprio tempo in modo tale da farvi rientrare anche
tali eventi. È interessante notare come la domenica sia il giorno in
cui il governo lascia liberi per poter andare a messa.
Quando
ero in Nepal il giorno di festa era il sabato e il venerdì era festa
per mezza giornata. Il venerdì pomeriggio, a scuola, facevano dei
gruppi di dieci bambini ciascuno, ad ogni gruppo veniva data una
saponetta e nel pomeriggio si andava al fiume, dove bisognava lottare
per riuscire a prendere questa saponetta con cui potersi lavare.
Quindi il venerdì era il giorno dedicato alla cura del corpo, mentre
il sabato era un giorno di festa vera e propria, per rilassarsi e
svagarsi. Ogni sabato mia madre mi dava 50 paisa,
l’equivalente di cinquanta centesimi ed io, non so perché, andavo
dal mio villaggio all’aeroporto. Tornando mi fermavo ad un
ristorante nepalese dove con questi soldi mi prendevo un po’ di tè
e un piccolo dolcetto. Quando invece sono andato nel monastero, in
India, il giorno di riposo era il lunedì. Penso che in India il
giorno festivo sia generalmente la domenica,
mentre nella nostra zona era il lunedì, perché a Mundgod
il lunedì era il giorno di mercato, durante il quale da tutti i
posti circostanti venivano i contadini a vendere le verdure. Quando
ero al monastero il lunedì era un giorno molto prezioso.
Quando sono venuto qui
in occidente ho trovato la domenica quale giorno festivo, anche se
per me è festa tutti i giorni! Domenica perché è la giornata in
cui i cristiani vanno a messa. Dunque le vacanze dipendono dalle
diverse situazioni, dalle usanze del posto. Non so perché in Nepal
il giorno festivo sia il sabato, ma forse è perché nel calendario
tibetano la domenica è il primo giorno della settimana, mentre
l’ultimo, secondo il calendario lunare, è il sabato. Anche gli
ebrei hanno il sabato come giorno festivo.
I
tibetani vanno al monastero in occasioni speciali: il novilunio ,
quando la luna è a metà, il plenilunio. Solitamente sono importanti
per la pratica del dharma, per la meditazione,
il primo giorno del mese, il 15 del mese e l’ultimo giorno, cioè
il 30. Tali giorni sono significativi perché si ritiene che al
cambiare della luna corrispondano dei cambiamenti nel nostro mondo
interiore, dei momenti in cui vi sono maggiori opportunità per
espandere le nostre realizzazioni, la nostra sapienza. Per chi
pratica il puja per Tara è fondamentale l’ottavo giorno del mese,
per chi pratica il puja per Padmasambawa il decimo giorno, per chi
pratica il puja per Jey Tsongkhapa il venticinquesimo. Poi ve ne sono
molti altri, è una cosa molto simile ai santi nel calendario
occidentale. Ma per tutti sono importanti il primo, il quindicesimo e
l’ultimo giorno mensile e ciò è valido per i tutti praticanti
spirituali, di qualsiasi fede religiosa.
Mia madre è molto devota ed è molto brava nel seguire tutti questi
impegni, ha un’ottima consapevolezza, una buona perseveranza
entusiastica, una buona compassione, una buona pazienza, una buona
concentrazione, forse non un’ottima saggezza. Ma ritengo che sia
molto più importante avere una saggezza sufficiente e possedere una
buona compassione, una buona pazienza, piuttosto che avere una grande
saggezza, ma poca compassione, poca pazienza. Mio padre è una
persona molto intelligente, impara tutto subito, però, non possiede
tantissima pazienza e ha poca perseveranza entusiastica. Quindi la
pratica dei miei genitori è un po’ diversa: mio padre pratica piu’
di mattina, finché non arriva la colazione in tavola; mentre aspetta
che mia madre abbia finito di preparare la colazione fa puja e
meditazione, ma una volta fatta colazione se ne va. Ovviamente sto
scherzando un po’ sui miei genitori!
Mia madre dal momento
in cui apre gli occhi la mattina fino a quando li chiude la sera,
continua a praticare la meditazione, a fare offerte, preghiere, a
prescindere da qualsiasi cosa stia facendo, durante qualsiasi
attività continua a portare avanti la pratica. Questa è secondo me
una pratica di livello veramente alto.
Una buona pratica non
significa stare seduti in posizione meditativa con un’espressione
concentrata sul volto, si tratta di continuare la pratica durante
ogni momento della nostra vita, durante ogni attività intrapresa.
Per questo si dice che la saggezza è una buona cosa, ma la pazienza
e la perseveranza sono più importanti per portare avanti la pratica
spirituale. Una saggezza sufficiente è abbastanza.
Mia madre si ricorda
sempre di tutte queste occasioni importanti, senza mai dimenticarne
nessuna. Un’altra offerta particolare consiste in alcune lampade
che vengono tenute accese giorno e notte, senza interruzione. Non è
solo una questione di luce, rappresenta tutta la pratica: la
generosità, la pace, la concentrazione, la pazienza, l’offerta da
fare la mattina, quella da fare la sera, il mantenere pulito questo
luogo speciale.
Come si fa a praticare
il Dharma? Qui in occidente a volte si pensa che la pratica consista
nel mettersi seduti in un luogo molto bello a meditare, recitando
sutra, ascoltando della bella musica, con dell’ottimo cibo. In quel
momenti si dice: “Stiamo meditando”. Per un po’ questo è
bello, ma la pratica quotidiana deve essere integrata alla nostra
vita e ciò è estremamente difficile, ma se ci riusciamo vi sarà
una perfetta compenetrazione fra le due entità, la nostra vita
quotidiana diventerà la nostra pratica e la nostra pratica diventerà
la nostra vita quotidiana, non vi sarà più differenza fra esse.
Questi
piccoli rituali come offrire incenso o preparare l’altare hanno a
che fare con la pratica delle sei Paramita,
l’essenza del Dharma; talvolta però possono divenire pericolosi e
a tal proposito vi è la storia di Geshe Ben Kun Je. Costui era un
bandito che poi era divenuto un grande yogi e viveva in eremitaggio.
Un giorno un suo sostenitore stava per venirlo a trovare e allora
preparò un altare molto decorato, vi recò molte offerte per
poterglielo mostrare. Poi si mise ad attendere questo sostenitore, ma
ad un certo momento si rese conto che quanto aveva preparato era
Dharma mondano e perciò uscì, prese della polvere e la gettò
sull’altare, rovinando tutte le offerte. Nello stesso momento in
cui fece questo gesto nel Sud dell’India vi fu un importante yogi
chiamato Fa
Dam Pa San Gye,
che disse a un suo discepolo: “In questo momento un Geshe ha
compreso l’inutilità del Dharma mondano, è riuscito a tirare
della polvere sul Dharma mondano”. Questo non è facile, lo stesso
Fa
Dam Pa San Gye, che
era considerato un grande yogi, ne rimase sorpreso. Tale avvenimento
costituì un riconoscimento molto importante per questo yogi tibetano
Geshe Ben Kun Je. La pratica di Geshe Ben Kun Je era molto semplice,
in quanto era stato un bandito e di conseguenza non era molto
erudito, non era uno studioso. La sua pratica consisteva
nell’osservare la sua mente, tenerla sotto controllo: osservava se
ciò che vi si manifestava era positivo o negativo. Quando sorgeva un
aspetto positivo nella mente metteva un sassolino bianco, quando
sorgeva uno negativo metteva un sassolino nero e trascorreva così
tutto il tempo. La sera li contava e vedeva quanti sassolini bianchi
vi fossero e quanti neri. All’inizio ce n’erano molti neri e
pochi bianchi. Poi, gradualmente, giorno dopo giorno, quelli neri
divennero sempre di meno e quelli bianchi sempre di più. Un modo
molto pratico.
Ka Dam Pa
Dunque
per praticare il Dharma non è necessario conoscere tutti i sutra, i
mantra, i tantra, ecc…basta vedere la pratica di mia madre e di
Geshe Ben Kun Je. Non si deve pensare di non saper praticare il
Dharma perché non si hanno delle grandi conoscenze filosofiche, non
si sa abbastanza: praticare il Dharma è qualcosa di naturale,
essendo nati come esseri umani si possiedono già tutte le dotazioni
necessarie per praticarlo. Questo è un punto fisso ed essenziale che
caratterizza la tradizione Ka
Dam Pa. Ka
significa insegnamento di Buddha, Dam
consiglio, quindi la Ka Dam Pa è la tradizione che si basa nel dare
in pochi consigli quelli che sono gli insegnamenti del Buddha. Ma
oggi Ka
Dam non
si riferisce solo agli insegnamenti di Buddha, ma a tutti gli
insegnamenti di tutte le religioni e tradizioni spirituali di tutto
il mondo, a qualsiasi buon consiglio, ad ogni sistema d’istruzione.
Ka
Dam Pa
è una parola molto significativa, che indica umiltà e armonia,
significa in un certo senso “abbassarsi”. La tradizione Ka
Dam
è basata sugli insegnamenti di Atisha. Il primo Geshe di questa
tradizione fu Drom
Ton Pa,
da cui è scaturita la tradizione basata sugli insegnamenti Lam
Rim
e Lo
Jong.
È in questo contesto che è nato anche il termine Geshe,
utilizzato per riferirsi con rispetto ai propri amici spirituali,
fratelli spirituali. Per questi motivi Ka
Dam
è un buon termine e indica colui che prende qualsiasi buon
consiglio, ovunque, per portare avanti la sua pratica spirituale.
Vi
sono tre correnti Ka
Dam.
La prima è Ka Dam Lam Rim Pa: si tratta di praticanti Ka
Dam
che si basano soprattutto sui testi o sugli insegnamenti intitolati
Lam
Rim.
Oggi ci sono principalmente otto testi concernenti il Lam
Rim, intitolati
Lam
Rim.
Il primo è il testo di Atisha, “La lampada che illumina il
sentiero verso l’Illuminazione”; poi vi sono i tre testi Lam
Rim
scritti da Lama Tsong Khapa, il grande, il medio e il piccolo,
intitolato “Frasi di esperienza”; poi vi sono altri commentari
fatti da vari Dalai Lama o Panchen Lama e comunque altri testi Lam
Rim.
Quindi se fossimo Ka
Dam
che si basano su testi Lam
Rim,
ci chiameremmo Ka
Dam Lam Rim Pa.
Poi
abbiamo i Ka
Dam Shung Pa Wa,
un tipo di praticante Ka
Dam che
si basa sulle Scritture. Si tratta di un erudito che basa la propria
pratica sullo studio di sutra, di commentari, di vari testi tibetani.
Tutte le varie Scritture sono sintetizzate in ciò che viene studiato
nel monastero, cioè i cinque trattati sul buddismo: Pramana,
logica ed epistemologia; Prajnaparamita,
la
perfezione della saggezza; Madhyamika,
la
via di mezzo; Abidharma,
metafisica o studio dei fenomeni; Vinaya,
il codice monastico. Come si vede non c’è il tantra, in quanto per
divenire geshe non c’è bisogno di tantra, il tantrismo non è
incluso nel curriculum monastico delle università monastiche
tibetane, che sono Gan
Den,
Dre
Pung
e
Se
Ra.
Se si studiano bene questi cinque trattati, i testi tantra-yana
diventano facilmente comprensibili, anche solo attraverso una
semplice lettura. Se invece non si ha una profonda conoscenza di
questi trattati, di questi argomenti, e si affronta lo studio del
cosiddetto più alto tantra, non si capirà niente, ci si limiterà
solo a dire: questo ha tre teste, un occhio qua, uno là, ma non si
comprenderà nulla del significato, non si capirà l’essenza.
Vi è un detto tibetano: “La ricchezza del Thud (un dolce al
formaggio tibetano) risiede nel burro che vi è dentro: senza
aggiungervi burro il Thud sarebbe semplicemente un pezzo di formaggio
secco. La ricchezza del mantra risiede nel suo fondarsi sul sutra.
Senza sutra, il mantra sarebbe semplicemente un suono come Hum Hum
Phad Phad”.
Infine,
per terzo, abbiamo Ka
Dam Men Ngag Pa, cioè
colui che fonda la sua pratica solo su insegnamenti, istruzioni
orali. Ciò significa che questo tipo di praticante non legge nessun
testo, ma solamente ascolta gli insegnamenti del suo maestro e
pratica. Come si è detto, Ka
Dam
è
una tradizione che prende origine da Atisha, maestro proveniente dal
Bangladesh.
Il
discorso fatto sulla tradizione Ka
Dam
non è un tentativo di creare delle categorie, bensì di mostrare
come sia possibile praticare in modi diversi. Mia madre è Ka Dam Men
Ngag Pa, perché segue solo gli insegnamenti orali, impara tutte le
preghiere da mio padre, memorizzando ogni giorno tre o quattro righe
in più. È una cosa molto particolare, che mi ha sorpreso. Quando
c’è qualche nuova preghiera, mio padre gliela legge e lei la
memorizza ed è poi in grado di ripeterla. Questi praticanti Ka
Dam
si esercitano tutti in modi diversi, ma la loro pratica è ugualmente
valida.
Apprezzo
molto la tradizione Ka
Dam,
il suo approccio semplice ed umile alla pratica del Dharma; i Ka
Dam
trattano tutti ugualmente e non pensano mai di essere superiori agli
altri, il loro stesso nome, Ka Dam, è molto semplice ed indica
rispetto verso ogni cosa, verso ogni buon consiglio. Se si guarda ai
grandi Geshe del passato di questa tradizione, si può vedere come
siano stati dei grandi yogi umili. Questa tradizione è molto adatta
alla nostra società occidentale odierna. Non è una tradizione
rivolta solo ai monaci ed infatti il primo Geshe era laico ed è
stato comunque considerato il fondatore della tradizione Ka Dam, si
chiamava Drom Ton Pa e fu discepolo di Atisha.
Non ci sono requisiti particolari per accedere alla pratica di questa
tradizione, basta essere persone normali, molto semplici e umili,
dedite all’arricchimento della mente. Non vi sono neppure
iniziazioni, ritiri, mantra. Proprio per questo l’approccio al
Dharma di questa tradizione sorta nel X o XI secolo in Tibet è molto
adatto alle caratteristiche della società occidentale. Questa
tradizione ispirata dagli insegnamenti di Atisha si è manifestata in
una forma di pratica adatta al Tibet di quell’epoca, durante la
quale, forse, la società tibetana era molto avanzata.
Bisogna capire cos’è
il Dharma e qual’è il modo di praticarlo. Adesso tratteremo il
sutra del cuore. Prima abbiamo parlato di come praticare il Dharma in
una maniera molto pratica, ad un livello che può essere molto
diffuso e popolare. Penso che sia stato importante perché
concentrandosi troppo sui sutra o su temi molto complicati si rischia
di perdere la vera essenza, il modo di praticare il Dharma nel
contesto della nostra esistenza, della nostra situazione. Inoltre
l’argomento di questo sutra è analogo a ciò che di cui si è
appena discusso, dal momento che affronta il tema di che cos’è il
Dharma e come bisogna praticarlo.
Il Sutra del Cuore e il Kalachakra Tantra
Il
Sutra del Cuore è un insegnamento che, come si è detto, è stato
dato dal Buddha sul Picco degli Avvoltoi, nel nord dell’India, ed è
il secondo dei tre giri dati alla ruota del Dharma. Si dice che nello
stesso momento in cui stava impartendo l’insegnamento sul Sutra del
Cuore, il Buddha fosse anche nel Sud dell’India, dando gli
insegnamenti sul Kalachakra
Tantra.
Questa è una leggenda della tradizione maha-yana or vajra-yana, ma
se guardiamo i testi circa la vita e gli insegnamenti del Buddha
della tradizione theravada non troviamo questi insegnamenti, i quali
appartengono ad una parte della vita del Buddha segreta, misteriosa.
Tra i buddisti vi sono molti che non credono a queste cose, ma
possono essere tuttavia dei grandi praticanti di Dharma, dei grandi
praticanti buddisti. Spesso davanti a questo genere di cose le
persone vedono delle contraddizioni nel mondo buddhista che in realtà
non sussistono, perché questo è il modo in cui il Buddismo si è
sviluppato nel mondo e queste sono state le capacità particolari che
il Buddha ha utilizzato per fare in modo che il suo insegnamento
potesse recare veramente beneficio a tutte le persone. Il suo scopo
non era quello di promuovere la sua filosofia o il suo punto di
vista, ma quello di aiutare gli altri. Perciò se in quel tempo vi
fosse stato il Cristianesimo o l’Islam, il Buddha avrebbe potuto
insegnare la dottrina cristiana o musulmana per recare beneficio agli
altri, poiché qualsiasi cosa che è di beneficio agli altri è da
considerarsi buona. È un fatto oggettivo, non soggettivo.
Non è facile capire cosa sia il Buddismo. Il Buddismo è la ricerca
della liberazione e di conseguenza non significa attaccarsi ad un
punto di vista e fissarsi su di esso; la pratica del Buddismo,
chiamata Dharma, è volta principalmente a recare beneficio agli
altri. Per questo i Bodhisattva possono praticare ed imparare
qualsiasi cosa che sia di beneficio agli altri. In alcuni sutra si
dice che i Bodhisattva possono imparare tutti i diversi sentieri,
possono realizzare tutti questi diversi sentieri, possono praticare
tutti questi diversi sentieri per poter aiutare tutte le diverse
persone, a seconda delle capacità di comprensione e delle
inclinazioni mentali di quest’ultime. Questo è il Buddismo. Non è
in contraddizione con le altre religioni ed al suo interno vi sono
delle posizioni apparentemente contraddittorie che però collaborano
insieme per recare beneficio ad una vasta gamma di persone. Vi è
democrazia, unità. C’è da stupirsi se si pensa che nel Buddismo
alcuni credono nel Sutra del Cuore, altri credono nel kalachakra,
certi in entrambi, etc…
In
conclusione, secondo il Buddismo tibetano, che nella società
occidentale è conosciuto sotto il nome di vajra-yana,
mentre il Buddha stava dando l’insegnamento del Sutra del Cuore sul
Picco degli Avvoltoi, stava anche insegnando Kalachakra in
Danakataka,
nel sud dell’India. È difficile comprendere cosa sia il Dharma e
come vada praticato.
E’
importante comprendere come vi siano molte diversità all’interno
del Buddismo, ma come tutti pratichino il Dharma; ognuno ha il suo
punto di vista, il suo modo di avvicinarsi al Dharma, ma tutti
praticano lo stesso Dharma ed è per questo che appartengono al
medesimo sentiero spirituale. Se è un modo di recar beneficio a
qualcun altro, di portare rispetto a qualcun altro, allora non vi è
nulla di male nel recitare il Sutra del Cuore, anche se non dovessi
crederci: il punto non è se ci si crede o meno,
ma
se questo può essere di aiuto agli altri.
Tre tipi di Buddha
Il
Sutra del Cuore rientra nei testi importanti del Lam
Rim,
fa parte degli stadi del sentiero, è basato sui cinque principali
stadi del sentiero verso l’Illuminazione. Questi cinque sentieri,
come si è detto, sono: il sentiero dell’accumulazione, il sentiero
della preparazione, il sentiero della visione, il sentiero della
meditazione e il sentiero della fine dell’apprendimento, che è il
percorso dell’Illuminazione.
Questo
insegnamento è stato trasmesso agli Shravaka
e ai Pratyeka-buddha.
Si può pertanto dire che non fu impartito solo ai Bodhisattva, che
sono i praticanti del grande veicolo, ma anche a praticanti diversi,
che seguono il veicolo della liberazione individuale.
Il tema principale di questo sutra è la vacuità, la natura ultima
della realtà. Ma il modo in cui la vacuità viene spiegata passa
attraverso la spiegazione dei cinque sentieri che portano alla
liberazione: i cinque sentieri del praticante bodhisattva, i cinque
sentieri degli ascoltatori o shravaka, i cinque sentieri dei
praticanti solitari o pratyekabuddha. Ci sono in tutto quindici
sentieri diversi, cinque per ciascuno dei tre praticanti.
L’obiettivo
che si propongono shravaka e pratyekabuddha è la liberazione
individuale, mentre quello dei bodhisattva è l’Illuminazione
completa. In entrambi i casi, per raggiungere tale meta è
indispensabile la realizzazione della vacuità. Per ognuno di questi
tipi di pratiche vi sono un metodo e una saggezza che vengono
applicati. Nei primi due casi, cioè nei casi in cui lo scopo finale
è la liberazione individuale, il metodo è la rinuncia, mentre nel
caso della via del Bodhisattva il metodo è la bodhicitta. Tuttavia,
in tutti i tre casi, la saggezza è la stessa: è la saggezza che
realizza la natura ultima dei fenomeni. Il metodo comune a questi tre
tipi di praticanti esiste ed è la compassione e la gentilezza
amorevole, che sono l’altra faccia della rinuncia e sono la
manifestazione dinamica di bodhicitta. Quindi, per quanto riguarda il
metodo e la saggezza che caratterizza tali sentieri spirituali,
possiamo dire che si tratta della stessa nozione, ma applicata a
livelli diversi. Per quanto riguarda l’aspetto della saggezza, il
sentiero degli shravaka ha una approccio alla saggezza minore, mentre
l’approccio dei pratyekabuddha è un approccio intermedio, infine
l’approccio dei bodhisattva alla saggezza è del livello più alto.
Per quanto riguarda l’aspetto del metodo, la rinuncia, questa è
l’applicazione della compassione con dei limiti; da
questo punto di vista gli shravaka sono simili ai pratyeka buddha,
mentre i bodhisattva possiedono la bodhicitta che è il massimo
livello di altruismo, gentilezza amorevole, compassione e rinuncia.
Ora
abbiamo una chiara comprensione di quali sono i due aspetti
complementari che possono permettere ai tre tipi di praticanti
diversi di raggiungere (o)
la liberazione individuale o l’Illuminazione completa. Questa è
una premessa fondamentale per riuscire a seguire in maniera corretta
il commento del testo.
È importante capire i
cinque aspetti del sentiero che conduce alla liberazione individuale
o all’Illuminazione per poterli inserire nel discorso sul metodo e
la saggezza.
Il percorso dell’accumulazione non è facile. Il modo per misurare
quanto ci siamo addentrati nel sentiero dell’accumulazione è il
livello di pura rinuncia che abbiamo raggiunto. Nel caso del sentiero
del bodhisattva un modo per svilupparla è quello di cercare di
sviluppare bodhicitta. Quando abbiamo sviluppato una pura rinuncia,
ma non bodhicitta, allora siamo entrati nel sentiero shravaka o
pratyeka. A volte è possibile sviluppare bodhicitta e far sorgere
spontaneamente anche la rinuncia. In questo caso si entra
direttamente nel percorso del bodhisattva.
Per
poter entrare in uno di questi sentieri, sia che si tratti di quello
degli
shravaka
sia di quello degli pratyekabuddha o dei bodhisattva, non c’è
bisogno di aver sviluppato la vacuità, né di averla realizzata.
Il sentiero
dell’accumulazione è dunque lo sviluppo della pura rinuncia e
bodhicitta, non è necessario, per poterlo percorrere, aver ottenuto
la realizzazione della vacuità. Il sentiero dell’accumulazione è
il momento in cui si studia la vacuità mediante studio e letture.
Vi sono tre fasi nello studio, nello sviluppo, nella realizzazione
della vacuità: la fase dell’ascolto degli insegnamenti; la
contemplazione; la meditazione. Quindi la realizzazione, la
comprensione della vacuità ha tre stadi: il primo è accumulare,
ascoltare, studiare, comprendere cosa è la vacuità. In questo
momento sono importanti le prime due fasi dell’apprendimento, cioè
l’ascolto o lo studio e la contemplazione, la riflessione.
Pertanto, il sentiero dell’accumulazione è il momento in cui
vengono poste in essere queste prime due fasi dell’apprendimento.
Come viene indicato nel testo, la prima parte del percorso
dell’accumulazione, dopo aver sviluppato la rinuncia e la
bodhicitta, consiste nell’iniziare ad ascoltare gli insegnamenti
sulla vacuità e a riflettere sul significato di tale concetto.
Questo
discorso corrisponde alle righe nel Sutra del Cuore in cui viene
formulata la domanda:
“Come
deve addestrarsi un figlio o figlia del lignaggio dei Bodhisattva,
che desideri impegnarsi nella pratica della profonda perfezione della
saggezza?” che
concerne il modo in cui sviluppare questi due aspetti del sentiero
verso la liberazione individuale o l’Illuminazione.
Poi
viene la risposta: “Shariputra,
ogni figlio o figlia del lignaggio dei Bodhisattva, che desideri
impegnarsi nella pratica della profonda perfezione della saggezza,
dovrebbe vedere chiaramente nel seguente modo: dovrebbe vedere
distintamente che anche i cinque aggregati sono vuoti di natura
intrinseca”.
Riflettere
su quest’ultima frase, cioè sul fatto che “i
cinque aggregati sono vuoti di natura intrinseca”, fa parte del
sentiero dell’accumulazione.
Il sentiero della preparazione
La
seconda parte della risposta indica il modo in cui si può riflettere
su questa prima frase, secondo quattro modalità diverse. Si entra
maggiormente nel dettaglio su come riflettere circa la vacuità dei
cinque aggregati. Si dice che il tuo corpo è vacuo e la vacuità è
il tuo corpo, il tuo corpo non è altro che la vacuità e la vacuità
non è altro che il tuo corpo o :
“La
forma è vuota, la vacuità è forma; la vacuità non è altro che
forma, la forma non è altro che vacuità. Allo stesso modo sono
vuote le sensazioni, le percezioni, le formazioni mentali e la
coscienza.”
Questi quattro modi
diversi di riflettere sulla vacuità appartengono al sentiero della
preparazione. Quando si legge questo testo non si avverte
immediatamente la distinzione in cinque fasi diverse, perché si
parla sempre di vacuità, il testo è relativamente breve, non si
vedono molte differenze, sembra che si rimanga sempre su uno stesso
discorso. Invece con l’aiuto di queste cinque fasi possiamo
percepire come sia progressivo il modo che il testo ha di proporre,
di consigliare la pratica di avvicinamento a tale realizzazione.
Quando leggiamo la prima frase, che dice che i cinque aggregati sono
vacui, questo è un modo breve, sintetico per avvicinarsi alla
vacuità, specialmente con riferimento alla vacuità del sé. Dire
che i cinque aggregati sono vacui è un modo molto sintetico di
definire la vacuità degli aggregati ed è un modo molto conciso di
presentare la riflessione su di essi.
Quando
si leggono queste righe la profondità della comprensione raggiunge
solo il livello dello studio, della riflessione, non raggiunge il
livello della meditazione. Dopo la prima fase di accumulazione, in
cui si studia, si impara, si comprende cos’è la vacuità, si
raggiunge il secondo gradino, quando si dice :
“La
forma è vuota, la vacuità è forma; la vacuità non è altro che
forma, la forma non è altro che vacuità”.
In questo momento si va più in profondità nell’osservazione della
vacuità della forma e questo significa che siamo entrati nel livello
della meditazione. A questo punto si entra nel sentiero della
preparazione.
Come si passa ora dal percorso dell’accumulazione al percorso della
preparazione? Questo passaggio è determinato solamente dal livello
di realizzazione della vacuità raggiunto. All’inizio si ha una
visione strettamente intellettuale di cosa sia la vacuità, poi
attraverso una meditazione si comincia a vedere questa vacuità, si
comincia a realizzarla, non ad alto livello, poiché questa
realizzazione è ancora piena di punti d’ombra, di cose non chiare,
ma comunque si inizia a percepire cosa sia la vacuità. Solo
attraverso la meditazione si può pervenire alla realizzazione, la
meditazione samatha (che è la meditazione su un unico punto) e
vipassana (che è l’analisi della vacuità). Attraverso l’unione
di samatha e vipassana si può raggiungere la realizzazione della
vacuità.
Una volta ottenuta tale
realizzazione, si raggiunge il sentiero della preparazione. Per cosa
ci stiamo preparando? Ci stiamo preparando a vedere la vacuità, ci
stiamo preparando al sentiero della visione, intesa come un vedere in
maniera intuitiva, chiara, diretta. Dunque il percorso della
preparazione dura fino al momento in cui si percepirà
spontaneamente, direttamente la vacuità.
Adesso abbiamo visto
chiaramente quali siano le caratteristiche del sentiero
dell’accumulazione, del percorso della preparazione e del percorso
della visione.
Il percorso
dell’accumulazione ha tre fasi: una iniziale, una intermedia ed una
avanzata. Nella prima fase dovremmo praticare le quattro
consapevolezze vicine: consapevolezza del corpo, consapevolezza delle
sensazioni, consapevolezza della mente, consapevolezza degli aspetti
positivi e negativi dei fenomeni. Questo è il modo per preparare una
solida base per l’arrivo di tutte le realizzazioni future.
Per poter praticare
bene queste quattro consapevolezze è necessario basarsi sulle
Quattro Nobili Verità, che sono fondamentali.
Come seconda parte del sentiero dell’accumulazione dovremmo
praticare le quattro perseveranze.
In terzo luogo ci sono
le quattro concentrazioni.
Quindi è molto
importante lo sviluppo della consapevolezza, della perseveranza,
della concentrazione, che sono fondamentali per espandere le nostre
realizzazioni nel futuro. Inoltre queste tre cose ci danno una forza
dinamica che ci permetterà di far sviluppare il sentiero della
preparazione per poter capire, realizzare la vacuità.
Nel
percorso dell’accumulazione vi è però un altro aspetto
riguardante il metodo, la bodhicitta. Lo sviluppo di bodhicitta è
reso attraverso tre metafore: bodhicitta come il terreno, bodhicitta
come l’oro, bodhicitta come la luna(,
la luna)
del primo giorno. Tali esempi rappresentano l’incrementarsi di
bodhicitta durante il sentiero dell’accumulazione.
Bodhicitta come terreno
rappresenta la bodhicitta che fornisce una valida base per
l’incremento della realizzazione. In questo primo momento, però,
la bodhicitta potrebbe anche decrescere, diminuire.
Quando si raggiunge,
invece, il secondo livello, cioè la bodhicitta come l’oro,
significa che ormai la bodhicitta non cambia più, non può più
diminuire (in quanto l’oro è inalterabile).
Il terzo livello, la
bodhicitta come la luna del primo giorno, significa che da questo
momento la bodhicitta aumenterà sempre, proprio come la luna del
primo giorno che cresce sempre.
Per riassumere: nel sentiero dell’accumulazione, con riferimento al
percorso del bodhisattva, quando si acquisisce la bodhicitta come il
terreno, questo è il momento in cui entriamo nel percorso maha-yana
del bodhisattva. Per aumentare questa bodhicitta vi è la pratica
delle quattro consapevolezze che sviluppa la bodhicitta facendola
divenire bodhicitta simile all’oro; in seguito, la pratica delle
quattro perseveranze la espande ulteriormente, facendola diventare
bodhicitta come la luna del primo giorno; infine la pratica delle
quattro concentrazioni l’espande al punto tale da raggiungere il
sentiero della preparazione, in cui la bodhicitta è come il calore.
Questo rafforzamento di bodhicitta attraverso le tre quadruplici
pratiche è ciò che ci permette di avere una comprensione sempre più
approfondita della vacuità. La meditazione sulla vacuità, pratica
che è simultanea a quella delle tre quadruplici pratiche, ci aiuta a
passare dal sentiero dell’accumulazione a quello della preparazione
e automaticamente a generare una bodhicitta che è come il calore.
Quindi l’ottenimento
della bodhicitta come il calore, la realizzazione della vacuità e
l’entrata nel sentiero della preparazione avvengono nello stesso
momento, simultaneamente.
III Parte
(14 Marzo 2004)
Lo Jong
Stiamo tentando di
sviluppare una comprensione approfondita sul Sutra del Cuore, per
poter capire la realtà ultima o verità ultima dei fenomeni
esistenti.
Lo strumento da utilizzare per tale comprensione è il Dharma, che è
un termine molto conosciuto, molto diffuso oggigiorno, utilizzato sia
all’interno del Buddismo sia all’interno della pratica Induista e
che viene usato anche in altre tradizioni religiose per indicare una
soluzione ai problemi quotidiani.
All’interno della
filosofia buddista il Dharma indica la natura ultima dei fenomeni,
denominata vacuità. Con riferimento al Dharma si parla anche di
Nirvana, intendendo per questo la vacuità della mente che è
riuscita ad arrivare la di là di ogni sofferenza. Quindi il Dharma e
il Nirvana sono strettamente collegati.
Il motivo per cui possiamo sviluppare il Dharma e il Nirvana risiede
unicamente nella nostra mente. La mente possiede la caratteristica
innata di sentire spontaneamente un senso di Io,
di Mio. Se non vi fosse questa naturale tendenza a sviluppare un’idea
di Io e di Mio, allora non sorgerebbe nessun problema, nessuna
sofferenza. La filosofia buddista propone un approccio basato
sull’osservazione di questa tendenza umana a concepire l’esistenza
di un Io e di un Mio: l’oggetto base della pratica è lo studio dei
motivi che ci spingono a seguire la tendenza a percepire un’idea di
Io e di Mio.
Nella
pratica del Lo
Jong,
che unisce tutti gli insegnamenti sul Lo
Jong,
si dice nel primo verso che bisogna dare la colpa di tutti i problemi
ad una sola cosa:
l’attaccamento
al sé. Dal momento che abbiamo questa naturale tendenza a credere in
un Io, iniziamo ad attaccarci a questa figura e pensiamo “Io devo
essere felice, Io devo essere contento, etc…”. L’oggetto di
quest’attaccamento è appunto l’Io, unito all’idea di Mio.
Risolvere i problemi non significa risolverli uno per uno, perché
ciò sarebbe impossibile, non basterebbe la nostra vita intera, dal
momento che i problemi sono migliaia. Per questo alcune persone
intelligenti consigliano di tagliare l’origine dei problemi, di
sradicare il fondamento dei problemi, in modo tale che non possano
germogliare i suoi rami e frutti. La radice di tutti i problemi è
appunto l’attaccamento al sé. Per riuscire a liberarcene, bisogna
innanzitutto andare alla ricerca e analizzare quello che noi
chiamiamo Io. Non è sufficiente sviluppare questa riflessione solo
ad un livello mentale, occorre, al contrario, pensare profondamente,
analizzare intensamente questo tema.
L’attaccamento all’Io
si suddivide in due livelli: l’attaccamento al sé che deriva
dall’aver sentito teorie su questo Io; l’attaccamento al sé che
deriva dall’attaccamento istintivo, naturale all’Io.
Noi
stiamo tentando di eliminare non l’attaccamento al sé frutto di
teorie sull’Io, ma stiamo tentando eliminare l’attaccamento
all’Io fondamentale, spontaneo. È curioso notare come sia molto
difficile studiare, apprendere delle cose positive, mentre non
dobbiamo fare assolutamente niente per sviluppare questo attaccamento
all’Io, che possediamo già come componente innata del nostro
essere. Bisogna sforzarsi molto per ottenere la capacità meditativa,
la concentrazione, la compassione, ma per avere questo attaccamento
all’Io non dobbiamo fare proprio nulla. È un buon segno o no? È
interessante: sia la compassione, la gentilezza amorevole,
sia l’attaccamento all’io sono ambedue emozioni mentali; ma
mentre l’attaccamento all’Io si manifesta spontaneamente, in ogni
circostanza, la compassione, per quanto cercata, si manifesta poche
volte. Inoltre tutto ciò che richiede sforzo per essere sviluppato,
cioè le buone qualità, porta felicità.
Quando
si parla di vacuità non è importante chiedersi se tutti i fenomeni
sono vacui o no. La cosa importante è chiedersi se l’oggetto
dell’attaccamento al sé, l’Io, è vacuo o no, se esiste
realmente nella maniera in cui lo percepiamo, in cui ci appare
spontaneamente. Questo attaccamento non fa altro che portarci
problemi, quindi bisogna impegnarsi nel capire perché comporta così
tanti problemi. Generalmente tentiamo di risolvere i problemi senza
mai chiederci qual è la causa di questi problemi. Se non sappiamo
cos’è che ci procura problemi e continuiamo a tentare di risolvere
i problemi, non vi riusciremo mai, perché la causa dei problemi
resta. La conoscenza, la comprensione della vacuità è così
importante perché riguarda la radice della sofferenza, di tutti i
problemi.
Tutte
le altre cose sono metodi per risolvere i problemi, ma se non
eliminiamo la loro causa, continueranno ad esserci continuamente.
Il riconoscimento
dell’Io, del sé è fondamentale nel mondo buddista.
Il primo passo da fare
in questa ricerca circa la natura dell’Io è osservare l’Io così
come ci appare spontaneamente per via della nostra innata tendenza.
È importante conoscere l’Io ed è importante non attaccarsi
all’Io. Perché quando ci attacchiamo all’Io non ci attacchiamo
all’Io vero, bensì a qualcos’altro. L’Io che compare agli
occhi dell’attaccamento è completamente diverso dall’Io che
appare agli occhi della saggezza. Riuscire a vedere il vero Io è la
causa che sta alla base dell’eliminazione di tutti i problemi
derivanti da una sua errata percezione. Attaccarsi all’Io impedisce
di vedere il vero Io. Quando parliamo di vacuità dell’Io non
parliamo di eliminazione dell’Io, parliamo del riconoscimento del
vero Io, della sua realtà ultima, e solo nel momento in cui saremo
in grado di riconoscere il vero Io inizieremo a provare dei veri
benefici. Per questo motivo la vacuità dell’Io è la realtà
ultima dell’Io. Vedere la vacuità dell’Io significa conoscere
l’Io perfettamente, vedere come siamo veramente. Negli altri
momenti noi pensiamo di fare qualcosa per noi stessi, ma in realtà
non sappiamo neppure cosa siamo veramente ed è per questo che
finiamo sempre per creare difficoltà, problemi, sofferenze; il punto
è che in realtà si ignora il proprio vero io e ci si attacca a
qualcosa di diverso dal proprio vero Io. Invece riconoscere il nostro
vero sé ci permette di trovare i modi per portare aiuto e benefici a
noi stessi. L’Io è l’oggetto della spontanea attitudine
d’attaccarsi all’Io ed è un Io sbagliato. La vacuità dell’io,
l’assenza di sé, dell’Io stesso è il vero Io. L’Io è
vacuità, la vacuità è l’Io, l’Io non è altro che vacuità, la
vacuità non è altro che l’Io: basandoci su questa riflessione
inizieremo a vedere cos’è il vero Io. Prima di fare ciò, però,
dobbiamo procedere in un altro tipo di meditazione che consiste nel
cercare l’Io nei cinque aggregati: dobbiamo considerare i cinque
aggregati costituenti di ciò che chiamiamo Io o sé come a loro
volta privi di un’esistenza intrinseca, autonoma.
Quando parliamo di Io, quando usiamo la parola Io, non ci chiediamo
mai di che cosa sia fatto questo Io, dove si trovi, in cosa consista.
In realtà non è nulla di differente dai cinque aggregati che ci
costituiscono. L’Io è composto, formato dai cinque aggregati. Ma
se andiamo ad analizzare ciascuno di questi costituenti, non possiamo
dire che uno di essi costituisca l’Io. Esaminando infatti ognuno di
questi cinque aggregati, come ad esempio la forma, ci verrà da
chiederci che cosa sia la forma stessa. Si pensa che la forma sia
qualcosa di concreto, di esistente, ma quando cominciamo ad
osservarla attentamente, ad analizzarla non la vediamo più nella
stessa maniera in cui la percepivamo prima: la forma sparirà.
Similmente anche le sensazioni, come “mi sento male, soffro, sono
felice”, una volta analizzate, spariscono, non esistono più nel
modo in cui le percepivamo. Non si tratta solo di sensazioni negative
come la sofferenza; anche se analizziamo la felicità ci rendiamo
conto di quanto questa sia in realtà diversa da come siamo soliti
intenderla, diversa da come ci appare. Possiamo considerare in questo
modo anche le discriminazioni (cioè la capacità di suddividere, di
distinguere le persone e le cose) e ci accorgeremo di quanto sia
distante la nostra abituale percezione di esse in confronto alla loro
reale natura. Questo vale anche per il quarto dei cinque aggregati,
vale a dire gli elementi di formazione, cioè gli altri fattori
mentali oltre la discriminazione. Quando analizziamo questi elementi
di formazione vediamo come la loro reale natura sia diversa dall’idea
che ne abbiamo istintivamente, spontaneamente. Arriviamo dunque al
quinto dei cinque costituenti, cioè la coscienza, anche detta mente
principale. Solitamente nella storia degli uomini nella società, i
filosofi, gli spirituali identificano l’Io con questa mente
principale. Ma se osserviamo questa stessa mente principale non
troviamo nulla. Quindi che senso c’è nel dire che questa mente,
questa coscienza sia l’Io, se non vi è nulla di essa che riusciamo
a fermare di essa, non vi è nulla di stabile in essa? Quindi se
analizziamo uno per uno i cinque aggregati vedremo come tutti, uno
per uno, scompariranno e di conseguenza anche l’Io, formato da tali
aggregati, scomparirà. Ed è per questo motivo che si dice che l’Io
è vacuo. Però l’Io è ancora esistente, quando procediamo con
questa analisi l’Io non è scomparso. Quando stiamo analizzando,
osservando l’Io, questo scomparirà, ma in realtà avremo trovato
il vero Io. Proprio nel momento in cui l’Io scompare durante
l’analisi, quando non troviamo più quell’Io che credevamo essere
qualcosa di concreto, troviamo il vero Io.
L’Io non è altro che
la vacuità. L’Io che non possiede esistenza inerente ed autonoma è
il vero Io. Non c’è differenza quindi tra l’Io fondamentale ed
ultimo e l’Io che vediamo scomparire durante l’analisi. L’Io
non è altro che vacuità e la vacuità non è altro che l’Io. Il
primo passo da compiere nell’analisi della realtà ultima del sé è
osservare i cinque aggregati che costituiscono il sé; il secondo
passo è il quadruplice ragionamento.
Lam Rim
Il Sutra del Cuore si
caratterizza appunto per una proposta di analisi della vacuità
attraverso una serie di diversi processi.
Brevemente,
per osservare la vacuità dell’Io, si parte dall’analisi dei
cinque aggregati costituenti il sé. In un secondo momento si
analizza ogni singolo aggregato applicando i quattro ragionamenti
nell’osservazione della vacuità di ciascun aggregato. Questo è un
modo più dettagliato per osservare i cinque aggregati rispetto a
quello più generico che si utilizzava nella fase precedente. Il
quadruplice ragionamento consiste appunto nell’enunciato “La
forma è vuota, la vacuità è forma; la vacuità non è altro che
forma, la forma non è altro che vacuità”,
che oltre che alla forma, può essere applicato anche agli altri
aggregati (“Allo
stesso modo sono vuote le sensazioni, le percezioni, le formazioni
mentali e la coscienza”.)
Il Sutra del Cuore è un testo molto importante del Lam Rim, in
quanto illustra gli stadi che caratterizzano il percorso che conduce
all’Illuminazione basandosi sui cinque sentieri: il primo è quello
dell’accumulazione, poi vi è quello della preparazione, della
visione profonda, della meditazione, poi l’ultimo che non è
propriamente un sentiero, ma è lo stato d’Illuminazione. Il Sutra
del Cuore spiega, definendoli, questi cinque percorsi che conducono
all’Illuminazione, sebbene ad un’osservazione diretta e
superficiale sembra che parli sempre di vacuità e che si limiti a
mostrare le varie fasi che occorrono per poterla realizzare e per
poter percorrere i cinque sentieri. Quando si parla di analizzare
l’Io tramite l’analisi dei cinque aggregati ci si riferisce al
primo sentiero, che è quello dell’accumulazione. Il quadruplice
ragionamento applicato ai cinque aggregati rappresenta invece
un’analisi più approfondita e caratterizza il sentiero della
preparazione.
Questo modo di
intendere la lettura del testo si riferisce solo all’aspetto della
Saggezza, ma esiste un altro aspetto, un altro sentiero, che è
quello del Metodo, cioè la bodhicitta. Per bodhicitta intendiamo una
forma di compassione molto avanzata che dovrebbe essere sviluppata
attraverso l’ottenimento di varie realizzazioni.
Il
percorso dell’accumulazione si divide in tre fasi: iniziale,
intermedia e finale. Nella fase iniziale bisogna praticare le quattro
contemplazioni vicine; nella fase intermedia bisogna raggiungere la
realizzazione dei quattro abbandoni; nell’ultima fase bisogna
sviluppare le quattro concentrazioni, dette anche le “quattro gambe
miracolose”. Questo significa che nella prima fase si sviluppa una
grande consapevolezza, nella seconda fase una grande perseveranza,
nella terza una grande capacità di concentrazione. Quest’ultima
consente di poter ricevere sempre insegnamenti di Dharma e di
ricordare tutti gli insegnamenti di Dharma ascoltati in tutte le vite
precedenti. Si ottiene anche la capacità di comunicare direttamente
con gli esseri illuminati, e la capacità di parlare con le statue e
con le immagini e con la loro vera natura, il tutto come risultato
dei poteri miracolosi delle quattro concentrazioni. Da qui si passa
al sentiero della preparazione che,
dal punto di vista del Metodo, possiede quattro fasi: la prima è la
saggezza del calore, perché la saggezza della vacuità ci fa sentire
il calore dell’Illuminazione. Proprio questo ci fa capire che siamo
passati dal sentiero dell’accumulazione a quello della
preparazione. Durante il sentiero dell’accumulazione si realizza la
vacuità senza averne avuto una diretta percezione e non si ha una
visione della vacuità chiara come quella che si ha durante il
sentiero della preparazione. Nel sentiero dell’accumulazione la
realizzazione della vacuità è basata soprattutto su un livello
intellettuale: si realizza la vacuità ma non attraverso
l’esperienza, solo mediante il ragionamento. Nel primo momento si
ha una conoscenza intellettuale della vacuità, poi si ha una
realizzazione della vacuità basata l’esperienza, tramite l’unione
di Samatha
e Vipassana,
cioè calma mentale e speciale visione interiore. Quindi non si ha
ancora una percezione diretta della vacuità, ma una realizzazione
basata sull’esperienza, quindi sulla meditazione che ci dà una
comprensione anche emotiva di ciò che è la vacuità stessa. Questo
è il punto che ci indica il fatto che abbiamo raggiunto il sentiero
della preparazione. Questa è chiamata la saggezza del calore, si
inizia a sentire il calore dell’Illuminazione.
Poi viene il picco. In
questo caso si sviluppa una forza capace di contrastare le forze
negative opposte. Si dice picco perché per raggiungere il picco
della montagna bisogna impegnare molto sforzo, una volta raggiunto il
picco non c’è più bisogno di sforzo e quindi si riesce senza
sforzo a fare esperienza della vacuità.
La terza fase è la
saggezza della perseveranza. In questa fase si raggiunge una tale
saggezza della vacuità da far scaturire una grande pazienza. Questa
è la linea di confine oltre la quale vi è lo stato in cui è
impossibile ritornare indietro nei reami inferiori.
La quarta fase è la
fase del Dharma supremo, cioè la realizzazione più alta a livello
mondano.
Il sentiero della visione
Le cose si dividono in
esistenti e non esistenti. Un esempio classico di cosa non esistente
sono i peli di una tartaruga: le cose che sono inesistenti, che
proprio non esistono, non possono neppure essere vacue. Quindi la
vacuità non deve essere cercata in ciò che non esiste, ma deve
essere trovata in ciò che esiste. Proprio perché quel fenomeno
esiste, quel fenomeno ha una natura vacua. Proprio per via della sua
natura vacua, quel fenomeno esiste. I peli della tartaruga non
esistono e quindi non sono vacui. Esempi di cose che non esistono
sono i fiori nel cielo, i già citati peli della tartaruga, il corno
del coniglio, ecc… non si può meditare sulla vacuità dei peli
della tartaruga.
Mentre
si percorrono questi quattro sentieri volti alla realizzazione della
vacuità occorre, parallelamente, realizzare i cinque poteri o cinque
forze. Il primo di questi poteri è il potere della fede; poi il
potere della perseveranza; il potere della consapevolezza; il potere
della concentrazione; il potere della saggezza o realizzazione della
realtà ultima. Il potere della fede significa potere della
convinzione;
la
fede non è rivolta ai Buddha, ma alle quattro nobili verità ed alla
legge di causa-effetto. Infatti nel sentiero dell’accumulazione,
nella fase di sviluppo delle quattro contemplazioni, tale sviluppo si
basa strettamente sulle quattro nobili verità. Le quattro
contemplazioni aventi come oggetto le quattro nobili verità, danno
una grande comprensione di esse. Nella pratica degli abbandoni, che
segue la pratica delle contemplazioni, le prime due delle nobili
verità vengono abbandonate e si cerca di raggiungere le ultime due
nobili verità. La concentrazione è la grande forza che ci spinge
nel percorso di abbandono e di ottenimento. Quando arriviamo al
sentiero della preparazione otteniamo una ferma convinzione nelle
quattro nobili verità e nella legge di causa-effetto. Come risultato
di aver percorso il sentiero di accumulazione si otterrà il primo
dei cinque poteri, cioè il potere della fede. Il secondo potere,
quello della perseveranza ci dà la forza per portare avanti la
pratica per raggiungere l’Illuminazione, affrontando qualsiasi
difficoltà. Il terzo potere è il potere della consapevolezza che ci
permette di vedere la forma esistente delle quattro nobili verità,
ci dà una grande comprensione di esse, le cui caratteristiche sono
sedici, quattro per ogni verità. Il potere della concentrazione è
l’unione delle due pratiche meditative fondamentali, Shi
Né e
Lhak
Thong,
altrimenti note come Samatha
e Vipassana.
Il quinto potere, il potere della saggezza, è il potere di riuscire
ad esaminare la natura vacua delle quattro nobili verità. Si dice
che l’acquisizione di questi cinque poteri avvenga nel corso delle
prime due fasi del sentiero della preparazione, cioè la saggezza
come il calore e il picco.
Le
cinque forze sono le stesse dei cinque poteri, ma si manifestano
nella fase post-meditativa, nel periodo successivo alla meditazione.
Nelle fasi successive alle prime due del percorso della preparazione
questi poteri diventano forze, nel senso che non c’è possibilità
che possano manifestarsi forze opposte neppure nella fase
post-meditativa. I cinque poteri e le cinque forze sono il risultato
di un’analisi approfondita della vacuità ottenuta tramite l’unione
di Shi
Nè e Lhak Thong. Parallelamente
a queste pratiche vi è lo sviluppo di bodhicitta. Come menzionato
precedentemente, la bodhicitta coltivata durante il percorso della
preparazione viene definita come calore, fuoco.
Come tutti gli altri
fenomeni, anche questi percorsi, dell’accumulazione e della
preparazione, non sono indipendenti, non sono autonomi né dotati di
un’esistenza inerente, ma esistono in quanto tutte queste
caratteristiche vengono combinate e poste in essere.
Questo è tutto ciò che c’è da dire sul sentiero della
preparazione. In questo sentiero la realizzazione della vacuità è
il risultato della meditazione, si tratta di una realizzazione basata
principalmente sull’esperienza fatta nel corso della meditazione,
scaturita dall’unione di concentrazione su un singolo punto o calmo
dimorare e l’analisi di speciale visione interiore. È appunto
chiamato sentiero di preparazione perché ci prepara per il sentiero
della visione.
Il percorso della
visione profonda è caratterizzato dal fatto che in questo stadio si
può percepire la vacuità in modo diretto.
Abbiamo
visto che in un primo momento, nel sentiero dell’accumulazione, la
realizzazione della vacuità è affidata maggiormente ad un’analisi,
un’osservazione intellettuale; poi, nel sentiero della
preparazione, la realizzazione della vacuità è basata
principalmente sull’esperienza della meditazione, ma permangono
ancora delle oscurazioni. Esse consistono nelle immagini che ci
creiamo della vacuità stessa e costituiscono un ostacolo alla
percezione diretta della vacuità. In questo sentiero, quando
meditiamo sulla vacuità, andiamo a meditare su un’immagine che
abbiamo di essa. È come se prendessimo molte informazioni su una
data persona senza però averla mai vista, poi ne vedessimo la foto
senza tuttavia vedere la persona direttamente. Anzi, ogni volta che
penseremo a questa persona avremo in mente l’immagine che abbiamo
visto in foto e questa è un’illusione: quella persona non è
sempre così come è nella foto, che ne rappresenta solo un aspetto.
Poi quando vedremo la persona direttamente, ne avremo un’idea molto
più chiara e ci accorgeremo di quanto sia differente dall’immagine
che ce ne eravamo fatti. Similmente la realizzazione della vacuità
possiede un percorso simile: prima cerchiamo di conoscere la vacuità
solo attraverso le informazioni che riusciamo ad averne; poi
l’osserviamo in una foto tramite la meditazione e l’idea che
abbiamo della vacuità diventa molto più chiara dell’idea che ne
avevamo attraverso le sole
informazioni;
quando, infine, riusciamo a vedere direttamente la vacuità, allora è
molto diversa.
In questo caso non
stiamo parlando di qualcosa di diverso dal nostro sé, parliamo del
nostro vero sé. Il problema è infatti che non conosciamo
chiaramente il nostro sé. Non abbiamo neppure delle informazioni
chiare su di esso, non abbiamo ancora visto le foto del sé, non
l’abbiamo incontrato direttamente. Vaghiamo con un’idea del sé
molto diversa da ciò che esso è veramente, questo è un problema di
tutti noi esseri samsarici. Il sé non è diverso dall’assenza di
sé: riconoscere l’assenza del sé significa conoscere veramente il
sé.
L’interdipendenza non è qualcosa di semplice da percepire, dal
momento che possiede due livelli, uno grossolano ed uno sottile. Il
livello grossolano dovrebbe essere realizzato prima della
realizzazione della vacuità, mentre l’interdipendenza a livello
sottile viene realizzata solo dopo la realizzazione della vacuità,
perché per via della vacuità un fenomeno è interdipendente ed
esiste. L’esistenza convenzionale è determinata dalla conoscenza
della vacuità: questa è la sottile esistenza convenzionale, che è
la sottile natura interdipendente. Quindi la sottile esistenza
convenzionale deriva dalla comprensione della vacuità e la
comprensione del livello grossolano dell’interdipendenza dovrebbe
essere la ragione per realizzare la vacuità.
Tutto viene dalla
vacuità. Dalla realizzazione della vacuità derivano tutte le
esistenze, funzioni convenzionali. Come un pesce nell’acqua: il
pesce si muove ma l’acqua no. La vacuità è sempre qui presente,
ma l’esistenza convenzionale si muove senza problemi. Non c’è
contraddizione.
IV Parte
(9 Maggio 2004)
Dare un senso al tempo
Prima di tutto,
dobbiamo ricordarci che dovremmo tentare di dare un senso al tempo
che stiamo trascorrendo. Questo è il pricipale obbiettivo del nostro
incontro. Il senso che conferiamo al tempo dipende dal modo in cui
lo trascorriamo. È sempre bello passare del tempo con amici
spirituali, perché il semplice stare loro conferisce senso al tempo,
influenzandoci positivamente ed aiutandoci ad essere più
contemplativi. Spesso si parla di consapevolezza, presenza mentale ed
un altro modo per definirla è tempo contemplativo. Finché
trascorriamo un tempo di tipo contemplativo, caratterizzato cioè da
consapevolezza e presenza mentale, diamo significato a questo tempo.
Ci sono molti modi per essere contemplativi, uno dei quali è
dedicarsi al Sutra del Cuore, come ci accingiamo a fare adesso.
Per
cominciare questo genere di incontri è utile lo sviluppo
di
una motivazione appropriata. La motivazione che dovremmo sviluppare
per queste pratiche consiste in un atteggiamento diverso da quello
abituale. Nella nostra vita di tutti i giorni tendiamo spontaneamente
a porre l’Io prima degli altri: ogni cosa per me, e il mio, l’Io
vengono sempre per primi. Anche quando non crediamo che l’Io sia
più importante degli altri, vi è questa costante inclinazione
naturale, spontanea a pensare che la cosa più importante sia l’Io.
Tutto ciò deriva dall’abitudine di considerare l’Io sempre al
primo posto. Questa nostra tendenza, questa spinta naturale a mettere
il nostro Io davanti a tutto è la causa prima della nostra
stanchezza, della nostra confusione; infatti questa tendenza non è
qualcosa di vero, ma è qualcosa che contraddice la realtà: in
verità l’Io non è più importante di tutto il resto degli esseri.
Quindi noi abbiamo questa abitudine che va contro le leggi naturali
causando emozioni conflittuali all’interno di noi stessi e ciò
comporta stanchezza e prostrazioni non necessarie. Per trovare una
soluzione a questi conflitti interiori
esistono
diversi metodi, il primo dei quali è l’atteggiamento altruistico.
Poi viene il concetto di assenza di sé, perché noi non solo
mettiamo il sé sempre al primo posto, ma abbiamo anche una
concezione errata, una comprensione inesatta, un’idea sbagliata del
Sé. Quindi abbiamo due modi per gestire l’Io, il sé: da un lato
lo sviluppo della compassione, della gentilezza amorevole,
dell’altruismo, dall’altro lato una corretta visione dell’Io.
Per sviluppare la motivazione dobbiamo usare il primo metodo che è
l’altruismo, poi dobbiamo usare il secondo metodo, cioè la retta
visione del sé, esposta nel Sutra del Cuore. La nostra motivazione
non consiste nell’ottenere dei poteri straordinari per noi stessi,
ma nel dedicare noi stessi al bene degli altri. Dedicare noi stessi
significa che l’Io si cura degli altri prima che di se stesso, si
trova qui non perché è importante ma per poter recare un qualche
beneficio agli altri esseri. Se facciamo anche la più piccola buona
cosa con la motivazione di recare beneficio agli altri piuttosto che
pensando solo a noi stessi questa avrà una grande forza. Questa
dovrebbe essere la motivazione con cui vivere il nostro incontro:
generalmente mi occupo del mio Io giorno e notte, e questo mi causa
grande stanchezza e prostrazioni, ma oggi abbandono questa
attitudine, sono libero da questo dominatore. Finora mi sono sempre
preoccupato del mio Io: ogni cosa a me, ogni cosa per me, ma in
realtà questo Io come lo immaginiamo non è vero, è qualcosa di
diverso dalla realtà.
Non è facile mantenere
un atteggiamento altruistico, richiede forza, sforzo entusiastico,
perché solitamente noi ci atteniamo ad una attitudine totalmente
diversa da quella che stiamo cerchiamo di sviluppare. Naturalmente
soffriamo, essendo schiavi di questa abitudine mentale,
l’attaccamento al sé, che non significa semplicemente prendersi
cura di sé, ma significa porre il proprio sé al primo posto
rispetto a tutti gli altri e percepirlo in maniera totalmente errata,
molto diversa da come è realmente. Inoltre pensiamo che il nostro Io
dovrebbe essere in un dato modo e se poi qualcosa cambia rispetto
all’idea di come dovremmo essere, diveniamo molto agitati, molto
depressi, pensando “adesso sto diventando meno importante, ecc…”.
Solitamente tutto ciò non ci appare molto chiaramente, ma anzi ci
risulta piuttosto nascosto; ma in certi momenti, come quando siamo
molto felici o molto depressi, questa presenza dell’Io ci diviene
manifesta. Tuttavia, se in questi momenti in cui l’Io appare più
evidente cerchiamo di individuarlo, di afferrarlo, non troviamo
nulla. Generalmente non stiamo ad analizzare dove sia questo Io, ma
semplicemente sentiamo che siamo felici o che siamo depressi o che ci
sta succedendo questo o quello e ciò comporta momenti di felicità o
depressione… la semplicità è molto connessa al concetto di porre
l’Io in una posizione di mezzo: non dovremmo porlo all’ultimo
posto, ma non è neppure tanto importante da stare al primo. Dovremmo
essere in grado di essere soddisfatti nello stare nel mezzo perché
questo porta tranquillità e un modo di vivere rilassato. Anche
questo è altruismo, non altruismo totale, ma comunque altruismo:
porre l’Io in una posizione mediana comporta più serenità e pace.
Solitamente abbiamo molti disturbi ed emozioni conflittuali
all’interno di noi stessi perché ci preoccupiamo sempre di porre
il nostro Io al primo posto e questo è impossibile ed è la causa di
tutte queste emozioni conflittuali che causano dolori, sofferenze,
insoddisfazioni.
Sviluppare
un’attitudine altruistica significa capovolgere il nostro
atteggiamento abituale e non è una pratica facile. Ma è molto
meglio sforzarsi nell’acquisirla, perché ci porterà comunque ad
essere più rilassati di quanto non lo siamo nella nostra posizione
abituale, nel nostro cattivo atteggiamento usuale. Praticare
significa capovolgere il nostro atteggiamento abituale, perché
continuare
a mantenere tale atteggiamento significa stare nel samsara, mentre
assumere un’attitudine altruistica è come stare nella terra pura,
nel paradiso o comunque vogliamo chiamarlo. A volte abbiamo problemi,
confusioni, difficoltà, situazioni problematiche nella nostra mente
e cosa facciamo allora? Continuiamo a mantenere il nostro
atteggiamento usuale pensando: “Io soffro, i miei problemi, non ce
la faccio, ecc…” : l’Io e il mio sono sempre presenti e quindi
i problemi non saranno mai risolti; l’unica soluzione sono allora
gli antidepressivi: un giorno se ne prende uno, il giorno dopo si
raddoppia fino ad arrivare a prendere l’intera scatola… in quel
momento, invece, bisogna riflettere e comprendere che l’origine di
tutti questi conflitti è l’esagerato attaccamento all’Io e
bisogna decidere semplicemente di capovolgere questo atteggiamento e
sono sicuro che poi sarete molto rilassati. Invece di stare legati a
questo Io bisogna liberarsi, affrancarsi da esso. L’altruismo non è
qualcosa di teorico ma è qualcosa di pratico: semplicemente
capovolgere il nostro atteggiamento abituale; all’inizio è
difficile, ma provando lentamente diventa sempre più facile. Se
abbiamo un dolore, anche se cambiamo atteggiamento il dolore resta,
ma perlomeno ci sentiamo alleggeriti dal dolore stesso, più
rilassati. Anzi possiamo trasformare il dolore in un mezzo per
sviluppare qualche realizzazione o aumentare il nostro accumulo di
meriti, insomma possiamo ottenere molti benefici da questo dolore.
Assumere un atteggiamento altruistico non è un trucco per poter
sfuggire dalla sofferenza, ma è un modo per avvicinarsi alla realtà
delle cose. Avvicinarsi a questo stato di cose comporta
automaticamente il sorgere di una felicità duratura. Questo è un
modo molto pratico di presentare l’altruismo, che possiamo chiamare
anche compassione, amore o come preferiamo.
La compassione, l’amore, la gentilezza amorevole, l’altruismo non
costituiscono una soluzione completa ai nostri problemi. C’è un
altro passo che deve essere fatto: quello della saggezza che ci
permette di tagliare la radice di tutta la confusione. L’altruismo,
pur dinanzi a situazioni di dolore, ci aiuta a non soffrire, anzi a
trasformare queste situazioni in un mezzo per sviluppare delle
realizzazioni. Quindi è evidente l’immenso beneficio che
l’altruismo reca. Per non avere ulteriori problemi e confusione
dobbiamo sviluppare la saggezza. Mentre l’altruismo è
l’atteggiamento che ci spinge a prenderci cura degli altri più di
noi stessi, la saggezza o visione speciale ci porta ad una
realizzazione che va oltre il considerare gli altri più importanti
di noi.
Per quanto riguarda la saggezza, anche se consideriamo gli altri più
importanti di noi, questa si occupa dell’Io, di come questo esiste,
di come esistono gli altri, di come esistono tutte le cose. Finché
non abbiamo una chiara conoscenza di questa nozione, cioè di come
esiste l’Io, gli altri e ogni cosa, non possiamo avvicinarci
all’eliminazione della sofferenza, della confusione. Per questo
abbiamo bisogno del Sutra del Cuore della Saggezza, perché questo
sutra spiega qual è la verità ultima del sé, degli altri e delle
cose. Si dice che per prima cosa bisogna analizzare cosa sia il sé,
l’Io. Nella nostra società siamo abituati invece ad analizzare gli
altri, le cose, analizziamo qualsiasi cosa, ma non analizziamo noi
stessi. Invece la prima cosa da analizzare è il proprio l’Io, la
realtà ultima del proprio sé, perché è l’oggetto più semplice
da analizzare per comprendere la realtà ultima dei fenomeni. Il
concetto di Io, di mio è relativo all’atteggiamento di
attaccamento al sé. Questo atteggiamento di attaccamento al sé è
volto ad afferrare il sé. Noi abbiamo questo atteggiamento, lo
sentiamo, ne facciamo esperienza, permea tutte le nostre azioni, le
nostre attività, i nostri movimenti; è sempre preposto a tutte le
nostre azioni, i nostri pensieri lo seguono continuamente. Ma come e
perché appare questo atteggiamento? Per questo si dice che per prima
cosa uno debba riconoscere, identificare questo sé, che è l’oggetto
dell’attaccamento al sé. Noi ci attacchiamo sempre al sé, ma
prima dovremmo identificare questo sé chiaramente, e finché non lo
avremo identificato non ce ne libereremo mai, come se non vedessimo
il bersaglio cui dobbiamo sparare. Dunque bisogna comprendere come
appare, che caratteristiche ha questo sé che l’attaccamento al sé
ci procura. Il motivo per cui abbiamo tutti i problemi è che ci
prendiamo cura di un’Io illusorio, lasciando senza cura il vero Io.
Bisogna
identificare l’oggetto della negazione, noi dobbiamo negare l’Io
che è percepito dall’attaccamento all’Io. Poi dobbiamo trovare
l’Io convenzionale, che è una semplice designazione. È molto
difficile mantenere una via di mezzo, negando il concetto di Io che
viene percepito dall’attaccamento al sé e mantenere un Io
convenzionale, funzionale. Il primo Io, quello oggetto
dell’atteggiamento di attaccamento al sé, non esiste, quindi
stiamo negando qualcosa che non esiste, poiché non potremmo negare
ciò che esiste. Da un lato dobbiamo negare questo Io (oggetto
dell’attaccamento al sé), dall’altro dobbiamo accettare l’Io
convenzionale. Quindi il punto importante è identificare l’oggetto
della negazione, non analizzare gli altri, ma analizzare il sé.
L’oggetto della negazione, come si è detto,
è il sé concepito dall’attaccamento al sé. Come l’attaccamento
all’Io percepisce questo Io? Che immagine dell’Io ha? Questo è
importante. Dato che questo Io non esiste, non è rintracciabile,
dobbiamo capire che immagine ne ha questo attaccamento al sé. Una
caratteristica che possiede questa immagine dell’Io è quella di
essere indipendente, l’Io sembra essere indipendente dalla testa,
dalle braccia, dalle gambe, dal corpo, dalla mente, dalle sensazioni,
dalle percezioni. Abbiamo naturalmente l’idea che il nostro Io sia
separato dalla testa o da qualsiasi altro elemento. Infatti si dice
“la mia testa, la mia mano, il mio libro, la mia mente”, il che
significa che la testa, la mano, il libro, la mente sono qualcosa di
diverso, di altro, di esterno rispetto all’Io che le possiede.
Quindi questo Io appare completamente indipendente dai cinque
aggregati. Ma se è indipendente dai cinque aggregati, allora dov’è?
Stiamo cercando di individuare l’oggetto della negazione ad un
livello intellettuale. Tuttavia non esiste un Io completamente
indipendente dai cinque aggregati, completamente estraneo ad essi. Ed
ecco come si comprende chiaramente che un Io così come appare
all’attaccamento al sé non esiste, in quanto non può sussistere
un Io svincolato dai cinque aggregati. Ma noi costantemente e
fermamente facciamo tutto per questo Io, che in realtà non esiste!
Quindi se c’è un Io deve trovarsi all’interno dei cinque
aggregati, non è possibile che si trovi fuori di essi . Ma nel
momento in cui andiamo ad analizzare i cinque aggregati, uno per uno,
non riusciamo ugualmente a trovarlo. Un esempio classico è il
settuplice ragionamento sul carro. Due punti in particolare sono più
importanti: il carro non è altro rispetto ai suoi componenti, il
carro non è la stessa cosa dei suoi componenti. Se il carro fosse la
stessa cosa dei suoi componenti ci sarebbero molti carri, tanti
quanti sono i componenti. Ma allo stesso tempo il carro non è altro
rispetto ai suoi componenti, perché non possiamo individuarlo
all’infuori di essi. Similmente l’Io non è altro rispetto ai
suoi aggregati, ma non è neppure la stessa cosa dei suoi aggregati.
Nel
Sutra è scritto: “Dovrebbe
vedere chiaramente nel seguente modo: dovrebbe vedere distintamente
che anche i cinque aggregati sono vuoti di natura intrinseca”.
Abbiamo
analizzato il sé e non solo il sé è vacuo, ma anche i cinque
aggregati sono vacui. Poi segue l’analisi dei cinque aggregati, uno
per uno, a partire dalla forma. La forma è vacua, priva di
un’esistenza intrinseca. La vacuità della forma non è differente
dalla forma stessa, il che significa che la vacuità va trovata nella
forma stessa. “La
forma è vuota, la vacuità è forma; la vacuità non è altro che
forma, la forma non è altro che vacuità”.
L’esistenza convenzionale della forma non significa che la forma
esiste in modo indipendente. Allo stesso modo sono vuote le
sensazioni, le percezioni, le formazioni mentali e la coscienza. Poi
il Sutra prosegue: “Quindi,
Shariputra, tutti i fenomeni sono vacuità -
I fenomeni sono vacui nella loro nozione, sono senza caratteristiche
che li definiscano, non nascono e non muoiono - essi
sono privi di caratteristiche peculiari; non sono nati, non cessano;
non sono contaminati, non sono incontaminati; non sono incompleti e
non sono completi”.
Fino
a questo punto sono stati affrontati tre livelli di analisi della
vacuità, il che corrisponde a percorrere il primo dei cinque
sentieri, quello dell’accumulazione.
Segue
la quadruplice analisi della vacuità, che è maggiormente
approfondita e corrisponde al secondo dei sentieri, quello della
preparazione.
Poi vi è l’ottuplice analisi della vacuità corrispondente al
terzo dei sentieri, il
sentiero della visione.
Quest’ottuplice analisi è a sua volta suddivisibile in tre
categorie di analisi della vacuità, la prima della quali è
l’analisi della vacuità come nozione, la seconda è l’analisi
della vacuità dei segni, cioè anche le cause sono vacue, la terza è
la vacuità dell’aspettativa, l’assenza di desideri, non ci deve
essere desiderio dei risultati, in quanto anche questi sono vacui.
Quindi secondo la prima categoria ogni fenomeno è vacuo nella sua
stessa nozione, per la seconda categoria è vacuo anche relativamente
alla cause, secondo la terza anche i risultati del fenomeno sono
vacui. Queste tre categorie della vacuità vengono anche dette le tre
porte che conducono alla liberazione, il che significa che la prima
categoria già include le altre due: dal momento che essa afferma
che tutti i fenomeni sono vacui, dunque saranno vacui anche i
risultati e le cause. Vengono chiamate le tre porte che conducono
alla liberazione perché l’attraversamento di queste porte conduce
alla verità ultima e quindi alla liberazione.
La spiegazione
dettagliata di ognuna di queste otto vacuità come anche la
spiegazione delle cinque vacuità si trova nel libro di Nagarjuna,
“Versi sulla saggezza fondamentale”.
Il sentiero della meditazione
Nel Sutra del Cuore si
dice:
“Quindi, Shariputra, nella vacuità non c’è forma, né
sensazione, né percezioni, né formazioni mentali, né coscienza.
Non c’è occhio, né orecchio, né naso, né lingua, né corpo, né
mente. Non c’è forma, né suono, né odore, né gusto, né oggetti
concreti, né oggetti mentali. Non c’è nessun elemento visivo,
così fino a nessun elemento mentale fino ad includere nessun
elemento della coscienza mentale. Non c’è ignoranza, non c’è
estinzione dell’ignoranza, e così fino a nessun invecchiamento e
morte, e nessuna estinzione dell’invecchiamento e della morte. Allo
stesso modo, non c’è sofferenza, origine, cessazione o sentiero;
non c’è saggezza, né ottenimento e neppure mancanza di
ottenimento”.
Dal
punto di vista della filosofia buddista, qui è descritto il modo in
cui vengono suddivisi in categorie i fenomeni: i diciotto elementi
sono i sei sensi, le sei coscienze dei sensi e i sei oggetti dei
sensi. Poi si parla delle quattro Nobili Verità e dei dodici anelli
dell’origine interdipendente, si parla tratta dunque del samsara.
In questa parte ci troviamo nel sentiero della meditazione, il quarto
dei sentieri. I due sentieri, quello della visione e quello della
meditazione vengono divisi in dieci livelli o bumi.
L’inizio
del primo livello appartiene al sentiero della visione, cui
appartengono anche le sedici vedute. Durante il
sentiero della meditazione
si dovrebbe osservare e meditare, concentrandosi su un solo punto, la
vacuità di queste categorie. Queste categorie mostrano l’abilità,
la capacità che si ha nel sentiero della meditazione. Infatti, come
si può vedere, il sentiero della meditazione possiede la
realizzazione della vacuità, così come
il
sentiero della visione, allo stesso modo anche il sentiero della
preparazione e il sentiero dell’accumulazione posseggono la
realizzazione della vacuità, ma ogni sentiero ad un livello diverso
che dipende dall’abilità, dal grado di esperienza nella
realizzazione della vacuità.
Prima, l’affermazione che tutti i fenomeni sono vacui offre una
visione panoramica della vacuità: si tratta sempre della stessa
vacuità ma in modi diversi. Poi, la realizzazione della vacuità
diventa più dettagliata, perché si ha più familiarità con la
vacuità e si è più esperti. È come la luna crescente che
illumina sempre lo stesso mondo e le stesse cose, ma l’aumentare
dell’intensità del suo chiarore rende più evidenti gli elementi
del modo che illumina.
Il libro di Nagarjuna è
composto da ventisei capitoli, ognuno dei quali esamina la vacuità
di una diversa categoria di fenomeni. Ad esempio, il capitolo XXIV
analizza la vacuità delle quattro nobili verità, il capitolo XXVI
analizza la vacuità dei dodici anelli dell’origine
interdipendente, il capitolo XVIII analizza la vacuità dell’Io, il
capitolo XIV la vacuità delle correlazione, il capitolo III la
vacuità dei sensi, il capitolo IV la vacuità degli aggregati, il V
la vacuità dei diciotto elementi. L’analisi approfondita della
vacuità, prendendo in considerazione le diverse categorie dei
fenomeni, è rintracciabile quindi nei “Versi sulla saggezza
fondamentale” di Nagarjuna.
Per quanto riguarda i dieci livelli di cui si stava parlando, dalla
parte centrale del primo livello fino al decimo livello, tutto questo
appartiene al sentiero della meditazione. I dieci livelli sono
descritti molto dettagliatamente nel Madhyamakavatara di
Chandrakirti.
Continuando
con il Sutra: “Quindi,
Shariputra, poiché i Bodhisattva non hanno ottenimenti, si basano e
dimorano nella perfezione della saggezza”. I
Bodhisattva non hanno nulla da ottenere e nulla da raggiungere,
pertanto permangono nella meditazione sulla natura della perfezione
della saggezza. Si dice che in questo passo venga indicata la
meditazione sui dieci livelli, che conducono direttamente allo stato
d’Illuminazione. Questa è la meditazione come vajra, è lo stato
dell’osservazione singola concentrata sulla vacuità, simile allo
stato d’Illuminazione: si è dunque liberi da tutti i pensieri
concettuali.
Stato di Buddha
Quando
si dice: “Non
avendo oscuramenti nelle loro menti, essi non hanno paura, ed essendo
andati totalmente oltre l’errore, essi raggiungono la meta finale:
il nirvana.”,
si fa riferimento al quinto sentiero, il sentiero della cessazione
dell’apprendimento, che coincide con lo stato di Buddha. Abbiamo
pertanto cinque sentieri: il sentiero dell’accumulazione, il
sentiero della preparazione, il sentiero della visione, il sentiero
della meditazione e il sentiero della cessazione dell’apprendimento.
Le caratteristiche di questi sentieri vengono descritti nel
Prajnaparamita-sutra.
Vi
è un famoso testo di Maitreya chiamato Abhisamayalamkara,
“L’ornamento della chiara realizzazione” che si focalizza sulla
descrizione dei cinque sentieri. I dieci livelli sono descritti in
modo approfondito nel testo di Chandrakirti, Madhyamakavatara,
“Introduzione alla via di mezzo”. L’esame della vacuità, della
natura ultima di ogni categoria dei fenomeni si trova nei
Mulamdhyamakakarika,
“Versi
sulla saggezza fondamentale” di Nagarjuna.
Fino
a questo punto del Sutra del Cuore, si dice che la spiegazione della
vacuità è fatta per coloro che posseggono un livello di
intelligenza inferiore, coloro che hanno meno facoltà intellettive.
Dal punto in cui si dice: “Tutti
i Buddha che dimorano nei tre tempi hanno ottenuto il pieno risveglio
dell’insorpassabile, perfetta illuminazione basandosi su questa
profonda perfezione della saggezza.” il
testo si rivolge a coloro che hanno un’intelligenza maggiore:
“Quindi,
si dovrebbe sapere che il mantra della perfezione della saggezza - il
mantra della grande conoscenza, il mantra supremo, il mantra uguale a
ciò che non ha uguale, il mantra che fa tacere tutte le sofferenze -
è vero perché non è ingannevole. Si proclama il mantra delle
perfezione della saggezza:
TADYATHA
GATÉ GATÉ PARAGATÉ PARASAMGATÉ BODHI SVAHA
Shariputra,
così i Bodhisattva mahasattva dovrebbero addestrarsi alla profonda
perfezione della saggezza”.
Qui si dice “tadyata”,
ma in realtà quando si recita il mantra “tadyata” viene
sostituito da “om”, in quanto “tadyata” indica l’insegnamento
e viene utilizzato quando ci si rivolge ad altri. “Gate” indica
il primo sentiero, il secondo “gate” indica il secondo sentiero,
“paragate” indica il terzo sentiero, “parasamgate” indica il
quarto sentiero, “bodhi” il quinto sentiero. “Svaha” è un
modo per stabilizzare il mantra, ossia attraverso la pratica dei
cinque sentieri si riesce a stabilizzare fermamente nel proprio
flusso mentale lo stato d’Illuminazione. Questo è il significato
del mantra. Letteralmente, “gate” significa andare, “paragate”
significa andare oltre, “parasamgate” significa andare
completamente oltre, “bodhi” è lo stato di Illuminazione.
Giungiamo ora alla
conclusione del Sutra:
“Quindi,
il Bhagavan si svegliò dal suo assorbimento meditativo e lodò
l’arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, dicendo che era
eccellente.
“Eccellente!
Eccellente! Figlio del lignaggio dei Bodhisattva, è proprio così;
dovrebbe essere così. Bisogna praticare la profonda perfezione della
saggezza proprio così come hai rivelato. Perciò anche i Tathagata
se ne rallegreranno”.
Come
il Bhagavan pronunciò queste parole, il venerabile bikshu
Shariputra, l’arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva,
insieme all’intera assemblea, inclusi i mondi degli dei, degli
umani, degli asura e dei gandharava, tutti gioirono e lodarono ciò
che il Bhagavan aveva detto.”
Questo
sutra maha-yana sull’essenza della perfezione della saggezza, è
stato tradotto dal maestro indiano Vimala
Mitra
insieme al traduttore tibetano bikshu Rin Chen De. E’ stato poi
ricontrollato e standardizzato dai maestri traduttori ed editori Ge
Lo e Nam Kha, tra gli altri.
Possiamo concludere qui
la difficile spiegazione sul Sutra del Cuore. È un Sutra
incredibilmente ricco, anche se è breve da recitare. Adesso alcuni
punti importanti saranno più chiari.
Nel Buddismo tibetano
il Sutra del Cuore è considerato un testo da recitare
quotidianamente. Non si tratta solo di recitarlo, ma anche di
meditarvi sopra. Si dice anche che abbia un grande potere
nell’eliminare gli ostacoli.
Ma il punto non è
recitare il Sutra, ma meditare sulla vacuità. Spesso il Sutra è
manipolato, interpretato ad un livello superficiale e la gente pensa
che il testo non funzioni, ma questo non è vero, il Sutra funziona
veramente così come è descritto e il mantra possiede molto potere,
ma se uno davvero lo vuole praticare rettamente, in modo appropriato,
deve meditare sul contenuto, su cos’è la vacuità ed allora la
forza sprigionata dal Sutra ha molti poteri e può fronteggiare
qualsiasi ostacolo!
V
Parte
Meditazione
sul “Sutra del Cuore”
V Parte
Meditazione sul “Sutra del Cuore”
Oggi meditiamo sul
“Sutra del Cuore”, come?
Il contenuto del Sutra
del Cuore è l’espressione della visione profonda di
Avalokitesvara. Praticando questa meditazione dunque dobbiamo
rappresentarci nell’immagine di Avalokitesvara e, grazie
all’ispirazione, la forza, di questa profonda visione meditativa,
esprimeremo le nostre realizzazioni.
E’ un Sutra completo
nel quale meditiamo e nel contempo stiamo dando l’insegnamento in
esso contenuto. Dunque lo studio del testo non è semplice lettura di
versi, ma è l’espressione della nostra profonda realizzazione
interiore.
Sebbene la
realizzazione della vacuità o l’interdipendenza dei fenomeni non
sia ancora chiara, attraverso la visualizzazione di Avalokitesvara
iniziamo a piantarne il seme affinché essa possa verificarsi in noi.
E’ anche un modo per ricevere una benedizione, è una meditazione
che porta in sé moltissimi benefici.
Recitiamo
il testo e cerchiamo di meditare in questo modo.
Il centro, la sintesi del Sutra del Cuore, consiste nei cinque
sentieri:
Il sentiero dell’accumulazione;
Il sentiero della preparazione;
Il sentiero della visione;
Il sentiero della familiarizzazione;
Il quinto, che è il frutto dei sentieri precedenti, è lo stato di
colui che non deve più apprendere, cioè lo stato
dell’illuminazione.
La sintesi del percorso è espressa dal mantra.
“TADYATHA”
indica il modo per meditare sulla vacuità, la realtà ultima,
altrimenti detta mancanza di esistenza intrinseca, o “non sé”.
Il primo GATE significa andare, andare nel sentiero
dell’accumulazione, laddove si impara e si riflette sul significato
della vacuità. Naturalmente anche in esso è implicita la
meditazione, ma soprattutto vengono messe in risalto le due
caratteristiche dell’apprendere e del riflettere sulla vacuità. E’
il momento in cui si raccolgono le informazioni sulla realtà ultima
o vacuità.
Il secondo GATE è riferito al passaggio che avviene quando si
posseggono tutte le informazioni relative alla vacuità e alla
mancanza di esistenza inerente del sé e dei fenomeni e si comincia a
formarne l’immagine, ciò corrisponde al sentiero della
preparazione. Avere un’immagine abbastanza chiara di cosa sia la
vacuità, la realtà ultima del sé e dei fenomeni, ci permette,
incontrandola, di poterla riconoscere.
PARAGATE indica il momento in cui si incontra la realtà ultima, si
va nel sentiero della visione, ed è il primo momento in cui si
trova, davanti a sé, quella realtà.
Naturalmente venirne a contatto una sola volta non basta bisogna
conoscerla meglio e familiarizzarsi con essa, si entra così nel
sentiero della familiarizzazione, PARASAMGATE.
Permanendo nella familiarizzazione ci si fonde con quella realtà e
ci si trova nel sentiero di buddhità, di chi non ha più nulla da
apprendere in quanto egli stesso è diventato quell’essenza, BODHI.
Riassumendo:
il primo GATE è andare nel sentiero dell’accumulazione; il secondo
GATE è andare nel sentiero della preparazione; PARAGATE è andare
oltre, entrare nel sentiero della visione; PARASAMGATE,
è andare ancora più in là, entrare nel sentiero della
familiarizzazione; BODHI indica la perfezione della familiarizzazione
quindi l’approdo allo stato dell’illuminazione.
Questa è la descrizione fondamentale per la meditazione sulla
vacuità che agisce in correlazione con i cinque sentieri ed è
particolarmente riferita al Bodhisattva, colui che ha già realizzato
la bodhicitta ed è entrato nel sentiero mahayana, il sentiero del
Bodhisattva appunto.
Colui che ha sviluppato la bodhicitta acquisisce gradualmente la
familiarità con la vacuità. Esistono casi di persone che prima
realizzano la vacuità e poi la bodhicitta. Ci sono anche coloro che,
nella condizione di ascoltatori, realizzano la vacuità e
intraprendono il sentiero mahayana sviluppando la bodhicitta. E’ un
soggetto bellissimo di cui parlare, non c’è niente altro da fare
che meditare ed è magnifico!
Noi ora ci riferiamo ad un individuo che, avendo ottenuto la
bodhicitta, sta operando al fine di realizzare la vacuità.
Che cos’è la bodhicitta? E’ l’attitudine mentale che pone come
prioritario l’interesse verso gli altri.
La bodhicitta è la combinazione di due differenti aspirazioni:
- essere di aiuto a tutti gli esseri senzienti;
- ottenere l’illuminazione per poter essere di beneficio a tutti gli esseri senzienti.
La combinazione di queste due aspirazioni permette la realizzazione
della bodhicitta. Quindi, l’aspirazione ad aiutare tutti gli esseri
senzienti è la causa; mentre quella di ottenere l’illuminazione
per essere di beneficio a tutti gli esseri senzienti è il risultato.
Lo stato mentale di bodhicitta è il risultato naturale per aver
sviluppato la gentilezza amorevole, la grande compassione.
Nel momento in cui si realizza la grande compassione,
automaticamente, si realizza la bodhicitta.
La
causa diretta della grande compassione è la pura intenzione, (in
tibetano Lak Sam),
che consiste nella decisione personale di volersi assumere la
responsabilità di aiutare tutti gli esseri senzienti. Questo puro
atteggiamento consiste nel fare da sé le cose, senza aspettare
l’intervento altrui. Anche se si è circondati da molte persone non
si pretende la loro partecipazione o sostituzione nell’azione, la
responsabilità è totalmente nostra e dobbiamo agire con cuore
limpido. Questa è la pura intenzione, particolare per la sua
spontaneità, senza calcolo.
E’
un’intenzione magnifica perché avulsa da qualsiasi discussione,
corrisponde all’offerta spontanea che non vuole nulla in cambio,
che non attende l’intervento di nessuno. E’ esattamente l’opposto
della mentalità corrente in cui si tende ad evitare, se possibile,
ogni responsabilità, a scaricare sugli altri le incombenze più
gravose dandosi giustificazioni pseudo-etiche: “perché
lo devo fare proprio io? non mi compete, non è giusto…” Questa
è esattamente l’assenza di Lak
Sam, la pura attitudine.
Lak
Sam è un fenomeno
stupendo che deriva dalla grande compassione, ovvero, la bodhicitta
sorge dal Lak Sam,
dalla pura intenzione che è
il frutto naturale della grande compassione.
La grande compassione sottintende la compassione rivolta a tutti gli
esseri senzienti, senza nessuna eccezione. Significa prendersi cura
degli altri indiscriminatamente ed è il risultato della gentilezza
amorevole.
La gentilezza amorevole corrisponde all’atteggiamento che si ha con
le persone più care desiderando per loro ogni bene e felicità. La
compassione agisce nel desiderio che tutti gli esseri siano separati,
allontanati, dalla sofferenza, aspira alla sua eliminazione.
La gentilezza amorevole nasce dall’equanimità, non nel senso di
voler rendere tutti gli altri uguali, ma nel considerare gli altri, e
se stessi, esattamente uguali. Il nostro desiderio di stare bene, di
essere felici, corrisponde perfettamente al desiderio degli altri
esseri, ciò che è buono per noi lo è altrettanto per loro. In
quest’attitudine mentale possiamo sentire profondamente la
sofferenza degli altri, conoscerla, condividerla, perché è la
stessa nostra sofferenza.
Equanimità, gentilezza amorevole, grande compassione, pura
intenzione speciale e bodhicitta, rappresentano passi distinti che
devono essere seguiti, uno dopo l’altro.
Sarebbe magnifico se, tra colleghi, si avesse tutti questa pura
intenzione speciale, volendosi assumere il carico e la responsabilità
del lavoro e non, come invece accade, tentare di scaricarlo, se
appena possibile, sugli altri.
Un
atteggiamento privo di volontà entusiastica nell’agire, di pura
intenzione, rende tutto difficile, faticoso, interminabile e pesante.
Se agissimo con Lak Sam,
con la pura intenzione speciale, allora il tempo passerebbe
velocemente e felicemente il lavoro sarebbe leggero e saremmo molto
amati, esenti dal problema del mobbing.
La
via per realizzare il Lak
Sam è in ogni caso
lunga, anche se non si tratta della “GRANDE compassione”, ma di
una “grande compassione” attuabile in questa società. Prima
dobbiamo sviluppare la gentilezza amorevole e, prima ancora,
l’equanimità. Anche se non riusciremo a sviluppare la bodhicitta
la nostra vita quotidiana ne sarebbe in ogni modo notevolmente
migliorata, più facile.
La pratica del Dharma, o se preferite l’attuazione di questa
filosofia, non è finalizzata all’esibizione di un titolo di
“realizzatore di bodhicitta”, ma essenzialmente a rendere il
nostro quotidiano, la nostra vita, più semplice.
Anticamente, anche in Italia, si potevano ottenere onori, potere e
ricchezze nella carriera ecclesiastica, ma nulla potrebbe essere più
negativo per il Dharma, una simile attitudine è l’esatto opposto
della spiritualità autentica.
Il Dharma è pratico, riguarda la nostra vita di tutti i giorni, non
è l’affermazione di carriere e titoli accademici, evidenzia
esclusivamente l’uguaglianza degli esseri umani.
Ieri
ero a Udine, proveniente da Vicenza, e un amico mi ha chiesto se a
Vicenza c’erano molti buddhisti; io gli ho risposto: “Dimentica
i buddhisti e lavora per l’umanità”.
Il Dharma è per l’umanità, i preconcetti per cui i monaci
buddhisti dovrebbero rivolgere attenzione ai buddhisti, e i preti
cristiani ai cristiani, alimentano stupide divisioni, ignoranza e
ristrettezza mentale che produce enormi problemi. Ogni essere umano
deve operare per l’umanità.
Non mi ero mai soffermato particolarmente su tale atteggiamento
mentale ma, quando questo amico mi ha posto la domanda, ho risposto
istintivamente, d’impulso, soffermandomi poi a riflettere: “perché
dovrei andare a cercare i buddhisti? Il Dharma è per tutta l’umanità
e riguarda l’umanità”.
Praticare
l’equanimità, la gentilezza amorevole, la grande compassione, il
Lak Sam - la pura
intenzione speciale e la bodhicitta, è fondamentale, e, la pura
intenzione speciale è il nesso tra la grande compassione e la
bodhicitta.
La pura intenzione speciale è offrirsi volontariamente,
entusiasticamente, per fare le cose, senza porsi altre domande. (Non
è ovviamente simile all’offerta dei politici che sono sempre
disponibilissimi per il posto di primo ministro ad esempio!....)
Il
Lak Sam si
può facilmente riconoscere perché gioca un ruolo assolutamente
speciale nella società, permette di facilitare e semplificare ogni
realtà.
Aiutare gli altri corrisponde alla pura attitudine che si ha
conformemente alla propria capacità. Devono connettersi in ugual
misura la forza interiore e la pura motivazione.
Ad esempio, quando si dona del denaro a qualcuno è necessario
trattenere quanto serve per sé, se si desse via tutto non resterebbe
nulla per la propria sopravvivenza, bisogna dunque trovare il giusto
equilibrio. Lo stesso criterio deve essere applicato all’aspetto
interiore, si deve aver cura e far crescere le risorse spirituali,
perché se non si è in grado di aiutare se stessi non si è nemmeno
in grado di aiutare gli altri.
Domanda: Quindi
per prima cosa dobbiamo essere compassionevoli con noi stessi?
Risposta: Naturalmente,
un essere non illuminato deve prima di tutto essere compassionevole
con se stesso, solo così potrà esserlo realmente anche con gli
altri.
Domanda: Tu
parli di aiuto puro è perfetto; ma nella condizione imperfetta in
cui si aiutano gli altri per ottenere meriti, non è come se si
prestasse denaro per averne di più? Questa non mi sembra una pura
intenzione. L’aiuto agli altri, a livello ordinario, non avviene
mai nella pura intenzione, c’è sempre un certo calcolo circa i
benefici che se ne ricavano. E’ difficile avere davvero
un’intenzione pura.
Risposta:
Bisogna provvedere innanzitutto a se stessi, nel momento in cui si ha
il sufficiente per la propria vita, tutto quello che resta in
sovrappiù lo si deve dare. Trattenere più di quanto si ha bisogno è
attaccamento; ma trattenere solo il necessario significa avere un
atteggiamento compassionevole nei confronti di se stessi.
Domanda: Può
succedere che, per amore verso qualcuno, non si comprendano più i
propri limiti, quanto è bene dare e quanto no, con il rischio di
cadere nella non compassione per se stessi e ci si trova quindi a
soffrire molto, come uscirne?
Risposta:
Questa è una sofferenza sbagliata, non necessaria, evitabile. La
vita non è facile, ma offre sempre le soluzioni ai problemi e la
possibilità di rimanere nell’equilibrio interiore. Non bisogna
aspettarsi che le soluzioni nascano da un programmino già pronto,
preparato da altri, ma ci si deve impegnare in prima persona,
procedere per tentativi, guidati e sostenuti dalla consapevolezza di
essere in grado di mantenere l’equilibrio e di risolvere i
problemi.
Domanda: Hai
detto che quella sofferenza non è necessaria, allora esiste una
sofferenza necessaria? E qual è?
Risposta:
La sofferenza necessaria è la sofferenza del samsara. Se non ci
fosse la sofferenza del samsara non ci sarebbe possibilità di
sviluppare la compassione.
Di fronte alle sofferenze non necessarie, invece, non è bene
assumere un atteggiamento compassionevole nei confronti di se stessi,
anzi bisogna trovare il modo di eliminarle con determinazione e
volontà. Se invece vediamo soffrire un’altra persone a causa di
una sofferenza non necessaria, dobbiamo aiutarla, per quanto
possiamo, e sviluppare compassione nei suoi confronti.
Il senso letterale del
“Sutra del Cuore” si articola in un duplice significato: il
primo, diretto, ha come oggetto la vacuità, e il secondo, indiretto,
si riferisce al Lam Rim, cioè al percorso graduale dei cinque
sentieri. E’ essenziale non perdere mai di vista questi due aspetti
che ne costituiscono la caratteristica davvero speciale.
Leggendo le parole
sulla vacuità è sempre bene riportare alla mente i cinque sentieri:
dell’accumulazione, della preparazione, della visione, della
familiarizzazione, e di colui che non deve più apprendere.
Il significato del
“Sutra del Cuore” è talmente ampio e completo che è quasi
impossibile spiegarlo dettagliatamente in un tempo limitato, vi
consiglio quindi di ampliarne la conoscenza tramite la lettura dei
numerosi commenti, comparandoli tra loro e cogliendo in ognuno
l’aspetto particolarmente approfondito.
Io stesso, a Torino, in
un seminario sul “Sutra del Cuore” ho affrontato l’argomento in
modo diverso rispetto all’insegnamento che ho dato qui in Roma, ed
entrambi verranno trascritti, sarà così interessante confrontare i
due testi. Anche in futuro darò ulteriori insegnamenti sul “Sutra
del Cuore” e, in queste analisi comparate, sarà possibile
penetrare sempre più a fondo nella sua comprensione, che non è
semplice proprio a causa del suo duplice aspetto.
Il primo livello,
quello diretto più apparente, offre modi differenti per potersi
accostare alla vacuità, tutte le cose sono vacue, mancanti di
esistenza intrinseca. Dunque anche che anche i cinque aggregati sono
vuoti, e, procedendo nell’analisi, i diciotto elementi sono vuoti,
i dodici anelli dell’origine interdipendente sono vuoti, e sono
vuote anche le quattro nobili verità. Questi sono modi differenti di
accostarsi alla vacuità che ha diverse classificazioni.
Il livello più
apparente e diretto, appena descritto nella sua modalità di
approccio alla vacuità, mostra tutta la sua complessità e,
indirettamente indica gli stadi che conducono all’illuminazione,
ovvero i cinque sentieri.
In un approccio diretto
al “Sutra del Cuore” questo aspetto può non essere
immediatamente colto, però lo si può comprendere da come sono
espressi i modi di accostarsi alla vacuità. E’ evidente quanto sia
complesso, e al contempo completo, il “Sutra del Cuore” e ad ogni
lettura e riflessione lo possiamo capire un po’ di più.
Per il seminario di
Torino avevo preparato una relazione veramente complicata che
intendeva porre a confronto il “Sutra del Cuore” con un’opera
di Nagarjuna sulla saggezza essenziale, ma, quando ho iniziato a
parlare, mi sono reso conto della difficoltà di tale impresa, mia
nell’esprimere concetti complessi nel modo più accessibile, e,
degli uditori che dovevano avere la capacità di seguire e cogliere
tale insegnamento. Al fine di poter trarre il massimo beneficio
occorreva la collaborazione di entrambe le parti, ho così realizzato
la realtà della natura interdipendente.
Per ottenere un buon
risultato è necessaria l’unione di più concause, non dipende
soltanto dal maestro, o dagli uditori, o dal luogo, ma dalla
collaborazione e cooperazione di tutti questi fattori, ecco perché è
fondamentale realizzare la natura interdipendente della realtà.
La vacuità è
grandemente importante perché è la verità definitiva, ultima, di
tutta la realtà esistente, ma, proprio per questo, nei testi
tradizionali buddhisti si consiglia di trattarne l’argomento con
estrema cautela e prudenza, perché una cattiva comprensione della
vacuità potrebbe indurre a cadere in un estremo e quindi negli
inferi.
Qui però siamo
pienamente esentati dal rispettare tali avvertenze, non esiste alcun
pericolo per noi di cadere nelle visioni estremiste o di avere una
realizzazione immediata della vacuità, in quanto, anche se pare una
situazione paradossale, occorre essere già ad un buon livello di
accumulazione di meriti e di saggezza per essere veramente in
pericolo di inganno.
Non siamo a quel
livello e dunque ci possiamo considerare liberi dalle avvertenze e
parlare di vacuità senza nessun problema; non ci sono rischi, né
per il Lama che insegna, né per i discepoli che ascoltano.
Ci troviamo nella
magnifica posizione di poter trattare questo argomento in assoluta
tranquillità, quando avremo raggiunto un alto livello di
comprensione della vacuità allora si, dovremo stare molto attenti ed
osservare le avvertenze dei saggi.
E’ bellissimo parlare
della vacuità, anche se non la si comprende, perché si comincia ad
entrare nell’argomento e la volta successiva si coglierà un
aspetto in più e così via, sempre più in là, fino a che non se ne
avrà una grande comprensione, (con i rischi relativi).
Tutto ciò che riguarda
la nostra vita, tutto ciò che consideriamo molto prezioso, parte da
zero e ritorna a zero.
Non dobbiamo pensare di
poter vedere subito la vacuità, ci arriveremo attraverso la
deduzione, il ragionamento. Nel ripercorrere la propria vita, il
passato, il presente e quella che sarà una possibile conclusione, si
osserva l’evoluzione naturale di ogni realtà, lo si sperimenta
anche nei sentimenti, nelle emozioni, in tutto ciò che ci
attraversa.
Il nostro prezioso
corpo, articolato e complesso, deriva da qualcosa di infinitamente
piccolo, il concepimento. E’ una situazione davvero singolare,
quasi buffa, che merita una riflessione, perché, questo prezioso
corpo, come ha avuto inizio così finisce, dunque, i cinque aggregati
sono vuoti.
La vacuità non
significa essere nulla, ma indica che tutto inizia con la vacuità e
finisce nella vacuità. E’ molto semplice, dalla grande vacuità
tutto viene ed alla grande vacuità tutto torna e, tra questi due
momenti, la confusione presente è assolutamente inutile, per questo
realizzare la vacuità è essenziale. Il “Sutra del Cuore”
racconta questa realtà.
La verità ultima,
definitiva è qualcosa di differente dal modo convenzionale con cui
ci accostiamo alle cose. E’ possibile realizzare la vacuità
soltanto quando esiste la presenza mentale e la visione acuta e
lucida di ogni realtà. Senza la presenza mentale e la capacità di
guardare le cose nella loro essenza è come se fossimo ciechi,
incapaci di vedere la vera natura della realtà.
Quando si osservano le
cose nella loro verità ultima non c’è più spazio per
l’attaccamento e l’afferrarsi, non solo agli oggetti esterni, ma
anche a se stessi. Tutto diviene più semplice, limpido, facile.
Durante la lettura del
“Sutra del Cuore” dobbiamo tenere a mente, sempre, almeno questi
concetti.
Il
“Sutra del Cuore” è un discorso davvero unico.
***
Il Sutra del cuore della sagezza
In Sanskrit: Bhagavati
Prajna Paramita Hridaya
Il cuore della
Bhagavati, la perfezione della saggezza
Così una volta udii:
Il Bhagavan dimorava a
Rajgriha, presso il Picco dell’Avvoltoio, con un gran numero di
Arhat ed un gran numero di Bodhisattva, ed a quel tempo il Bhagavan
era entrato nell’assorbimento meditativo sulla varietà dei
fenomeni chiamato “percezione profonda”. In quello stesso tempo,
l’arya Avalokiteshvara, il Bodhisattva mahasattva, era assorto
nella stessa pratica della profonda perfezione della saggezza e vide
che anche i cinque aggregati sono vuoti di natura intrinseca.
Quindi, tramite
l’ispirazione del Buddha, il venerabile bikshu Shariputra si
rivolse all’arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, e gli
disse: “Come deve addestrarsi un figlio o figlia del lignaggio dei
Bodhisattva, che desideri impegnarsi nella pratica della profonda
perfezione della saggezza?”.
Quando fu detto questo,
l’arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, rispose al
venerabile bikshu Shariputra e disse: “Shariputra, ogni figlio o
figlia del lignaggio dei Bodhisattva, che desideri impegnarsi nella
pratica della profonda perfezione della saggezza, dovrebbe vedere
chiaramente nel seguente modo: dovrebbero vedere distintamente che
anche i cinque aggregati sono vuoti di natura intrinseca.
“La
forma è vuota, la vacuità è forma; la vacuità non è altro che
forma, la forma non è altro che vacuità. Allo stesso modo sono
vuote le sensazioni, le percezioni, le formazioni mentali e la
coscienza.
Quindi, Shariputra,
tutti i fenomeni sono vacuità; essi sono privi di caratteristiche
peculiari; non sono nati, non cessano; non sono contaminati, non sono
incontaminati; non sono incompleti e non sono completi.
“Quindi,
Shariputra, nella vacuità non c’è forma, né sensazione, né
percezioni, né formazioni mentali, né coscienza. Non c’è occhio,
né orecchio, né naso, né lingua, né corpo, né mente. Non c’è
forma, né suono, né odore, né gusto, né oggetti concreti, né
oggetti mentali. Non c’è nessun elemento visivo, così fino a
nessun elemento mentale fino ad includere nessun elemento della
coscienza mentale. Non c’è ignoranza, non c’è estinzione
dell’ignoranza, e così fino a nessun invecchiamento e morte, e
nessuna estinzione dell’invecchiamento e della morte. Allo stesso
modo, non c’è sofferenza, origine, cessazione o sentiero; non c’è
saggezza, né ottenimento e neppure mancanza di ottenimento.
“Quindi,
Shariputra, poiché i Bodhisattva non hanno ottenimenti, si basano e
dimorano nella perfezione della saggezza. Non avendo oscuramenti
nelle loro menti, essi non hanno paura, ed essendo andati totalmente
oltre l’errore, essi raggiungono la meta finale: il nirvana. Tutti
i Buddha che dimorano nei tre tempi hanno ottenuto il pieno risveglio
dell’insorpassabile, perfetta illuminazione basandosi su questa
profonda perfezione della saggezza.
“Quindi,
si dovrebbe sapere che il mantra della perfezione della saggezza - il
mantra della grande conoscenza, il mantra supremo, il mantra uguale a
ciò che non ha uguale, il mantra che fa tacere tutte le sofferenze -
è vero perché non è ingannevole. Si proclama il mantra della
perfezione della saggezza:
TADYATHA GATÉ GATÉ
PARAGATÉ PARASAMGATÉ BODHI SVAHA
Shariputra, così i
Bodhisattva mahasattva dovrebbero addestrarsi alla profonda
perfezione della saggezza”.
Quindi, il Bhagavan si
svegliò dal suo assorbimento meditativo e lodò l’arya
Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, dicendo che era
eccellente.
“Eccellente!
Eccellente! Figlio del lignaggio dei Bodhisattva, è proprio così;
dovrebbe essere così. Bisogna praticare la profonda perfezione della
saggezza proprio così come hai rivelato. Perciò anche i Tathagata
se ne rallegreranno”.
Come il Bhagavan
pronunciò queste parole, il venerabile bikshu Shariputra, l’arya
Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, insieme all’intera
assemblea, inclusi i mondi degli dei, degli umani, degli asura e dei
gandharava, tutti gioirono e lodarono ciò che il Bhagavan aveva
detto.
Note:
Bhagavati:
(Sanscrit,
Tib. Gyal wai yum) Madre dei Buddha, si riferisce alla perfezione
della Saggezza, che è la madre e la causa fondamentale
dell’Illuminazione.
Bhagavan:
(Sanscrito, Tib: chom
dhen de ) Titolo generalmente attribuito ad un essere illuminato,
letteralmente significa “colui che ha completamente illuminato gli
ostacoli e possiede tutte le qualità”. Sinonimo di “Tathagata”
(Sanscrito) e di “de war sheg pa” (Tibetano) nel senso di “colui
che ha raggiunto lo stato di piena calma e piena illuminazione”. In
questo brano ci si riferisce al Buddha Sakyamuni.
Rajgriha:
(Sanscrito, Tib. gyal poe khab) Luogo nel quale si erge un palazzo
reale.
Picco
dell’Avvoltoio:
Montagna con la cima a
forma di avvoltoio, il posto nel quale viene impartito il sutra
secondo la tradizione. Il Picco dell’Avvoltoio viene identificato
popolarmente con una collina vicino a Rajghir, nello stato indiano
del Bihar.
Arhat:
(Sanscrito, Tib. dra chom pa) Che ha raggiunto il nirvana. Detto
anche Sarvaka o Pratyeka Buddha. Nel testo originale tibetano il
termine è bikshu, ma si intende arhat.
Bodhisattva:
(Sanscrito, Tib. jang
chub sem pa) Essere che possiede la Bodhicitta.
Assorbimento
meditativo:
(Sanscrito, Tib. ting
nge zin) Samadhi, una forma di meditazione.
Varietà dei
fenomeni:
(Tib., choe kyi nam
drang) Le varietà dei fenomeni: i 5 aggregati, le 12 fonti dei
sensi, i 18 elementi, i 12 anelli della catena dell'origine
interdipendente, le 4 nobili verità, le 4 fiducie, i dieci poteri di
Buddha, ecc...
Percezione profonda:
(Tib.
zab mo nhang wa) Vedere la vera e profonda realtà ultima dei
fenomeni.
Arya:
(Sanscrito,
Tib. Phag pei Gang zag) Un essere superiore che ha raggiunto la
saggezza della diretta realizzazione della vacuità o che ha seguito
il sentiero in uno dei veicoli.
Avalokiteshvara:
(Sanscrito,
Tib. chen re zig) Conosciuto
come il “Buddha della compassione”.
Bodhisattva
mahasattva:
(Sanscrito, Tib. jang
chub sem pa sem pa chen po) Bodhisattva di ordine superiore o
Bodhisattva che ha conseguito il sentiero dei Bodhisattva o il
sentiero mahayana della visione.
Bodhisattva
mahasattva arya Avalokiteshvara:
(Sanscrito,
Tib. jang chub sem pa sema pa chen po phags pa chen re zig) Si
riferisce ad un singolo individuo conosciuto come il Bodhisattva
mahasattva arya Avalokiteshvara, diverso dal “Buddha della
compassione” Avalokiteshvara. Qui infatti viene identificato come
un Bodhisattva sotto le sembianze di un bikshu, Bodhisattva,
mahasattva e arya.
La pratica della
profonda perfezione della saggezza :
(Tib.
she rab kyi pha rol du chin pai zab moi chod pa).
I cinque aggregati:
(Tib. phung po ngha,
Skt. skandha) Forme, sensazioni, percezioni, formazioni mentali e
della coscienza.
Vuoti di esistenza
intrinseca:
(Tib.
ran shin gyi tong pa).
Venerabile bikshu:
(Tib. thse dang dhen
pa) Titolo attribuito ad un bikshu dalla mente sveglia ed
intelligente.
Shariputra:
Figlio di Sharit,
conosciuto come un bikshu dalla mente acuta fra i discepoli di Buddha
Sakyamuni.
Figlio o figlia del
lignaggio dei Bodhisattva:
(Tib.
rigs kyi bu vam rigs kyi bumo).
Le tre porte della
liberazione:
(Tib. nam thar go sum)
La porta della vacuità, la porta del senza-segno e la porta del
senza-desiderio.
Le 12 sorgenti dei
sensi:
Le sei sorgenti dei sensi e le sei facoltà.
I 18 elementi:
Le sei sorgenti dei
sensi, le sei facoltà e le sei coscienze.
I 12 anelli della
catena dell'origine interdipendente :
Ignoranza, Azione
volontaria, Coscienza, Nome e Forma, Sorgenti dei sensi, Contatto,
Sensazioni, Attaccamento, Brama, Concepimento, Nascita,
Invecchiamento e Morte.
Le 4 Nobili Verità:
La Verità della
sofferenza, la Verità delle cause della sofferenza, la Verità della
cessazione e la Verità del sentiero.
I 5 sentieri:
Accumulazione,
Preparazione, Visione, Meditazione e Cessazione dell’Apprendimento.
Nirvana:
(Sanscrito, Tib. Nyang
De) Stato al di là della sofferenza.
Mantra:
(Sanscrito, Tib. yid
kyob) Che protegge la mente.
Tathagata:
(Sanscrito)
vedi Bhagavan.
Asura:
(Sanscrito, Tib. Lha ma
yin) Semidio – un essere di un regno a metà tra gli uomini e gli
dei.
Gandharava:
(Sanscrito,
Tib. di zha) esseri informi che si cibano di “odore”