La Mente nella
Màhamudhrà
Lama
Geshe
GEDUN
THARCHIN
****
INDICE
LA MENTE NELLA
MAHAMUDRA
Nota
dell’autore
PRIMA PARTE - Roma 2007
Meditazione
di Māhamudhrā
SECONDA PARTE - Assisi * settembre 2009 *
Introduzione alla Pratica di Māhamudhrā
I
Preliminari alla pratica di Māhamudhrā
Māhamudhrā
antitesi dell’ego
Il
karma e i Tre Aspetti Principali del Sentiero
Le
tenebre nel Kali-Yuga e la luce nel cuore
TERZA PARTE – Torino * febbraio 2010
La Pratica di Māhamudhrā
Illusione,
conoscenza del sé e della propria mente
Le
Quatto nobili Verità e le Sei Pāramitā nella Māhamudhrā
Māhamudhrā,
universale dono del Dharma
Testi
annessi:
I Tre Aspetti Principali del Sentiero
Gli Otto Versi di Trasformazione della Mente
Preghiera di dedica del Lam Rim
Preghiera di Māhamudhrā
****
NOTA
dell’ AUTORE
QUESTO E’ IL
TESTO DELL’ARGOMENTO AFFRONTATO DURANTE tre SEMINARI, IL PRIMO
TENUTOSI 2007 a Rome e secondo AD ASSISI DAL 18 AL 20 SETTEMBRE 2009
E IL terza A TORINO DAL 13 AL 14 FEBBRAIO 2010.
L’OBIETTIVO DEI
SEMINARI ERA INTRODURRE LA CAPACITA’ DI RICONOSCERE LA PROPRIA
MENTE-CUORE NELLA FOCALIZZAZIONE DELLA PRATICA DI Māhamudhrā,
in TIBETANO, Phyag-rgya
chen-po,
CONOSCIUTA ANCHE COME IL GRANDE SIGILLO.
L’INSEGNAMENTO
DELLA PARTE di ASSISI, E’ STATO, DATO IN ITALIANO, MENTRE A TORINO
IN INGLESE GRAZIE ALLA PRECISA TRADUZIONE DI ROBERTO VOLPON CHE, CON
RENATA SIMONOTTI, NE HA CURATO LA TRASCRIZIONE. RINGRAZIO QUESTI
AMICI DI CUI APPREZZO L’ENTUSIASMO E LA DEDIZIONE.
RINGRAZIO
PARTICOLARMENTE GLI ORGANIZZATORI E I PARTECIPANTI AI SEMINARI, E
TUTTI GLI AMICI IN ITALIA E ALL’ESTERO.
GEDUN THARCHIN
****
PRIMA
PARTE
Meditazione
di Māhamudhrā
Roma
2007
****
Meditazione
di Māhamudhrā
La ragione del
nostro incontro è la ricerca del significato della vita, un
passaggio affatto scontato e spesso problematico, in quanto
tendenzialmente riteniamo obiettivi primari, da conquistare con
qualsiasi mezzo, gli ottenimenti materiali e la soddisfazione dei
desideri mondani.
A volte incontriamo
persone a cui apparentemente non manca nulla per avere felicità,
sono sani, agiati, in una condizione di benessere generale, eppure
vivono in perenne stato di smarrimento e di incertezza verso un
futuro che temono e preferiscono ignorare, rimuovono tutto ciò che
non cade materialmente nel cerchio della loro comprensione, decidono
di eliminare ogni dubbio e negano drasticamente qualsiasi possibile
continuità.
Se non si muore
improvvisamente a causa di un incidente, ma si sperimenta nell’agonia
il processo della fine è possibile avere nell’ultimo istante la
percezione della vita futura, però è ormai troppo tardi, manca il
tempo per riflettere e allora si è assaliti da una disperata
tristezza. Per questo è importante approfondire e analizzare oggi
cosa potrebbe rimanere dopo questa forma di esistenza, anche se si
tratta di fenomeni che fanno parte di una realtà oscura, non
visibile direttamente, a cui ci si può avvicinare solo tramite
realizzazioni superiori che però, non essendo ancora state
raggiunte, sono accessibili unicamente tramite il ragionamento.
Non si tratta di un
ragionamento ordinario, ma della costruzione logica di un pensiero
che si fonda su percezioni limpide in quanto la logica non è
esclusiva prerogativa dell’intelletto, riguarda anche la capacità
di avvertire in modo esplicito e autentico gli eventi.
Le argomentazioni
logiche devono basarsi sulla percezione diretta che, a sua volta,
diventa la prova dell’autenticità della deduzione intellettiva.
Sono dunque tre le
tappe di approccio alla conoscenza della realtà:
-
La
conoscenza basata sulla percezione
diretta;
-
La
conoscenza basata sulla logica
deduttiva, a sua
volta fondata sulla percezione diretta;
-
La
conoscenza basata sulle realizzazioni
ottenute tramite la percezione diretta e la logica deduttiva.
Consideriamo ad
esempio la fiducia nelle reincarnazioni, una persona che vi creda può
tentare di chiarire questa idea a se stessa e agli altri, ma quali
strumenti possiede per convincere che ciò corrisponda al vero? come
si può dimostrare che la mente di un neonato, o di un feto ancora in
formazione, sia la manifestazione di un precedente continuum mentale?
Certamente non è
possibile averne con immediatezza una visione accertata, però si può
procedere logicamente confrontando la propria affermazione con una
realtà analoga, ad esempio osservando che la mente di questo momento
è l’imprescindibile risultato della mente del momento precedente,
poiché se non fosse esistita ieri non potrebbe esserci nemmeno oggi.
Lo stesso procedimento vale per la mente neonata, e questa è una
percezione diretta che supporta la concezione deduttiva del passaggio
di vita in vita.
Ogni conoscenza
nasce dal dubbio che, anche se in parte è negativo in quanto tende a
negare l’esistenza di un evento, possiede un secondo aspetto
positivo, seppur minimo, e affinché la positività prevalga sulla
negatività è necessario applicare il ragionamento.
Analizziamo le forme
presenti nella mente attuale e compariamole a quelle dello stato
iniziale di questa vita, possiamo così constatare che le qualità
mentali di ora sono analoghe alle precedenti e, procedendo a ritroso
in questo movimento, deduciamo che lo stesso processo può essere
applicato ad un continuum mentale che si trasferisce da un’esistenza
all’altra.
Il dubbio ingenera
il ragionamento sulla similitudine mantenuta dalla mente nelle
diverse fasi della vita esistenza e da questo si desume l’esistenza
di un continuum mentale che avanza di momento in momento, di vita in
vita.
Domanda: Scusa
Geshe, se anche comprendo che la mia mente attuale è simile a quella
dell’infanzia ad esempio, come posso dedurre che ciò sia valido
per vite precedenti?
Lama: Perché
non ci sono differenze, la mente di oggi è il risultato di quella
dell’inizio che a sua volta non può che essere il risultato di
quella che l’ha preceduta; vi è una continuità ininterrotta del
processo mentale con impronte che altrimenti non potrebbe potrebbero
manifestarsi né prima né tantomeno oggi.
Domanda: Però
è un’ipotesi, non può essere certezza…..
Lama: Con
questo ragionamento intendiamo andare al di là delle certezze, dei
dogmi enunciati da qualsiasi religione, applicando un procedimento
logico, assolutamente libero da condizionamenti, che può portare a
credere o no nell’esistenza di vite passate e future.
L’argomento di
oggi sarebbe la mente primordiale, ma se non comprendiamo il
continuum mentale che passa di vita in vita, come possiamo
addentrarci nello stato originale della mente?
Nell’istante in
cui si afferma che la mente, il continuum mentale, è senza inizio,
qual è il punto in cui si colloca la mente primordiale?
Generalmente si
pensa che riferendosi allo stato primordiale della mente si debba
ritornare ad un’epoca lontanissima, ma in realtà non sappiamo
nulla e ogni tentativo di fissare un tempo genera soltanto
confusione.
La caratteristica
della mente è davvero interessante, essa può coprire un ciclo
infinito, come afferrare il tutto in un unico momento, l’universo
intero può essere contenuto dalla mente in questo stesso istante.
La nostra mente è
un fenomeno veramente inspiegabile, e non è necessario cercare
miracoli all’esterno, già semplicemente osservandola possiamo
assistere ad un evento veramente misterioso.
Sono
molti gli oggetti di meditazione consigliati, ma il livello più
elevato è relativo alla meditazione sulla natura della mente, in
sanscrito: “Māhamudhrā”,
tradotto nelle lingue occidentali in “Grande
Sigillo”, ma nel
contesto odierno è inteso come meditazione sulla vera natura della
mente, la sua realtà ultima.
La meditazione di
Māhamudhrā si articola in due fasi, nella prima ci rilassiamo
focalizzandoci sulla natura convenzionale della mente, mentre nella
seconda ci concentriamo sulla sua natura ultima.
Gli occidentali,
sempre frettolosi, impazienti e perennemente agitati, si illudono di
potersi appropriare facilmente di tecniche superefficienti che
consentano l’immediato accesso alla meditazione sulla natura della
mente, ma ciò è assolutamente impossibile, il cammino per acquisire
tale capacità è lungo e necessità prima di tutto di un’adeguata
e paziente preparazione della mente attraverso le pratiche
preliminari atte a creare le giuste condizioni.
A questo punto,
però, è necessario fare chiarezza sul significato delle “pratiche
preliminari”, perché il primo fraintendimento consiste nel
considerarle semplicemente una sequela di compiti da eseguire prima
di affrontare la pratica vera e propria, persuasi che soltanto dopo
aver completato la recitazione di un prestabilito numero di mantra, o
la quantità di prosternazioni prescritte, o altro ancora, si sia
autorizzati a procedere.
È una concezione
tradizionale, in sé positiva, a patto però che non sia limitata a
un computo aritmetico e meccanicistico di tipo quantitativo e nemmeno
si devono considerare queste pratiche come fenomeno preventivo
definito entro un arco temporale, al contrario sono sempre presenti,
costantemente mantenute in concomitanza con qualsiasi altra pratica.
Dunque, quali sono le pratiche preliminari?
La pratica
preliminare fondamentale è la grande compassione, ogni nostra
preghiera, azione, intenzione, ne deve essere permeata. La grande
compassione rientra nell’ambito dell’etica che fa parte dei tre
addestramenti superiori: della moralità, della concentrazione e
della saggezza.
-
L’addestramento
superiore della moralità si fonda sulla compassione universale;
-
L’addestramento
superiore della concentrazione si colloca al primo livello del
Māhamudhrā, ovvero la concentrazione sulla mente;
-
L’addestramento
superiore della saggezza appartiene al secondo livello del
Māhamudhrā e consiste nella contemplazione della realtà ultima
della mente.
La grande
compassione è l’indicazione primaria enfatizzata da tutte le
tradizioni religiose, buddhista, cristiana, islamica, ebraica…. ed
è una norma applicata anche da coloro che non sono affatto
religiosi, anzi spesso i non credenti sono i più generosi
nell’applicazione di questa qualità umana.
La grande
compassione è sconfinata, non ha limite, non soggiace all’autorità
di nulla e di nessuno, è un infinito dono della natura stessa, ed è
fondamentale perché fino a quando la mente-cuore non è
completamente aperta è impossibile accogliervi il Māhamudhrā.
Aprire la
mente-cuore è l’azione più importante della nostra vita, è
l’attività della grande compassione, la prima pratica preliminare.
Oggi stiamo
affrontando semplicemente il significato sostanziale delle pratiche
preliminari senza addentrarci nel complesso labirinto delle
tradizioni che prescrivono precise modalità e rituali; recitare il
mantra o la preghiera del Padre nostro ha esattamente lo stesso
valore.
Pensare che le
pratiche preliminari presuppongano la necessità di imitare i
tibetani nel modo di vestire, nella recitazione dei mantra, nei loro
atteggiamenti esteriori è proprio sciocco e suscita immancabile
ilarità in oriente perché è evidentemente qualcosa di
assolutamente estraneo alla cultura occidentale. Ognuno deve
praticare secondo le proprie tradizioni.
L’attitudine non
discriminate, la capacità di vedere l’autenticità della pratica
in ogni religione e cultura appartiene al vero Māhamudhrā.
Le pratiche
preliminari sono dunque fondamentali per poter sviluppare la
concentrazione sulla mente e realizzarne la natura e consistono nella
compassione, nell’amore e nella forza che vi applichiamo.
Il secondo livello
del Māhamudhrā è particolarmente bello, finalmente non rivolgiamo
più l’attenzione all’esterno, distratti dai giudizi su qualcuno
o qualcosa, ma restiamo concentrati in noi stessi, nella natura della
mente. La difficoltà di questa pratica consiste proprio
nell’osservazione della mente da parte della mente stessa.
Generalmente attiviamo due fattori: soggetto e oggetto, la mente, il
soggetto, medita su un oggetto esterno; invece nel secondo livello di
Māhamudhrā il fenomeno è unico perché la mente è
contemporaneamente soggetto e oggetto e contempla se stessa.
Questo è il miglior
metodo di conoscenza perché nel momento in cui la mente si concentra
su se stessa non è più distratta da passato o futuro, decadono
naturalmente valutazioni, giudizi, aspettative o paure, è
completamente libera da ogni preoccupazione.
Malgrado ciò i
pensieri continuano ad affacciarsi alla mente nel tentativo di
distrarla e la migliore risposta è la non risposta, così come ha
dimostrato inconfutabilmente il Mahātmā Gandhi che in ogni
circostanza, anche la più dura, ha mantenuto inalterata l’attitudine
equanime e pacifica della non violenza.
Se vogliamo trovare
ad ogni costo una risposta agli infiniti pensieri che affollano la
mente sprechiamo una quantità enorme di energie e di tempo senza
ottenere altro che un peggioramento dell’agitazione e confusione
mentale. Non bisogna rispondere, ma neppure ignorare, semplicemente
si deve osservare il fenomeno con un equilibrato distacco. Nelle
tradizioni Theravāda o Zen si insiste particolarmente sulla
obbligatorietà di lasciar andare, di permettere che gli eventi siano
nel modo in cui sono senza forzare, senza contrapporsi, è la stessa
pratica contemplata nello Dzogchen, nel Māhamudhrā, cambiano le
terminologie, ma la sostanza è la stessa, non si risponde né si
ignora, si osserva rispettosamente.
Cosa succede nel
momento in cui non opponiamo resistenza e ci limitiamo a scrutare e
con rispetto i nostri pensieri? Ci accorgiamo che sono come bolle di
sapone che non appena formate svaniscono, scoppiano da sole. In
questo modo si autoeliminano sia passato che futuro e resta soltanto
la vacuità del momento presente, che non significa mancanza di
coscienza come se stessimo dormendo, al contrario la nostra mente è
particolarmente lucida, chiara come il sole che risplende nel cielo,
malgrado le nuvole che lo offuscano momentaneamente.
La mente è anche
simile ad un fiume che scorre regolarmente, nemmeno smosso dagli
uccelli che si tuffano, dai pesci che nuotano o dalle pietre lanciate
nell’acqua, rimane ferma, per nulla turbata dai molti pensieri,
raggiunge la calma, la pace.
Un
ulteriore passo nel Māhamudhrā è dato dalla ricerca della mente,
dov’è? Pare naturale
che sia qui, ma se la cerchiamo non la troviamo. Questa
investigazione appartiene al Lhagtong,
ovvero alla visione del livello superiore della mente, una pratica
preceduta da quella di Shine,
o calmo dimorare, che porta alla sua pacificazione.
Per poterci dedicare
a queste due pratiche dobbiamo preventivamente aver predisposto la
mente con i preliminari dell’amore, della compassione e della
rinuncia.
Questo argomento
meriterebbe una lunga riflessione, ma per ora è bene fermarsi,
chiarire e approfondire quanto detto, dunque risponderò alle vostre
domande, poi mediteremo insieme.
Domanda: Le
sofferenze o disabilità fisiche possono interferire o addirittura
impedire la capacità di osservazione della mente?
Lama: No,
le condizioni del corpo in questo caso sono assolutamente
ininfluenti, siamo ad un livello che travalica i limiti fisici.
Domanda: Le
emozioni molto forti, sia positive che negative, possono essere un
ostacolo?
Lama: Tutte
le emozioni appartengono alla categoria dei pensieri che emergono
ininterrottamente durante la pratica e dunque dobbiamo imparare ad
osservarle con rispetto nella compassione maturata nella pratica
preliminare, senza indugiarvi e mantenendo il dovuto distacco.
Ricordate i tre
livelli della pratica:
-
Preliminari
di amore e compassione;
-
Calmo
dimorare della mente;
-
La
realizzazione dell’osservazione e la ricerca della mente.
Queste tre tappe
sono fondamentali, prima di tutto dobbiamo sviluppare e aprire il
cuore alla grande compassione, capaci di concentrarci sulla mente
mantenendola in uno stato di calma serena e profonda ed essere così
pronti ad impegnarci a cercarla, una pratica che corrisponde
all’osservazione della sua realtà ultima.
Prima di disporci a
qualsiasi pratica dobbiamo compiere un atto di fiducia e prendere
rifugio nei tre gioielli, Buddha, Dharma e Sangha, che per i
cristiani potrebbero corrispondere alla Trinità o in altre
tradizioni ad Esseri superiori. E’ un attitudine fondamentale che
implica la disponibilità incondizionata ad affidarci alla guida che
ci accompagnerà per tutto il percorso.
Per
aiutarci ad espandere la grande compassione leggeremo insieme gli
“Otto Versi di Trasformazione della Mente” (V:
testi annessi pag. I),
poi mediteremo per sviluppare la calma mentale e infine leggeremo il
“Sūtra della Perfezione della Saggezza” conosciuto come Sūtra
del Cuore” (V.
testi annessi pag. II) che
appartiene alla terza fase della pratica.
Seguono
letture e meditazione
Leggiamo
ancora i “Tre Aspetti principali del Sentiero” (V:
testi annessi pag. IV).
La prima pratica
preliminare al Māhamudhrā è dunque la gentilezza amorevole, la
grande compassione, la seconda la calma dimorante, la terza la
realizzazione della mente, e tutte e tre sono contenute e descritte
nel Sūtra del Cuore che è l’essenza di tutti i
Prajñāpāramitāsūtra, basilare insegnamento Māhamudhrā.
Non cercate in testi
rari e complessi il significato del Māhamudhrā, il Sūtra del Cuore
contiene ed esprime tutto ciò che esiste da tempo senza inizio, non
necessita di altra spiegazione, è completo e a disposizione di
chiunque. Non esistono nel buddhismo insegnamenti segreti gestiti da
pochi eletti, questo è un ulteriore inganno, una grande illusione,
la pratica del Dharma è accessibile a tutti in modo assolutamente
equanime, la sua realizzazione dipende unicamente dalla personale
capacità e impegno. Il Dharma non è qualcosa che cala dall’alto,
né una benedizione del maestro, né un vassoio di dolci, è una
preziosa potenzialità posseduta in eguale misura da ogni essere
vivente.
Il Māhamudhrā
appartiene ai fenomeni dell’universo, è l’essenza stessa di
tutto ciò che vi è contenuto, dunque la nostra mente è in questa
essenza. Il Māhamudhrā semplifica la realtà, non la complica, e
noi in questa pratica diveniamo persone più semplici, umili,
gioiose, perché la nostra vita è lineare, priva di sovrastrutture
complicate e disturbanti. Nel momento in cui meditiamo sulla mente
stiamo meditando sul tutto e questo è magnifico. Domare la mente è
domare ogni cosa.
Questa è stata una
breve ma essenziale introduzione alla pratica di Māhamudhrā che è
bene non scordare e applicare in qualsiasi circostanza, da soli, con
amici, così da passare dalla fase del dubbio a quella della
convinzione e da questa alla realizzazione.
Ora dedichiamo i
meriti accumulati in questa giornata di Dharma a beneficio di tutti
gli esseri senzienti e affinché la pace si diffonda sul pianeta.
*****
SECONDA PARTE
Introduzione alla pratica di Māhamudhrā
Assisi * 18 - 20 settembre 2009 *
***
I
preliminari alla pratica di Māhamudhrā
Assisi
è un luogo ascetico, favorisce l’approfondimento mistico, e
poterlo fare incontrando amici spirituali con cui condividere questo
interesse è magnifico. Da molti anni ci ritroviamo per lavorare
sulle qualità interiori, l’unica cosa che manca è la pratica
personale, assidua e vigorosa, così cerchiamo di intensificare
l’attenzione in questi incontri, imprimendovi la motivazione di
essere costanti, fermi, stabili nella pratica per poter realmente
crescere spiritualmente.
Il
Dharma affonda le radici nelle buone motivazioni del cuore.
Qualsiasi
azione, positiva o negativa, darà un risultato corrispondente alla
motivazione che l’ha determinata, questa è la legge ineludibile
del karma, non è di facile comprensione perché appartiene a un
livello estremamente sottile.
Quando
mi chiedono cos’è il Dharma, termine molto ampio, io rispondo che
è la fiducia nella legge del karma, nella natura interdipendente di
ogni fenomeno, è il centro su cui impostare la vita.
Conoscere
il Dharma è conoscere la realtà nella sua autentica natura di
interdipendenza; l’approccio filosofico è articolato e complesso,
ma sul piano pragmatico corrisponde esattamente alla nostra
quotidianità, ogni azione vi rientra.
Dunque
la fiducia nel karma è il fondamento del Dharma, è ancora più
essenziale della fede nel Buddha, o nel guru o in Dio, perché
comporta una responsabilità concreta in ogni atto e in ogni istante
della vita, il proprio cuore ne risponde totalmente.
La
filosofia, la prassi, la fede buddhista, cosa sono? Fiducia nel karma
in cui conoscere e assumere ogni responsabilità nella verità
dell’esistenza.
Tutti
vogliono conoscere la verità, sapere dov’è, cos’è, la verità
è la legge naturale di causa effetto, dell’interdipendenza dei
fenomeni, del karma.
Conoscere
la verità dà fiducia nel karma da cui sorge una forza potente nel
cuore e tutto ciò che facciamo nella vita assume significato, anche
gli errori possono essere utili se l’intenzione è pura.
Il
significato sostanziale del Dharma è avere fede nel karma, cioè
riconoscere l’essenza della realtà, l’evoluzione dei fenomeni
nella legge naturale di causa-effetto.
Questo
seminario è impostato sulla concentrazione nel riconoscimento della
mente-cuore, la pratica di Māhamudhrā,
in tibetano Phyag-rgya
chen-po,
conosciuta anche come il Grande Sigillo.
Noi
discutiamo sempre della mente, ma alla fine non troviamo mai nulla,
la Māhamudhrā è appunto la pratica che permette di riconoscere la
mente nella concentrazione meditativa. Non servono a nulla tante
parole, testi elaborati, studi complessi, la si trova soltanto nella
meditazione e, se anche non riusciamo a sperimentarla con piena
coscienza, almeno ne possiamo avere un assaggio.
La
coscienza della propria mente è essenziale e la si acquisisce in
tutte le pratiche spirituali, già in passato avevamo esaminato
questo percorso affrontando i Tre principali Aspetti del Sentiero: la
rinuncia, la bodhicitta, la saggezza.
La
rinuncia implica la conoscenza dell’esistenza e ne osserva
l’impermanenza permeata di sofferenza. Tutti noi desideriamo la
felicità e vogliamo fuggire dal dolore, dunque è necessario
staccarci dalla fonte di infelicità eliminando ogni attaccamento.
Noi
invece, completamente confusi, corriamo incontro all’infelicità
scambiandola per felicità e ci incateniamo a questa esistenza
samsarica che ne è il nutrimento, eppure senza una rinuncia vera,
pura non potremo mai trovare quella felicità già a portata di mano,
ma che non sappiamo cogliere.
Rinuncia
è porre fine a questo errore, è un termine generalmente inteso come
negativo, ma volgendo l’interpretazione in positivo, rinuncia è
semplicità, è occuparsi soltanto dell’essenziale; conoscere e
applicare la rinuncia significa trovare la gioia.
In
tutte le società il tormento maggiore è la preoccupazione per il
futuro, che si trasforma inevitabilmente in sofferenza e
attaccamento, mentre saper godere del momento presente in piena
libertà, senza voler afferrare e trattenere nulla, è gioia.
La
rinuncia non è la negazione del presente, al contrario è vivere
consapevolmente l’oggi nel modo più pieno, libero, non incatenato
da vincoli ipotetici nella ricerca di certezze future, è essere
nella vera semplicità, questa è la vita dello yogi.
Essere
yogi oggi non significa volare, avere chissà quali realizzazioni,
che senso avrebbe? per volare è molto più comodo l’aereo, già
camminare sotto il sole è sufficientemente faticoso. Tutte queste
idee bizzarre, queste magiche favole infantili, non possono che
incrementare la confusione e l’immaturità. Essere yogi è saper
vivere gioiosamente in modo semplice, essenziale, godendo dello
spazio illimitato nell’essenza completamente vuota, libera, aperta.
L’altro
giorno leggevo un testo bellissimo di una filosofa occidentale in cui
affermava che l’anima è spazio, è vuoto. Di solito noi percepiamo
l’anima come qualcosa di concreto, eterno, solido, ma fino a quando
non ci liberiamo da questa visione ristretta, chiusa, continuiamo a
camminare nella direzione che ci allontana da noi stessi e andiamo
incontro al rafforzamento delle illusioni, della sofferenza.
Rinuncia
è dunque camminare nella giusta direzione, semplificare, non
incrementare infelicità e problemi, vivere l’essenziale.
Il
secondo aspetto è la bodhicitta, la mente di grande compassione
insita in ogni essere umano, nella purezza del cuore. La mente-cuore
completamente purificata è ricolma del vero amore, dell’amore di
Dio.
Il
terzo aspetto è la saggezza, la conoscenza della realtà ultima,
della vacuità, in termini cristiani potremmo dire che è la
contemplazione, la visione di Dio.
Tutte
le sovrastrutture che noi imputiamo alla vita sono illusioni, la vita
stessa è un’illusione strettamente unita alla realtà ultima della
vacuità poiché tutto è connesso.
In
genere si dice che Dio ha creato tutto il bene, ma allora il male chi
lo ha creato? Certamente non Dio, eppure è comunque collegato a Dio,
alla realtà ultima. Senza la visione della realtà ultima piombiamo
nel caos, percepiamo solo realtà negative. Nella visione della
realtà ultima invece tutto è naturalmente illuminato dalla
limpidezza del nostro sguardo, ecco la differenza tra la verità
ultima e verità relativa.
La
nostra fisicità, l’identità che imputiamo al nostro corpo e ad
ogni oggetto, appartengono alla verità relativa, mentre nella realtà
ultima tutto si fonde nella vacuità. A livello ultimo noi siamo uno,
ecco il motivo stesso della grande compassione, non c’è divisione,
non c’è più alcun dualismo, io, tu, loro, tutto è l’UNO.
Rinuncia,
bodhicitta e saggezza sono aspetti fondamentali del sentiero
spirituale. E’ necessario riflettere costantemente sulla vita, sul
non dualismo, sull’illusione che deriva comunque dalla realtà
ultima, perché se non esistesse la realtà ultima non esisterebbe
nemmeno l’illusione.
Se
non sappiamo vedere la realtà ultima possiamo solo osservare quella
relativa, così la nostra visione è illusoria, affonda nella
confusione dualistica.
Se
invece possiamo vedere la realtà ultima, l’illusione decade
naturalmente e abbiamo una corretta visione.
Ma,
ancora, quando riusciamo a vedere sia la realtà relativa che quella
ultima, siamo capaci di osservare l’illusione senza illusione, le
vediamo perfettamente entrambe nella loro essenza non dualistica
secondo la visione della saggezza.
E’
importante ricordare queste tre fasi. Leggiamo dunque insieme il
testo radice dei tre Aspetti Principali del Sentiero, che è
fondamentale, almeno come motivazione per procedere nel cammino
spirituale. (V.
testi annessi pag. I)
Segue
lettura
La
rinuncia la bodhicitta e la saggezza implicano una mente pura, libera
dai difetti mentali nella chiara visione, una mente sensibile,
semplice, flessibile, attenta, amorevole. In questo modo si domina il
proprio ego, un lavoro faticoso ma indispensabile, non a caso nelle
scritture è detto che per raggiungere questa meta, la mente pura,
l’illuminazione, occorrono infinite esistenze.
Il
compito è arduo, richiede una grande forza e solo la fiducia nel
karma ci può aiutare in questa impresa per superare il dominio
prepotente dell’ego che è la nostra vera condanna. Tutta la
sofferenza nasce dall’ego, ed è meraviglioso vedere come San
Francesco sia riuscito a sbarazzarsene, così come simbolicamente si
è liberato dagli abiti, considerandolo spazzatura.
Per
praticare il Dharma è necessario avere la forza di liberarsi
dal’ego, esattamente come san Francesco e Milarepa, è il compito
più arduo, ma basilare. Perché tutte le religioni condannano il
suicidio? Perché è la massima debolezza, il peccato più grande,
l’assoggettamento totale all’ego.
La
forza del cuore puro che si acquisisce con la rinuncia, la
compassione, l’amore, la gentilezza, e la saggezza ci guiderà
all’illuminazione, sgretolerà il nostro potentissimo ego.
Questo
è lo scopo della vita, essere yogi nella semplicità, nella purezza,
nella chiara visione, dobbiamo sciogliere la durezza dell’ego
pietrificato nella rabbia, perché la rabbia non è forza, ma
debolezza, ed essere aggrappati all’attaccamento è un’ulteriore
manifestazione di estrema debolezza.
Lo
yogi è libero, vive nella semplicità priva di desiderio, di
attaccamento, è pura compassione, gentilezza, amore, saggezza.
L’ego
invece si autoalimenta con il desiderio, l’attaccamento, la rabbia,
la gelosia, l’odio, con ogni negatività, perché non ha la forza
di liberare se stesso, nutre la propria debolezza e ingrossa a
dismisura.
L’ego
è debolezza, si difende edificando alte mura di paura che
pietrificano il nostro cuore e sono origine di tutte le miserie
umane, le sofferenze. Più è grande l’ego e maggiore è la paura
che ci controlla.
San
Francesco non aveva paura di nulla, non la conosceva perché il suo
ego era stato completamente annullato; certamente noi non possiamo
ottenere questo risultato in un giorno, rischieremmo di accrescere i
disastri, ma dobbiamo piano piano e costantemente camminare in questa
direzione.
Nella
situazione attuale in cui siamo pienamente integrati nel samsāra
senza ego non potremmo vivere, è il nostro stesso respiro permeato
da attaccamenti, invidie, gelosie, avversioni, contrasti, rabbia, per
cui non è possibile distruggere tutto questo in un momento, è un
processo lento quanto inesorabile, un passo alla volta, con calma e
consapevolezza, senza pretendere un impossibile risultato immediato.
L’insegnamento
del Dharma è prezioso per tutti, perché non impone regole, rigide
modalità di azione, dà soltanto preziosi suggerimenti che ognuno
può applicare secondo le proprie capacità e attitudini, presenta la
realtà nella sua essenza e ogni persona decide autonomamente se,
come, e quando, accoglierli e praticarli.
La
pratica del Dharma è personale, l’individuo la deve adattare a sé
stesso, non esiste condanna o giudizio per chi non volesse accogliere
questo consiglio, è una libera scelta, noi siamo già torturati e
condannati a morte dall’ego e sarebbe proprio inutile imporre
ulteriori castighi.
La
legge naturale agisce automaticamente senza bisogno di norme, di
avvocati, di tribunali. L’ego ci affonda sempre più nel caos e il
Dharma ci propone la via d’uscita, la scelta è nostra.
Spiegavo
questi concetti ai miei amici in Sardegna e uno di loro ha ammesso di
non volersi liberare dal samsāra perché, avendo tutto, salute,
benessere, agi, ci si trovava perfettamente. In un certo senso
potrebbe aver ragione, ma significa che non ha compreso cosa sia in
realtà il samsāra, perché se lo si esamina attentamente si vede
che non contiene nulla in grado di donarci l’autentica e duratura
felicità. Oggi si può stare benissimo, ma domani?
Il
samsāra ha aspetti molto belli, desiderabili, e la sofferenza
dell’esservi dentro non è imputabile alla sua essenza, bensì alla
nostra confusione mentale che, di fonte ad un oggetto bello,
desiderabile, produce immediatamente reazioni di attaccamento, di
invidia, di avversione, di rabbia.
I
Bodhisattva di tutte le religioni pregano di rinascere nel samsāra
al solo scopo di servire gli altri, non temono la sofferenza, non
esiste paura in loro perché hanno ottenuto il pieno dominio
dell’ego. Avendo eliminato l’ego non esiste più sofferenza,
pregano di prendere su di sé tutte le negatività, le sofferenze, le
malattie degli esseri senzienti.
Anche
per noi non sempre le malattie, le tribolazioni sono negative, se
vissute consapevolmente e trasformate in offerta per il bene degli
altri, sono positive, possono essere il risultato delle preghiere
formulate in una vita precedente, non sappiamo, nulla è mai ciò che
appare ai nostri occhi annebbiati e semiciechi.
Osserviamo
la figura di Gesù, la sua tremenda agonia, la morte in giovane età,
a cui è seguita l’immediata diffusione del suo messaggio senza
barriere di luogo e di tempo, questo è il risultato delle sue
potenti, autentiche preghiere di Bodhisattva.
Qualsiasi
situazione, anche la più tremenda, può essere negativa o positiva,
tutto dipende dalla presenza o assenza dell’ego. Dov’è questo
ego? Non lo possiamo identificare in un posto preciso così da
estirparlo facilmente, è ovunque, ci pervade e dunque il suo
ridimensionamento, la sua sistematica demolizione, richiede un lavoro
lunghissimo e costante, il computer e le tecnologie moderne sono
completamente inservibili, solo la pratica paziente del Dharma potrà
ottenere risultati.
Oggi
tutto è veloce e le persone non sanno più essere pazienti, non si
può aspettare, si dice “il
tempo è denaro”
e dunque bisogna correre, i risultati devono essere immediati, ma se
a livello materiale ciò appare necessario, non lo è affatto sul
piano spirituale in cui bisogna imparare a vivere con semplicità,
rinuncia, compassione, amore, bodhicitta, saggezza, visione della
realtà ultima, fede nel karma.
Noi
siamo nel samsāra e quindi viviamo nella realtà ingannevole, ciò
che conta è esserne consapevoli, perché se ce ne scordiamo il caos
mentale di cui si nutre l’ego sarà sempre più disastroso.
Se
portiamo degli occhiali blu vediamo tutto blu, la catena
dell’Himalaya come la città di Roma, l’importante è sapere che
questa percezione non corrisponde alla realtà, è frutto
dell’illusione prodotta dalle lenti colorate. Questo livello di
conoscenza è accessibile a tutti ed è fondamentale, irrinunciabile,
per poter procedere nel Dharma.
La
consapevolezza della visione illusoria della realtà ci permette di
non averne più la concezione dualistica, possiamo osservare
qualsiasi fenomeno alla luce della realtà ultima, continuando a
esistere nell’illusione, ma senza illusione.
Se
siamo consapevoli dell’impermanenza dei fenomeni, della brevità
della vita, sorge spontaneo l’entusiasmo per la pratica del Dharma,
per la meditazione, non si tratta di fare miracoli, di avere visioni
paradisiache, ma di maturare la calma mentale che è l’unica vera
arma in grado di disarmare, di sconfiggere, il demone della morte.
Nell’agitazione,
nella rabbia, nella debolezza dell’ego i demoni banchettano,
sguazzano nel loro elemento, ingrassano, ma di fronte alla calma e
alla pace scompaiono perché non hanno più nutrimento, non possono
sopravvivere.
Per
questo è necessario meditare sull’impermanenza continuamente, ogni
giorno, dal risveglio mattutino al sonno della notte.
L’applicazione
dei Tre Aspetti Principali del Sentiero è l’imprescindibile
preliminare alla pratica della Māhamudhrā, perché senza questa
base è impossibile radicare nel nostro cuore la meditazione libera
dalla malattia mortale dell’ego.
Queste
pratiche preliminari sono irrinunciabili per poter diminuire,
demolire il terribile ego così facilmente potenziato dalla benzina
dell’attaccamento, della rabbia, della gelosia, tanto che se non
vigiliamo e lasciamo sfuggire una sola fiammella tutto esplode e in
un attimo brucia completamente la pace e la tranquillità accumulata
in giorni e giorni di pratica, di meditazione, di umiltà, di
gentilezza, e poi dobbiamo faticosamente ricominciare dall’inizio.
La
nostra vita è così, per accumulare meriti, virtù è necessario
impegnarsi con sforzo, pazienza, generosità, pace, semplicità,
mentre per ridurli in cenere basta un secondo, e in questo siamo dei
veri esperti, lo facciamo continuamente.
Ecco
perché questi incontri sono così preziosi, abbiamo la possibilità
di praticare insieme, di riflettere tra amici, di meditare
sull’impermanenza nella mistica atmosfera di Assisi, nei luoghi di
San Francesco.
Ci
ritroveremo domani mattina pel la meditazione e dopo la colazione
riprenderemo l’insegnamento.
Māhamudhrā,
antitesi dell’ego
Oggi
è una bellissima giornata di sole, l’aria è pulita e l’energia
positiva che ci avvolge è forte, tutto è interdipendente, fratello
sole, sorella luna, madre terra, chi ha costruito un disegno così
perfetto? Nessun esperto ha mai trovato una risposta univoca, né
religiosi, né filosofi, né scienziati.
E’
una domanda importante da cui nascono tutte le teorie, del big bang,
di Dio, di Brahmā, dell’interdipendenza, della vacuità….ma la
risposta comune non esiste ed è abbastanza ridicolo vedere come
ognuno si barrica nella torre delle proprie certezze che spesso
difende con la forza, e impone con violenza agli altri, considerando
la propria come unica, universale verità, ma questo è un grande
errore umano che frantuma l’equilibrio dell’universo.
Le
violenze, le guerre in nome della presunta unica verità, sono il
nostro conflitto interiore che obbligandoci ad una scelta ci
allontana dalla via di mezzo, lasciandoci la sola alternativa degli
estremismi e così, malgrado la nostra vita sia relativamente facile,
agiata, siamo perennemente insoddisfatti, infelici. Non c’è
soluzione apparente, desideriamo la felicità, ma corriamo incontro
all’infelicità, costruiamo ogni attimo sull’illusione, sull’
ingannevole mondo esteriore in un completo squilibrio.
Ci
chiediamo come sia sorto l’universo, ma la domanda ancora più
essenziale è: come
possiamo calmare la mente?
Ieri
abbiamo accennato alla Māhamudhrā, il grande sigillo, ma la
traduzione più corretta sarebbe “grande gesto”, la qualità di
un potente modo di essere nell’equilibrio della profonda ricchezza
umana, è la presentazione di sé a livello ultimo.
La
Māhamudhrā non è dunque un gesto fisico, bensì un atteggiamento
mentale solido, luminoso, la motivazione con cui affrontare qualsiasi
situazione, incontro, è l’antitesi stessa dell’ego.
La
mondanità ci mostra continuamente il ridicolo spettacolo
dell’ingannevole pomposa mostra dell’ego, con ingiustificato
orgoglio e vanità si esibiscono i titoli accademici, i
riconoscimenti pubblici, lo stato sociale elevato, un presunto potere
sugli altri, prosciugando in questo modo il cuore, esternamente si
appare luccicanti, ma all’interno si è aridi, svuotati da ogni
valore.
Il
Māhamudhrā è l’esatto opposto, presenta il vero sé nell’umiltà,
nella gentilezza, nella purezza, nella semplicità. Questo è il
gesto di Māhamudhrā, non è facile, ma bisogna provarci.
Come
ricorda la filosofa occidentale di cui accennavo ieri, (mi pare sia
Simone Weil, 1909 - 1943), alla fine la nostra anima è vuota, anche
altri filosofi indicano il nostro corpo, che vediamo così concreto,
come vuoto, illusorio. Corpo, anima, mente-cuore sono vuoti, anche se
noi li percepiamo nelle emozioni della visione illusoria e non
sappiamo come gestirli.
Per
questo è importante la meditazione, non la si pratica per avere
esperienze trascendentali, per andare direttamente in paradiso, ma
per conoscere la mente e pacificarla.
Māhamudhrā
letteralmente significa: māha, grande, e mudhrā, gesto; non un
gesto fisico e nemmeno l’atteggiamento superficiale che potenzia
l’ego, ma l’attitudine pura del cuore, il gesto profondo che
purifica, libera, apre la mente alla realtà ultima e, se
teoricamente sembra un’impresa molto difficile, sul piano pratico
disponiamo di uno strumento formidabile, la meditazione, che ci
permette di procedere un passo dopo l’altro, di comprendere e
applicare la rinuncia, la bodhicitta, la saggezza, i tre aspetti che
sono il sale dell’esistenza, ciò che dà sapore, senza di loro
sarebbe molto difficile, anzi impossibile, purificare il cuore,
vuotarlo da tutte le ingannevoli sovrastrutture, scoprirlo,
liberarlo.
Per
applicare questi mezzi di purificazione dobbiamo allenarci nella
meditazione, dobbiamo imparare a calmare la mente. I tre aspetti
principali del sentiero sono le motivazioni per iniziare ogni
giornata in modo significativo, piacevole, gioioso.
La
rinuncia può essere anche espressa con la parola semplicità, la
bodhicitta con amore, compassione, la saggezza con conoscenza della
realtà ultima. Non si tratta di dover ottenere ad ogni costo la
perfetta completa realizzazione, è sufficiente mantenere la
motivazione, l’intenzione di sviluppare incessantemente queste tre
qualità della mente e poco alla volta si familiarizza con il loro
messaggio e ci si avvicina alla meta.
Altri
preliminari alla Māhamudhrā, sono rappresentati dalla necessità di
ottenere la calma fisica e mentale, la meditazione è essenziale per
la conoscenza e tranquillità della mente, ma anche il corpo deve
essere pacificato nell’armonia con mezzi appropriati come lo yoga.
La mente e il corpo devono poter sentire la gioia, non bisogna
forzare, non è una ginnastica faticosa, è un allenamento dolce ed
efficace e bisogna dedicarvi tutto il tempo necessario, senza fretta.
Una
volta raggiunta la capacità di rimanere stabili nella gioia
tranquilla della mente e del corpo possiamo focalizzare l’attenzione
su un oggetto qualsiasi che non deve essere né troppo illuminato né
al buio, concentrandoci su di esso senza distrazioni, perché la
mente è una scimmia impazzita, salta costantemente da un punto
all’altro, è una bomba che può esplodere in qualsiasi momento
distruggendo tutto.
Il
primo passo è dunque la pacificazione fisica e mentale, mentre il
secondo consiste nella capacità di osservare un oggetto, di
analizzarlo in ogni dettaglio con rilassatezza, naturalmente, senza
forzatura alcuna.
Questi
sono gli esercizi da praticare durante il giorno, ma anche la notte
prima di addormentarci possiamo mantenere lo stato meditativo
visualizzando in noi una piccola luce bianca.
A
qualsiasi livello della pratica è necessario essere diligenti,
assidui, sereni, tranquilli, gioiosi senza costringersi a fare nulla,
ma abbandonando definitivamente la pigrizia.
Facciamo
una piccola pausa per il the e poi risponderò alle vostre domande.
(Pausa)
Domanda:
Hai affermato che il nemico numero uno è l’ego, e dunque quando la
mente ne ha coscienza comincia a riconoscerlo e ad opporvisi, ma è
sempre comunque la mente, seppur più sottile e raffinata, di questo
stesso ego di cui pare non sia facile liberarsi, quindi mi chiedo, a
livello relativo è ugualmente importante comportarsi bene anche se
questo potrebbe addirittura potenziare l’ego? A me non sembra che
l’ego sia sempre un nemico, può essere molto utile nella vita.
Lama: L’ego
è nemico in quanto distrugge, danneggia la nostra vera essenza,
ostacola la realizzazione dell’autentico significato
dell’esistenza umana, corrompe ogni azione, in questo senso è il
nemico numero uno, anche se a livello samsarico è contemporaneamente
il nostro protettore. Ad esempio la Cina è il nemico del Tibet, però
in un certo senso lo protegge dalle conquiste di altre nazioni che
sicuramente lo avrebbero invaso altrettanto. L’ego pur essendo un
ostacolo reale alla nostra crescita spirituale, può essere
trasformato, diminuito, controllato, ma fino a quando non
raggiungeremo una realizzazione elevata e non saremo completamente
liberi, autonomi, quasi illuminati, sarà sempre presente.
Domanda:
Rispetto alla domanda se ha senso comportarsi bene o no, cosa pensi?
Perché è vero che a volte si è gratificati dalla propria “bontà”
e questo ingigantisce l’ego, si può persino diventare più
egoisti.
Lama: L’ego
e l’egoismo sono due aspetti diversi, l’ego nasce
dall’attaccamento che induce ad aggrapparsi al sé illusorio,
ingannevole, è il risultato della fondamentale ignoranza, della
mancanza di conoscenza e di saggezza, a volte può esserci l’ego
senza necessariamente la manifestazione dell’egoismo. L’egoismo è
una conseguenza dell’ego, un modo di rapportarsi agli altri che
affonda in un’ignoranza ancora più radicale, afferra l’ “io”
e il “mio” nella visione completamente ingannevole. Per questo lo
studio, le lettura delle scritture sono importanti, ma la meditazione
è assolutamente fondamentale, indispensabile, insegna a riflettere
su se stessi, sui propri comportamenti, a riconoscere l’attaccamento,
l’ignoranza, l’avversione, la visione ingannevole e distorta
della realtà. E’ essenziale diventare come gli yogi, mentre non lo
è essere degli studiosi.
Domanda:
Puoi spiegare quali sono gli strumenti che ci permettono di capire
come possiamo avere una visione non dualistica e di conseguenza
adattarvi la nostra vita?
Lama: Il
primo passo è provare, incamminarsi passo dopo passo, lentamente, e
cercare di vedere la realtà in modo non dualistico. L’unico modo
di risolvere la sofferenza è trasformarla in felicità, questo è
non dualismo, perché gli aspetti di sofferenza e felicità si
elidono nell’equanimità, non c’è più differenza sono la stessa
realtà. Ad esempio praticando il Lo Jong e il Tong Len si scambia
l’altrui sofferenza con la propria felicità, unificandole e
cambiandole, il dolore resta dolore, non diventa piacevole, Gesù lo
ha vissuto pienamente fino all’ultima goccia, ma se lo si riceve
con piena generosa accettazione e se ne riconosce il valore, lo si
trasforma in fonte autentica di gioia, e con la fede nel karma si
ottiene una grande purificazione.
Domanda:
Faccio un esempio, una visione non dualistica potrebbe essere data
dall’attitudine interiore che, indipendentemente dalla situazione
che si sta vivendo, bella o brutta, sia comunque perfetta, il
massimo, e la si accetti gioiosamente?
Lama: Si,
diciamo che è una via di mezzo, forse considerarla il massimo è
eccessivo….La via di mezzo comunque è sempre il massimo, ed è
necessario in ogni cosa mantenere la gioia del cuore.
Domanda:
Quando penso al non dualismo, influenzata ovviamente dalla formazione
cristiana, ho sempre presente l’immanenza di Dio, non Dio come
persona o altro da me, ma come luce purissima della perfezione
assoluta dell’amore che tutto pervade e di cui noi siamo fatti,
quindi se io, tu e l’universo ha in sé questa luce ogni divisione
è automaticamente annullata, tutto ritorna all’Uno.
Intervento:
Se tu pensi di ricevere aiuto da questa visione per te sarà
veramente così, ma è ancora l’ego che vede se stesso.
Intervento:
La visione è la fusione nella pura luce di amore assoluto e perfetto
che trascende ogni ego, semplicemente non esistono più il mio, il
tuo o il suo ego, ci dissolviamo in questa luce che è già in noi e
che oggi possiamo solo intuire. Questo naturalmente a livello
teorico, perché nel presente stato samsarico il mio ego falso e
ingannevole è sconfinato e più pesante che mai.
Lama: Molto
bene, sono domande importanti anche sul piano pratico.
Domanda:
Io non capisco il significato della frase degli Otto Versi di
Trasformazione della mente che cita: “In
breve, direttamente e indirettamente, offro ogni beneficio e felicità
a tutti gli esseri senzienti, mie madri; possa io segretamente
prendere su di me tutte le loro azioni negative e sofferenze.”
Lama: Quando
l’avrai capita vuol dire che hai raggiunto l’illuminazione!....il
significato di questo verso è approfondito e spiegato nella pratica
del Tong Len, dare e ricevere nella visione non dualistica che
trasforma la sofferenza in felicità. Se tu non offri la tua felicità
ad altri non potrai mai trasformare la tua sofferenza in felicità.
La sofferenza è inevitabile e sempre presente nel samsāra, anche se
tu fossi illuminato, dunque bisogna trasformarla in valore positivo.
Per questo i Bodhisattva pregano di nascere laddove ci sia il dolore
più grande, la malattia, le condizioni peggiori. Questo è il
livello mistico dell’esistenza, non i miracoli eclatanti.
Domanda:
E’ un po’ quello che ci hanno insegnato nel catechismo, Gesù ha
offerto completamente sé stesso per la nostra salvezza. Tutto
diventa una naturale via di gioia se impari a donare la tua pace e
felicità…
Lama: Si,
proprio così, Tong Len, non dualismo, via dei Bodhisattva, gioia
perfetta.
Domanda:
Tu hai detto che dovremmo benedire il nostro nemico, e
intellettualmente capisco che ciò possa farci del bene, ma come
sentire sinceramente questa benedizione, come si può benedire un
nemico?
Lama: I
nemici sono una importante sfida per noi, se sappiamo perdonare con
tutto il cuore ci rendono migliori, più forti. Se riusciamo a
scoprire il valore che c’è in loro facciamo un salto di qualità,
abbiamo tutto da guadagnare.
Intervento:
La benedizione al nemico potrebbe essere un offerta di
ringraziamento, perché il nemico ci ha costretto a confrontarci con
l’ego, a vederlo per quello che è, e dunque cominciare a
ridimensionarlo. Infatti se incontrassimo solo persone che ci
elogiano e gratificano, non avanzeremmo di un millimetro nel cammino
spirituale, anzi sarebbe un ulteriore nutrimento per l’ego, e
dunque è assolutamente vero che il nemico è il nostro miglior
amico, un vero maestro, e per questo lo benediciamo con tutto il
cuore e sincera gratitudine.
Lama: Vero,
è proprio così.
Intervento:
Infatti San Francesco non cercava la compagnia delle persone che lo
osannavano, ma era contendo di stare con quelli che lo criticavano,
sentiva che questo era un aiuto per lui.
Con
questo non è che dobbiamo cominciare ad insultare la gente per far
loro del bene!....
Lama: San
Francesco era un vero Bodhisattva, al suo livello tutto ormai
appariva nell’autentica luce chiara e naturale, questo è il
risultato di una lunghissima pratica della pazienza e di tutte le
pāramitā esercitata in tante esistenze, noi invece dobbiamo ancora
faticare molto, nulla è così automatico, spontaneo, noi siamo
feriti dalle offese, ci arrabbiamo, mentre per Francesco era
immediato motivo di gioia.
Molto
bene, interessante dibattito, pare che questo argomento sia entrato
nel nostro DNA, concludiamo dunque dedicando i meriti acquisiti per
il bene di tutti gli esseri senzienti.
Il
karma e i Tre Aspetti principali del Sentiero
Esaminiamo
il primo verso dei Tre Aspetti Principali del Sentiero, rinuncia,
bodhicitta e saggezza:
Spiegherò,
come meglio posso,
il
significato essenziale di tutte le Scritture del Buddha,
il
sentiero lodato dagli eccellenti Bodhisattva,
la
via d’accesso per il fortunato che anela alla liberazione
La
rinuncia è l’aspirazione alla liberazione dal samsāra ed esprime
il significato essenziale delle scritture del Buddha storico
Sākyamuni, ma anche di tutti gli altri, cristiani, musulmani, atei,
ogni essere ha in sé la buddhità, come l’alito divino, e i
Buddha, i Santi, i Maestri di tutte le religioni portano questo
messaggio.
È
un importante concetto, le differenze sono evidenziate soltanto dalle
etichette che attribuiamo a qualsiasi cosa, erigendo così
complicazioni tanto sciocche quanto inutili, invece dovremmo imparare
a vivere la realtà nella sua essenza genuina, pura.
Oggi
ciò che non è complicato non ha valore, non si concepiscono studi
universitari lineari, semplici, anzi la complicazione è sinonimo di
sapienza, di dottrina.
Specializzarsi
nelle religioni significa scrivere libroni enormi che sottolineano le
diversità, l’islam dimostra le proprie prerogative, l’ebraismo,
il cristianesimo, il buddhismo altrettanto e così tutto diventa
complesso, separato, l’esame di un possibile incontro, la
semplificazione nell’essenza dell’obiettivo spirituale, non è
prerogativa degli studiosi, dei veri e riveriti esperti.
Tutto
questo è frutto dell’illusione edificata dall’ego, mentre il
significato profondo insegnato dai Buddha, passati, presenti e futuri
di tutte le religioni è la rinuncia. La rinuncia che libera dal
samsāra, dal caos mentale prodotto dalla visione ingannevole del
mondo.
Il
secondo aspetto, il sentiero lodato dagli eccellenti Bodhisattva, è
la bodhicitta, la grande compassione, l’amore di Dio. Bodhisattva
significa grande cuore, Mahātmā, grande anima, così era chiamato
Gandhi, e il Bodhisattva vive nella bodhicitta, citta è mente,
cuore, e bodhi illuminato.
Se
il nostro cuore è piccolo, ristretto, vediamo soltanto noi stessi,
non c’è posto per null’altro, mentre nel grande cuore c’è
spazio per tutti, è aperto accogliente, rilassato, gioioso, e chi lo
avvicina trova armonia, serenità, riposo.
Il
terzo aspetto, la via d’accesso
per
il fortunato che anela alla liberazione, è la saggezza, la visione
chiara della luce, senza luce non si va da nessuna parte, si è
ciechi. La luce ci permette di riconoscere il mezzo adatto a noi, la
bicicletta, l’auto, o l’aereo, non importa quale veicolo
scegliamo, Hinayāna o Mahāyāna o Vajrayāna, ciò che conta è che
sia adeguato alle nostre capacità, tutti portano allo stesso
risultato.
I
Tre principali Aspetti del Sentiero rinuncia, bodhicitta e saggezza,
sono essenziali in tutte le religioni: il
significato essenziale di tutte le Scritture del Buddha
è la rinuncia, il
sentiero lodato dagli eccellenti Bodhisattva
è la bodhicitta e la
via d’accesso per il fortunato che anela alla liberazione
è la saggezza che realizza la realtà ultima, questi concetti sono
universali e nel XXI° secolo devono essere patrimonio di ogni fede.
La
rinuncia è non attaccamento, la bodhicitta è amore, la saggezza è
conoscenza, luce del cuore.
Certamente
per noi è impossibile vivere su questo pianeta senza attaccamento,
però lo possiamo ridurre, eliminare tutto il superfluo e rimanere
nella via di mezzo del giusto desiderio, del giusto attaccamento.
Lo
stesso vale per la bodhicitta, la nostra compassione non può essere
incondizionata e pura come quella di Gesù, però nella via di mezzo
possiamo avere il giusto amore, l’importante è cominciare a
sviluppare queste qualità curandole come una pianticella che deve
crescere, il seme delle virtù è piantato, ma se non annaffiamo ogni
giorno il terreno, se non proteggiamo il germoglio, la pianta
seccherà. A questo serve la meditazione sistematica che ci mostra le
nostre potenziali qualità offrendoci i mezzi per preservarle, perché
in caso contrario non vediamo e perdiamo il senso dell’esistenza.
Allo
stesso modo dobbiamo riconoscere la vera natura della sofferenza in
modo da non confonderla con la felicità, perché solo con questa
consapevolezza possiamo diminuirla, ridimensionare i problemi,
diventare liberi.
Invece
la nostra incapacità di fermarci, di riflettere ci rende simili ad
una pentola a pressione, pieni di rabbia, di tensione, di
frustrazione, tanto che al minimo intoppo rischiamo di esplodere.
Di
fronte a qualsiasi sofferenza e problema la prima cosa che facciamo è
cercare un colpevole, che ovviamente è sempre altro da noi, noi non
siamo mai responsabili di nulla e se non riusciamo a individuare un
qualsiasi reo imputiamo la colpa allo stato, al tempo, alla natura,
al destino, a Dio ….
E’
molto difficile ottenere la vita umana, nostro incommensurabile
valore, e ne siamo totalmente responsabili in prima persona, non
esistono colpevoli esterni, siamo noi gli artefici del nostro
destino, nella gioia e nel dolore, nel bene e nel male.
Dobbiamo
vivere il tesoro prezioso e raro dell’esistenza consapevoli della
sua impermanenza, della legge del karma, riflettendo e meditando ogni
giorno.
La
percezione della realtà come permanente è l’ostacolo maggiore al
nostro sviluppo, e sulla base di questa ignoranza costruiamo
l’attaccamento, accusiamo gli altri di ingannarci, mentre siamo
proprio noi gli artefici del nostro inganno.
Nella
consapevolezza dell’impermanenza invece tutto si scioglie
naturalmente, la rabbia, l’attaccamento, l’odio, resta la
preziosità di ogni istante vissuto con rinuncia, amore e saggezza.
La
fiducia nel karma, nella legge di causa effetto, è una grande
purificazione.
Domanda:
Ma come puoi avere fiducia in qualcosa che non conosci? il karma è
l’insieme delle cause che hanno prodotto la tua situazione, perché
averne fiducia?
Lama: La
fiducia nel karma è simile alla fiducia in Dio, nel Buddha, anche in
loro crediamo per fede senza averli mai conosciuti e il karma è
ancora più vicino a noi perché ne abbiamo esperienza.
Intervento:
Forse, per evitare confusione, in italiano è più corretto dire
“credere nel karma” piuttosto che “aver fiducia”.
Domanda:
Ma una persona non può sapere se ciò che sta facendo crea karma
negativo o positivo….
Lama: Perché
no?
Risposta: perché
c’è l’ego che fuorvia ogni percezione….
Lama: L’ego
è inevitabile, ma ciò non toglie che in piena coscienza tu sappia
cosa è bene e cosa è male e decida di conseguenza, questa decisione
crea un karma di cui tu sei l’unico responsabile. Noi non siamo
ancora risvegliati e quindi immersi nell’illusione,
inscindibilmente soggetti all’ego che però possiamo usare per fare
molte cose buone, per sviluppare le nostre qualità, l’ego non è
sempre e soltanto negativo, dobbiamo semplicemente mantenerlo nel
giusto equilibrio.
Intervento:
Mi sembra che nel controllo dell’ego siano importanti le proprie
motivazioni, se si agisce per vanagloria, arroganza e ricerca di
gratificazione certamente è negativo, ma se lo si utilizza con
intenzione altruistica può essere decisamente positivo. Nel
cristianesimo si insiste particolarmente sul libero arbitrio, ognuno
sceglie individualmente il proprio comportamento, il che mi pare
molto simile alla responsabilità di cui parlavi prima, vedo una
stretta connessione con l’ego.
Intervento:
Volendo esemplificare con una metafora banalissima: qui davanti a me
c’è un piatto di spaghetti e sia io che tu siamo affamati, a
questo punto ho tre possibilità: la prima è che non me ne importa
niente della tua fame e lo mangio tutto ben sapendo che sto
commettendo un’azione che creerà un karma negativo; nella seconda
scelgo invece di dividere il pasto con te, e nella terza ti offro
tutto il piatto, in questi due casi se la mia motivazione è la
preoccupazione per la tua salute creo un karma positivo, ma se lo
faccio per mostrare a Geshe quanto sono brava il karma, malgrado
l’azione in sé buona, sarà negativo.
Intervento:
Ma un’azione buona, se non è purificata in un sentiero spirituale,
non è sufficiente secondo me. Se vedo che Tiziana, un’amica a cui
voglio bene, ha fame, è naturale che le dia da mangiare, non c’è
nessun merito in questo, soltanto nel caso in cui io dessi ugualmente
da mangiare a Tiziana sapendo che è un dovere, malgrado lei mi sia
antipatica e ostile, forse potrei aver creato un karma positivo.
Intervento:
Ciò che fa la differenza è sempre la motivazione, non le
circostanze.
Lama: Comunque
la partecipazione dell’ego, di più o di meno, è imprescindibile
in questa esistenza. Nulla è mai completamente positivo o negativo,
tutto è misto, c’è un po’ di entrambi, anche se la motivazione
determina la positività o meno delle nostre azioni. La nostra stessa
esistenza è il prodotto del karma misto, che possiamo comunque
migliorare, in questo consiste la fede nel karma.
La
rinuncia all’attaccamento è riferita sia all’apparenza di questa
esistenza che all’apparenza delle vite future dipendenti dal karma
e in questo senso dobbiamo averne fiducia, sciogliere ogni illusione.
La
rinuncia è focalizzata su se stessi, è un primo indispensabile
passo, ma poi bisogna andare oltre e realizzare il secondo aspetto,
della bodhicitta, la compassione rivolta agli altri, alle loro
sofferenze e difficoltà.
Siamo
tutti esseri samsarici allo stesso modo, soggetti alle stesse
tribolazioni e se osservando le azioni negative di un altro ci
soffermassimo un attimo a pensare alla sua sofferenza, tutta la
nostra rabbia, l’odio, l’avversione, svanirebbero, e proveremmo
invece la stessa compassione che avremmo per noi nelle stesse
circostanze. I versi continuano:
Gli
esseri samsarici vengono trascinati dalla corrente dei quattro
potenti fiumi,
sono
legati con le strette catene del karma, difficile da eliminare,
sono
entrati nella gabbia di ferro dell’attaccamento al Sé,
sono
completamente oscurati dalle fitte tenebre dell’ignoranza,
nascono
nell’esistenza senza limiti, e nelle loro nascite
vengono
incessantemente torturati dalle tre sofferenze.
Riflettendo
in tal modo circa la condizione delle madri che si trovano in tale
stato,
genera
la suprema intenzione altruistica di divenire un Risvegliato.
L’intenzione
altruistica si sviluppa riflettendo sulla condizione in cui si trova
il prossimo in balia dei quattro fiumi, che sono….. li ricordate?
Risposta: Nascita,
invecchiamento, malattia e morte.
Molto
bene, prima abbiamo analizzato la causa della nostra sofferenza e
concluso che la rinuncia è il primo indispensabile passo verso la
liberazione, ora le stesse riflessioni devono essere estese agli
altri che, come noi, sono schiavi degli stessi fiumi samsarici,
legati alle catene del karma, imprigionati nella gabbia di ferro
dell’attaccamento all’ego, completamente accecati dall’ignoranza
fondamentale, e torturati dalle tre sofferenze….che sono?
Risposta: Sofferenza
del dolore, sofferenza del cambiamento, sofferenza omnipervasiva
della condizione.
E’
importante riconoscere questi tre aspetti del dolore, il primo è il
più grossolano, quando una parte del corpo fa male è evidente; il
secondo, del cambiamento, è già più sottile, può presentarsi come
situazione piacevole, ma immediatamente dopo essere trasformata in
dolore, ad esempio nell’assunzione di alcool o di droghe; il terzo,
della condizione, è estremamente sottile, è l’insoddisfazione, il
senso di vuoto, di tristezza che permea ogni istante e qualsiasi
situazione, e l’unica possibilità di soluzione è la rinuncia.
Riflettendo
sui tre tipi di sofferenze che colpiscono gli esseri samsarici si
genera l’altruismo, la consapevolezza della condizione equanime in
cui tutti ci troviamo, il desiderio di condivisione, di fraternità,
di pace e armonia, questo è il Dharma.
Il
Dharma è verità, non è inventato o proprietà esclusiva di
qualcuno, si esprime nella verità della semplicità che ci permette
di abbandonare l’ingannevole visione illusoria e tutto diventa
evidente, le sofferenze, la condizione degli esseri, i residui del
tempo di questa era, il Kali-Yuga, in cui tutto è pronto per
esplodere, le bombe esterne ma anche quelle interiori.
Concludiamo
questa sessione con la lettura degli Otto Versi di Trasformazione
della Mente (V.
testi annessi pag. III).
Le
tenebre nel Kali-Yuga e la luce nel cuore
Riprendiamo
l’insegnamento dopo esserci scaldati con il buon the accompagnato
dall’ottima torta.
Le
pause che frammentano la meditazione, le letture, lo studio,
l’insegnamento hanno un particolare significato, sono una festa,
rappresentano il tempo in cui sentire la gioia della pratica, della
vera pace interiore, esteriore, universale.
Oggi
si parla in modo indiscriminato di pace, tutti la sbandierano come
proprio vessillo per promuovere sé stessi, i propri interessi,
politici o religiosi, ma in questa strumentalizzazione non vi è
nulla che assomigli alla pace, la pace è esclusivamente nel cuore
umano, mai all’esterno.
Il
pranzo, la cena, l’ora del the, sono importanti momenti di pausa
dal lavoro dagli affanni quotidiani, in cui riflettere, elaborare
consapevolmente, nutrire la pace nel proprio cuore. Se non si
percepisce questo aspetto la nostra meditazione sarà sterile, per
questo è bene frammentarla con tante piccole pause in cui godere
della gioia della meditazione stessa, assaporare ogni istante con
concentrazione.
Se
non sappiamo cogliere questa essenziale fonte di pace continuiamo ad
agitarci come pazzi da mattina a sera, rincorrendo non si sa bene
cosa in modo distratto, con il pensiero sempre rivolto altrove e mai
centrato su ciò che stiamo facendo. Persino nei sogni trasferiamo
questo superficiale spreco di tempo.
Dobbiamo
dunque imparare a rilassarci e sentire la pace nel nostro cuore
perché, come è detto nei Tre Aspetti principali del Sentiero:
“Le
circostanze favorevoli e la fortuna sono difficili da ottenere
e
la vita non è lunga”
Dunque
i momenti in cui godere pace e serenità sono rarissimi, non si
possono comprare al mercato o averli in prestito dalle banche, siamo
sempre oppressi dalle preoccupazioni e dall’angoscia, soltanto
quando incontriamo una circostanza favorevole dobbiamo saperla
cogliere farla fruttare nella pace interiore diventando così
autentici esseri umani.
Nei
molteplici impegni quotidiani ci muoviamo come robot, privi di
umanità, qualità che ritroviamo invece nella meditazione, nella
contemplazione.
Gli
uomini sanno progredire notevolmente nella scienza, nelle più
complesse invenzioni, ma nessuno può inventare ciò che esiste,
dall’inizio alla fine, nel cuore di ognuno, la vera naturale
umanità.
Questo
è il valore più prezioso, eppure la società cosiddetta evoluta lo
sta negando, oggi è perduto, non conta più nulla, le nuove
generazioni sono private della sua conoscenza e non ne hanno nemmeno
memoria, eppure l’umanità è intangibile e intrinseco patrimonio
della cultura umana.
Il
materialismo tecnologico pretende di riempire il vuoto interiore
degli individui, ma ne scava un baratro ancora più fondo, come le
montagne di Carrara, ferite, svuotate, annientate.
L’unico
elemento che può riempire il cuore umano è la spiritualità che
produce pace, contentezza, pienezza dell’umanità che ognuno deve
coltivare con cura in se stesso.
E’
impossibile risolvere tutti i problemi del mondo non c’è riuscito
Gesù Cristo, né Buddha, né Gandhi, ma ognuno deve cominciare da
sé, riempire il proprio vuoto con pace e tranquillità.
L’epoca
in cui stiamo vivendo appartiene ai “residui del tempo”, anche
conosciuto come “età oscura”, in lingua indiana “Kali-Yuga”,
in cui ogni spazio è stato occupato dalla negatività, mentre il
periodo precedente, dell’ “epoca bianca”, era pieno di
positività che poco alla volta è stata consumata dalla
dissennatezza degli esseri e ha svuotato spazi sempre più ampi
immediatamente riempiti dall’energia negativa che ora pervade
tutto.
Abbiamo
infiniti esempi di questa degenerazione nelle incredibili violenze
suscitate dai motivi più futili e insignificanti, l’infelicità
aggressiva pronta ad esplodere al primo soffio, i volti contratti
dalle tensioni, la desolazione personale, sociale, ambientale pervade
ogni ambito, abbiamo solo l’imbarazzo della scelta, dai minimi ma
devastanti conflitti, alle guerre, ai crimini più efferati contro
gli esseri e contro l’ambiente, tutto sta decadendo.
Domanda:
Quindi il tempo residuo di quest’era corrisponde ai tempi
degenerati?
Lama: Si,
Kali-Yuga significa epoca nera, tutta la positività è stata
consumata ora ne restano solo residui, per il resto è riempita dalla
negatività. La speranza è che una volta toccato il fondo più fondo
si potrà risalire, però è un evento ancora lontano e per questo è
così difficile ottenere le circostanze favorevoli e la fortuna.
Oggi
siamo nei tempi degenerati in cui tutto deve essere rigidamente
imposto dall’esterno, i ritmi e le modalità dell’apprendimento,
quelli del lavoro che a volte pur occupando tutto il giorno non
garantisce nemmeno il minimo vitale. Non c’è più spazio per la
naturale crescita umana, tutto è una rincorsa per poter vegetare in
una non vita.
Dov’è
il necessario tempo per meditare, per coltivare la pace interiore,
per assaporarne la gioia? Dov’é? Questo spazio non esiste più,
è stato annientato.
La
vita è complessa, estremamente difficile a causa di questi tempi di
Kali-Yuga che certamente non possiamo trasformare in un giorno, ma è
importante riconoscerli, averne piena coscienza e quindi contrapporsi
alla negatività imperante coltivando la positività interiore,
dobbiamo avere fiducia nella legge di causa - effetto, nel karma, o
in Dio, è la stessa cosa, ricordare che siamo responsabili di ogni
evento della nostra vita.
La
fiducia nel karma, riconoscerlo, accoglierlo consapevolmente e agire
di conseguenza è una grande purificazione, il motore più potente
per avanzare, è anche più importante della fede nel Buddha, in Dio,
a cui ci rivolgiamo chiedendo aiuto. Ma l’aiuto più immediato e
certo viene da noi stessi, lo costruiamo noi momento per momento nel
karma, non possiamo delegare a nessuno questa responsabilità,
nemmeno al Buddha o a Dio.
Domanda:
Come nelle guerre entrambi gli eserciti avversari pregano dicendo
“Dio
è con noi ci proteggerà e vinceremo”
e il povero Dio dove dovrebbe schierarsi?...
Lama: Si,
questo è veramente un aspetto ridicolo, soprattutto quando si parla
di guerra santa, a Roma ho visto diversi quadri in cui sono
raffigurati papi e vescovi che benedicono i crociati. Lo stesso è
avvenuto in Tibet e in tantissime parti del mondo, questi sono gli
errori che hanno causato la degenerazione di quest’era.
Dobbiamo
dunque chiedere aiuto a noi stessi avendo fiducia nel karma, potremo
così far fruttare le rare e preziose circostanze favorevoli e la
fortuna. Certamente questi sono tempi negativi, ma il fatto di vivere
in questo paese è già una gran fortuna, il livello di vita è
elevato, tutti hanno accesso all’istruzione, ad una certa
agiatezza, l’unica cosa che manca è la disponibilità mentale, il
tempo per fermarsi a riflettere a meditare. Per una vita proficua e
completa dobbiamo imparare ad unire i due aspetti, materiale e
spirituale, coltivando pace e tranquillità perché solo questo
tesoro ci è di aiuto, dall’inizio alla fine di questa stessa
esistenza.
Non
ha senso vivere in tensione, preoccupati per ciò che avverrà nelle
vite future, si sprecano opportunità preziose che invece devono
nutrire la positività di questa stessa vita, dobbiamo coltivare qui
e ora la pace, la gioia, altrimenti viviamo male il presente senza
nemmeno sapere se e come ci saranno altre esistenze.
Le
circostanze favorevoli possono produrre frutti solo se sono
accompagnate dalla fortuna, che è il risultato dell’accumulazione
di meriti.
La
preghiera che accumula meriti non è la richiesta disperata di chissà
quale miracolo, ma è mirata a generare le buone intenzioni, è una
forma di meditazione, la pratica dell’offerta nella generosità.
Le
circostanze favorevoli e la fortuna insieme ci permettono di nutrire
il nostro cuore, di coltivare l’autentica felicità, la pace la
tranquillità. Non esiste per questi tesori il mercato nero come per
gli organi umani, li possiamo trovare e alimentare soltanto in noi
stessi.
In
questi tempi degenerati di assoluta Kali-Yuga in cui il materialismo
è la nuova religione, si uccidono esseri umani per prelevare organi
da vendere ad altri esseri affinché possano prolungare la loro
esistenza. Simili azioni corrompono irrimediabilmente l’energia
dell’universo, lo affondano nell’oscurità, eppure una piccola
meditazione, un’attitudine diversa nella buona motivazione, apre
nell’universo uno spiraglio di luce, contribuisce a rischiarare, a
rompere la cortina nera che lo avvolge. Questo è il nostro compito,
anche se abbiamo la sensazione che sia la nostra missione impossibile
è comunque l’unica via che possiamo e vogliamo percorrere.
Dobbiamo
contrapporre all’oscurità del Kali-Yuga la luce del cuore, della
serenità, della pace, del sorriso. Mi capita spesso, camminando nel
mio quartiere a Roma di salutare le persone che incontro, ma la
maggior parte non risponde e mi guardano in modo strano, sembra che
scappino velocemente a testa bassa come tanti automi.
Noi
apparteniamo ad un unica famiglia umana e ognuno deve consapevolmente
assumersi la responsabilità del proprio ruolo, della propria
missione, non è tanto importante quanto si realizza, ciò che è
fondamentale è la volontà, l’intenzione, l’impegno verso
l’obiettivo.
Le
circostanze favorevoli e la fortuna potenziano le buone intenzioni
che praticate giorno dopo giorno ci permettono di godere
consapevolmente della gioia e della pace che riempie il nostro cuore
e porta luce a noi stessi e agli altri.
Ogni
giorno è necessario meditare sugli Otto versi di Trasformazione
della Mente, (V.
testi annessi pag. III)
sono una preghiera fondamentale per lo sviluppo e il consolidamento
della pratica perché hanno la capacità di penetrare sempre più
nella profondità della mente-cuore espandendola, trasformandola poco
alla volta in modo naturale ed estremamente potente.
Questo
amore puro è la forza, unica e incontenibile, che sgorga
spontaneamente dai grandi esseri della storia, Gesù, Buddha, i
Bodhisattva, i Santi. Un cuore pieno d’amore non lascia spazio
libero al dolore è completamente riempito dalla gioia.
Io
vengo in questo posto, “Casa Regina della Pace” da parecchi anni,
incontro amici e insieme pratichiamo il Dharma in serenità, armonia
e pace, questo significa avere molta fortuna e circostanze
favorevoli.
In
occidente si organizzano continuamente importanti conferenze sulla
pace, ma se prestate attenzione potete notare come gli oratori siano
sempre aggressivi, arrabbiati, questa è la prima cosa che mi ha
colpito al mio arrivo dall’India e ne sono rimasto scioccato.
Gli
argomenti in genere sono di rilevanza fondamentale, sui diritti
Umani, sull’ambiente, e anche le organizzazioni promotrici
estremamente serie, Amnesty International, Green Peace, e tanti
altri, eppure in questi meeting c’è tutto fuorché la pace, tutti
urlano uno contro l’altro, è un controsenso.
I
diritti umani devono essere rispettati nel cuore umano, altrimenti
non esistono, sono solo parole vuote. Combattere contro gli altri è
facile, basta poco per mettere dell’esplosivo e far saltare un
palazzo, ma la vera costante faticosa battaglia è con sé stessi, è
l’etica sottile che coltiva il rispetto per gli altri, la loro
cura, nel ridimensionamento del proprio ego.
Non
dobbiamo cercare grandi realizzazioni, perché nelle piccole cose,
nel lavoro quotidiano molto sottile di pacificazione e gioia del
proprio cuore raggiungiamo gli obiettivi più elevati e raffinati.
Nel
mondo materiale si rincorrono le carriere più importanti e
remunerative, ma nella spiritualità è esattamente il contrario, nel
minimo, nel nascosto, si ottengono le realizzazioni vere, durature,
ricche di luce.
Siamo
giunti alla fine di questo seminario, un piccolo prezioso raggio di
sole che dedichiamo per il bene di tutti gli esseri senzienti,
dell’umanità intera, dell’universo.
Leggiamo
insieme la Preghiera conclusiva del Lam Rim, (V.
testi annessi pag. IV),
dedicando con gratitudine la scintilla di luce che abbiamo costruito
in questi giorni con la meditazione, la pace la serenità, affinché
tutti gli esseri senzienti la possano condividere.
*******
TERZA
PARTE
La pratica di Māhamudhrā
Torino
* 13 - 14 febbraio 2010 *
****
Illusione,
conoscenza del sé e della propria mente
Siamo
insieme oggi, non per un seminario, per un corso, dopo tre mesi
trascorsi in America questa visita è un incontro di Dharma con gli
amici.
E’
importante condividere del tempo nella pace, nella calma della mente,
e anche se evidentemente non potremo cambiare questo mondo caotico,
potremo imparare a vivere pienamente un’esistenza che porta in sé
tanti inevitabili momenti dolorosi e piacevoli, perché il modo in
cui li percepiamo dipende dalla nostra mente.
Dov’è
la mente? Questo è il problema principale da affrontare, la mente è
invisibile, senza forma, si presenta come fenomeno psicologico, di
pensiero, è l’aspetto più difficile da comprendere, non è
maneggevole, eppure tutta la nostra felicità o infelicità dipendono
dalla mente, per questo è fondamentale saperla riconoscere, dunque
meditare.
La
connessione tra la meditazione e la mente è basilare così come lo è
il legame tra i concetti, l’immaginazione, i pensieri con la
struttura biochimica del corpo, perché lo stato biologico condiziona
inevitabilmente quello mentale.
Poiché
in Europa viviamo in una società avanzata culturalmente,
scientificamente, tecnologicamente, siamo in grado di analizzare i
fattori biochimici del corpo e la loro influenza sullo stato
meditativo, un armonico funzionamento fisiologico favorisce una buona
meditazione.
E’
sorprendente constatare come alcune reazioni emotive siano
determinate da precise condizioni fisiche. Nella mia cultura, nei
miei studi, si tendeva a considerare esclusivamente l’aspetto
mentale e psicologico degli eventi, incluse le emozioni, mentre ora
sappiamo che questo non è l’unico fattore che le determina, anche
il corpo ha il suo peso.
Anche
nelle antiche tradizioni si riconosceva che alcune reazioni potevano
sorgere su una base fisiologica, ma mancava la capacità di
analizzarle scientificamente, ora invece se ne può misurare e
comprovare l’influsso sullo stato mentale, emotivo e persino
spirituale.
Se
negli insegnamenti classici si insegna a riconoscere e distinguere le
tendenze positive dalle negative e a lavorare su se stessi per
trasformare le emozioni eccessive, la tecnologia moderna pare
disporre di strumenti in grado di valutare il livello di infelicità
o infelicità dei soggetti, di codificare ogni stato d’animo,
incrociando tutte le variabili sino a poter stabilire la personalità
buona o cattiva e le tendenze individuali.
Non
c’è però contraddizione tra il procedimento tradizionale della
mente e quello della scienza moderna, entrambe sono presenti, sia la
componente più strettamente legata alla reazione fisiologica che
quella emotiva elaborata su un piano mentale.
Ogniqualvolta
ritorno a casa e incontro i miei genitori mi sento felice, ma quando
devo lasciarli la tristezza è profonda e sul piano mentale questo è
giustificato dal distacco, dalla lacerazione affettiva, ma anche sul
piano biologico avvengono reazioni che spesso non sono
sufficientemente prese in considerazione.
Questo
è un aspetto sottile su cui ragionare per poter comprendere cosa sia
in realtà la mente, quando si è felici si dice “questa
è la mente”,
e altrettanto quando si è infelici, ad esempio tutti parlano della
telepatia, ma non è detto che si tratti di un fatto solo mentale,
potrebbe dipendere anche da elementi fisici che determinano una
comunicazione molecolare senza fili tra le persone. La scienza oggi
offre maggiori strumenti per analizzare e comprendere questi fenomeni
e prenderne atto non significa affatto entrare in contraddizione con
i procedimenti tradizionali classici, al contrario, esaminando i due
aspetti nella loro complementarietà sarà più facile comprendere la
natura dei fenomeni, come si formano e perché.
La
radice della felicità o dell’infelicità affonda in noi stessi e
soltanto nella costruzione di un equilibrio, frutto dell’elaborazione
mentale delle reazioni emotive, sarà possibile controllare l’aspetto
biochimico affinché non divenga predominante.
Il
corpo, secondo le antiche definizioni tradizionali, è costituito dai
quattro elementi fondamentali: terra, acqua, fuoco e aria, differenti
e tra loro in costante antagonismo, ciò rende impossibile la
stabilità della materia in una condizione di quiete e di serenità;
sul piano fisico il caos e la confusione sono costanti, il
cambiamento è ininterrotto, lo sviluppo di un bambino è visibile
giorno per giorno e altrettanto l’energia incontrollabile
dell’adolescente, anche l’adulto cambia continuamente giungendo
alla vecchiaia e infine alla morte, come può questo corpo, in una
situazione di perenne mutamento, trovare pace, serenità, equilibrio?
Impossibile, persino nelle scritture antiche si dice che se anche si
vivesse in un palazzo dorato, non sarebbe possibile avere felicità e
pace, anzi maggiori sono le comodità del corpo più grande è la
confusione della mente.
Domanda:
Come si giustifica questa tua affermazione con il proverbio latino
“mens
sana in corpore sano” che,
già partendo dalla cultura greca, presumeva la necessità di
mantenere il corpo nella migliore condizione al fine di ottenere
anche la serenità mentale?
Lama: Non
c’è contraddizione, è esattamente coerente, infatti se non c’è
alcun controllo della mente le reazioni biochimiche del corpo hanno
il sopravvento e influenzano lo stato emotivo della persona, del sé,
che resta così in balia delle onde incontrollate di felicità o
infelicità, il suo star bene o male è in totale dipendenza dello
stato fisiologico.
Quando
invece una persona, almeno in una certa misura, ha controllo sulla
mente, le stesse reazioni biochimiche non possono avere il
sopravvento, ed è così possibile mantenere un certo equilibrio,
riconoscere e controllare l’influenza dello stato fisico su quello
mentale. L’attenzione al benessere fisico va di pari passo con
quello mentale e l’eccessivo confort non è benefico né al corpo
né alla mente, è necessario mantenere sempre il giusto equilibrio
in ognuno di essi, separatamente e congiuntamente.
E’
vero che attraverso l’esercizio fisico si possa influenzare lo
stato emotivo, ma è una condizione comunque meno potente del suo
contrario, perché addestrando la mente è possibile avere un
maggiore controllo sul corpo e sullo stato emotivo che suscita.
L’addestramento
della mente, la sua educazione, apporta un beneficio più durevole e
potente rispetto a quanto si ottiene con l’allenamento ginnico, e
infatti è assai più difficile ammaestrare la mente che non il
corpo, e ognuno di noi ne ha esperienza diretta, senza dover
ricorrere per saperlo alla lettura delle scritture.
La
vera questione da affrontare è: cos’è
la mente?
cosa sono queste emozioni piacevoli o spiacevoli che influenzano così
pesantemente il proprio stato, che natura ha tutto questo?
Sottostante
a questo sentirsi bene o male, come si colloca questa aggressiva
percezione di io,
di essere
pesantemente presente in ogni situazione eppure altrettanto
indefinibile, imprendibile, che cosa è dunque questo io? è la cosa
più misteriosa in noi, quando si cerca di afferrarlo scompare, ma
quando non se ne ha coscienza ricompare prepotentemente. E’ un
fenomeno sorprendente, come un magnifico arcobaleno ben visibile, ma
se si tenta di afferrarlo non c’è nulla da ghermire.
Questo
senso dell’io che ci fa dire:“io
sto bene… io sto male… io sono così… io sono in un altro
modo…”
cos’è? da dove viene? perché è soggetto costantemente alla
pressione di dover essere il migliore, in ogni aspetto fantastico,
superiore?
Nell’insegnamento
spirituale classico la domanda su cosa sia l’io in tutte le sue
manifestazioni è fondamentale.
Potremmo
considerare questa presenza prepotente e manifesta fin dalla nascita
come il peccato originale, ovunque si vada si è protetti dalla
maschera di questo io.
Se
subiamo un’aggressione non diciamo: il
corpo è stato battuto, il braccio è stato spezzato, la testa ha
ricevuto percosse,
ma: mi hanno
picchiato, mi stanno uccidendo,
io
ho un dolore tremendo…”
perché istintivamente siamo prevaricati da questo presunto me,
dall’arrogante io con cui ci identifichiamo totalmente.
Tanto
è maggiore l’emozione quanto più evidentemente si impone l’io,
però se ne avessimo maturato una chiara consapevolezza saremmo in
grado di riconoscerlo, di imparare ad osservarlo.
Qui
sta la radice del problema, ma la radice è sconosciuta e questo
rappresenta un ulteriore problema, ecco perché l’ignoranza
fondamentale è realmente la causa di tutti i problemi.
L’ignoranza
fondamentale è la non conoscenza del problema stesso, e per questo
nelle scritture si insiste sulla necessità della realizzazione del
sé, cioè di conoscere cosa esso realmente sia.
Non
conoscere la radice del problema significa non conoscere il problema
stesso, e dunque non conoscere l’io, perché conoscendo l’io si
conoscerebbe la radice del problema e se ne troverebbe la soluzione,
ma questa conoscenza è ottenibile soltanto nella pratica della
meditazione.
Nella
meditazione è possibile giungere alla radice del problema, all’io,
al sé e dunque alla mente stessa, non si tratta di meditare sulla
mente degli altri, questo sarebbe davvero assurdo e impossibile,
persino meditare su oggetti esterni è difficile, bensì di meditare
sulla propria mente, un compito estremamente arduo visto che non se
ne conosce l’essenza, e allora, come si può meditare su qualcosa
di cui si ignora persino l’esistenza?
Da
questi interrogativi risulta evidente come la nostra visione del
mondo sia assolutamente illusoria. Generalmente si pensa che
l’illusione sia una conoscenza falsa, ma in realtà non è così,
l’illusione è non-conoscenza, se non si conosce nemmeno la propria
mente com’è possibile conoscere ciò che la mente conosce? questa
è l’illusione fondamentale e, non conoscendo la propria mente,
come si può conoscere altro?
Se
io conosco una cosa significa che la mia mente la conosce, ma se la
mente non conosce se stessa, come può conoscere altro al di fuori di
sé? Quindi tutto ciò che è fuori è illusione, e con ciò non si
intende che sia in falso, ma semplicemente, non essendo conosciuto,
se ne ha una percezione annebbiata, distorta, non corrispondente alla
realtà.
Dal
punto di vista di uno yogi, cioè di un essere altamente realizzato,
l’intero mondo è simile ad una drammatizzazione teatrale messa in
scena da esseri estremamente confusi, e la fortuna in questo caso è
sapere di essere confusi. Questo è un buon punto di partenza perché
dharma, religione, valore spirituale si fondano sulla consapevolezza
del proprio disordine interiore.
Il
caos del mondo è così vasto che è impossibile definirlo e le
differenze da luogo a luogo sono davvero irrilevanti. Credo che in
Italia in parte si sia aiutati a mantenere una linea non troppo
scombinata grazie alla presenza della chiesa che quotidianamente
ribadisce il suo messaggio dando indicazioni precise, laddove queste
mancano invece la confusione è più marcata, inoltre l’Italia è
stata nella storia un importante centro culturale e anche questo
favorisce la possibilità di mantenersi entro determinati binari, è
una grande fortuna, però, malgrado queste possibili differenze il
mondo è comunque un’illusione, non è falso in sé, ma visto in
modo distorto, non se ne conosce la realtà a causa della non
conoscenza della propria mente. Per questo la meditazione sulla mente
è irrinunciabile.
I
tibetani meditano eccessivamente sul mandala, sulle divinità, e poco
sulla mente. In realtà i mandala, le divinità, sono l’immagine
della mente, ma i tibetani continuano a interpretarli rispettivamente
come paradisi realmente esistenti e potenti protettori esterni, cosi
invece di meditare sulla mente tramite la sua stessa immagine,
meditano sulla loro illusione che assume la forma di divinità e di
mandala, e ciò aggiunge illusione all’illusione e confusione alla
confusione.
I
tibetani credono sinceramente che i loro re del passato fossero tutti
Bodhisattva, esseri santi, e che il Potala, il palazzo del Dalai Lama
in Tibet, sia la terra pura di Chenrezig infatti stesso nome, Potala,
significa residenza del Buddha della compassione, senza essersi mai
soffermati sull’esistenza in questo palazzo di prigioni in cui i
condannati non stavano certamente nella beatitudine, questa è
l’illusione, una fede distorta portata avanti per secoli in un
mondo completamente illusorio.
Il
Potala è stato costruito sui resti di un antico palazzo edificato
mille anni prima dal re Songtsengampo riconosciuto dagli antichi come
emanazione di Avalokiteśvara, e le sue otto consorti come emanazioni
di Tara, di conseguenza il Potala non poteva che essere il palazzo
del Buddha della compassione già conosciuto con il nome sanscrito di
Avalokiteśvara o tibetano di Chenrezig, questa è chiaramente una
visione fantasiosa, ma se ne parlo ai tibetani sono biasimato perché
nessuno vuole rinunciare alla propria illusione, anche se è causa di
statico radicamento nella confusione samsarica. La schiavitù nel
samsara non presuppone l’essere stati incarcerati da qualcun altro,
bensì essersi autonomamente legati ai ceppi nella propria prigione.
Da
oltre cinquant'anni i tibetani sono stati cacciati dalla loro terra,
esiliati in vari paesi, ma non hanno cambiato in nulla la loro
concezione fantastica, pensate alla potenza di una simile illusione.
La
stessa cosa accade in ogni società e individuo. Restando ancorati,
fissi nelle proprie illusioni non si può costruire nulla di nuovo e
la stessa speranza di indipendenza dei tibetani diventa soltanto
un’ulteriore illusione, incrementata dagli atteggiamenti
altrettanto confusi degli occidentali, che sognano un Tibet magico,
la terra pura, ma è solo la promozione turistica della fantasia
tibetana.
Tutto
questo dimostra quanto la mente sia complessa, difficile da limitare
entro inesistenti confini concreti, è un fenomeno metafisico e per
arginare le sue costruzioni fantastiche è necessario usare uno
strumento dello stesso tipo, metafisico, non facile, duro, cioè la
meditazione.
Nella
meditazione chi vi può dare istruzioni o manuali per l’uso?
Nessuno, non esistono ricette né formule predefinite per scoprire la
mente, soltanto voi stessi potere giungere a questa rivelazione
tramite la meditazione costruita a vostra misura, un gradino alla
volta. I grandi santi del passato, hanno meditato tutti a lungo,
duramente e faticosamente, non esiste una meditazione comoda, questa
è un’altra grande illusione.
Non
solo in Europa, ma anche in India in Tibet, ovunque, quando mai i
santi, i realizzati del passato hanno avuto vita facile,
confortevole, lussuosa? mai, tutti senza eccezione hanno sopportato
enormi difficoltà e sofferenze nella loro meditazione, anche se
l’immagine che il mondo moderno offre è completamente falsa, si
vorrebbe mostrare un santo, un Buddha che ha ottenuto tutte le
realizzazioni facilmente, in un bel palazzo, servito e accudito. Ciò
è veramente fuorviante e succede che qualche studente ingenuo si
entusiasmi all’idea di raggiungere facilmente l’illuminazione in
un cammino dorato e comodo. Nulla di più sbagliato, basta guardare
la vita di Sāntideva, di Nāgārjuna, di san Francesco, di san
Benedetto, di sant’Antonio, di Milarepa e di tutti gli altri per
rendersi conto che la realtà è ben diversa.
Occorre
grande determinazione nella meditazione, e anche se oggi non sarebbe
certamente possibile vivere come gli eremiti del passato, come san
Francesco, ciò non ci esime dal doverci applicare con il massimo
sforzo.
Se
Gesù Cristo apparisse oggi a Torino chi lo riconoscerebbe? nessuno,
e se si presentasse San Francesco sarebbe sicuramente considerato
matto e rinchiuso in carcere o in reparto psichiatrico. Probabilmente
anche in Tibet accadrebbe la stessa cosa, quindi ciò che si può
fare è impegnare ogni sforzo nella costruzione della pace interiore,
nella ricerca dell’armonia e della serenità della mente.
Sono
dunque due i punti su cui concentrare il proprio sforzo: il primo è
trovare la mente, scoprire cosa realmente sia, e il secondo è
scoprire come la mente influisca su di noi, sulle sensazioni che ci
condizionano.
E’
dunque indispensabile non stancarsi di meditare sulla propria mente
che è al contempo soggetto e oggetto, perché se veramente si vuole
cambiare qualcosa dentro di sé si deve accogliere questa bella
sfida, altrimenti si parteciperebbe solo ad una piacevole festa, come
faranno i tibetani questa notte in occasione del capodanno con
musica, danze e preghiere ai protettori per essere liberati da tutti
gli ostacoli dell’anno appena concluso e protetti per tutti gli
avvenimenti di quello a venire. Ci saranno oracoli, cerimonie,
rappresentazioni volte alla protezione del governo tibetano in
esilio, ma tutto questo non serve altro che a fomentare le illusioni
del povero popolo tibetano che si allontana sempre più dalla reale
possibilità di cambiare veramente iniziando dalla trasformazione
della propria mente.
Abbiamo
parlato della mente, delle emozioni, della meditazione sulla mente, e
delle principali cause della confusione mentale che ci mostra in modo
distorto il mondo, la nostra stessa vita e di tutto ciò che appare
ai nostri sensi.
L’unico
aspetto positivo in questa nebbia è la consapevolezza, la capacità
di riconoscere il disordine mentale che ci avvinghia, e questa
conoscenza è ciò che chiamiamo saggezza.
La
saggezza non comporta l’eliminazione automatica e definitiva della
confusione, ma semplicemente permette alla mente di vederla e
riconoscerla per quella che è.
E’
come indossare occhiali dalle lenti blu, si vede ogni cosa colorata
di blu, ma si sa che ciò non corrisponde alla realtà. Allo stesso
modo i dolori, i problemi, le sofferenze sono illusori, così come lo
sono le loro cause, sono illusorie le gioie, la felicità, e le loro
cause, ed è questa illusione che ci trattiene nel samsāra.
Il
samsāra non è un ambito fisico entro cui si è stati imprigionati,
ma piuttosto una condizione della mente, e il solo modo per uscirne è
acquisire la conoscenza della propria mente, del proprio sé.
Il
sé è davvero strano, perché quando lo si cerca è introvabile, non
appare, eppure è sempre lì, è imponente, impositivo, pesante, e
non sappiamo cosa esso sia esattamente, lo sentiamo, lo percepiamo,
lo viviamo, abbiamo la sensazione che qualsiasi evento accada a
questo sé.
Queste
sensazioni, emozioni, pensieri, non sono l’io che sente, si
emoziona e pensa, ma è la mente, e questo è il punto difficile da
comprendere, da analizzare. Ci sono domande?
Domanda:
Prima dicevi che in Italia abbiamo la fortuna di avere la chiesa che
offre una linea di pensiero, di condotta, che è di grande aiuto, ma
io mi chiedo se invece proprio questo non aumenti l’illusione,
anche perché chi dà queste certezze non è illuminato….
Lama: L’illusione
non è sempre totalmente negativa, può avere qualcosa di positivo e
l’insegnamento della chiesa ha molti buoni valori, identici in
tutte le religioni, cambia solo il linguaggio, necessari per aiutare
le persone a comprendere e dare senso costruttivo alla loro vita,
inoltre in Italia la chiesa è elemento integrante del retroterra
storico e culturale di cui dobbiamo tener conto, è parte di noi.
Parlando
di illusione non vogliamo indicare una realtà intrinsecamente falsa,
ma ci riferiamo al nostro approccio alle situazioni.
La
caratteristica esterna dell’illusione è dipendente
dall’orientamento mentale, è la qualità della mente che definisce
ciò che esternamente apparire positivo o negativo, tanto che un
aspetto apparentemente negativo in questo momento, tra qualche minuto
potrebbe essere percepito positivamente.
L’esercizio,
l’addestramento mentale, è sempre a livello individuale, non
sociale e collettivo, perché soltanto l’approccio personale può
cambiare il proprio modo di sentire e di sperimentare.
Anche
meditare sulla mente è un’illusione perché la mente stessa è
coperta dall’illusione, non si tratta dunque di eliminare
l’illusione, ma piuttosto di comprenderne l’essenza vera,
l’illusione è il vero problema e nessuno può sfuggirvi, siamo nel
samsāra eppure siamo arrabbiati con il samsāra, lo respingiamo, e
questo non è bene perché stiamo tentando di fuggire dal samsāra,
ma è impossibile perché è la nostra stessa casa, dunque è
necessario riconoscere questa illusione e prendersene cura.
Se
si affrontano le sensazioni di gioia e di dolore come se fossero
statiche, definitive, non si è in grado di vedere e di comprendere
l’illusione, soltanto riconoscendola senza contrapposizione e
chiusura si comprende che gioia e dolore sono illusioni, resta però
la domanda: chi sperimenta l’illusione della gioia e del dolore?
questo strano io, o la mente?
Si
comincia così ad indagare, ad osservare il meccanismo del sorgere
dell’io, che cos’è? è uguale o differente dalla mente? è la
mente che prova gioia e dolore? e in questo caso l’io da dove
proviene? o è invece l’io che prova gioia e dolore? e allora la
mente che cos’è?
In
questo modo si indaga sulla natura della mente e dell’io, sulla
costruzione dell’automatismo che ci fa dire “io
provo dolore… io sento felicità”.
Dalle
forti sensazioni dell’ “io
sono felice”
nasce l’attaccamento, e da quelle dell’“io
provo dolore"
sorge l’avversione, la rabbia, ed entrambi, attaccamento e
avversione, diventano inevitabilmente fonte di sofferenza e si scopre
così che non sono altro che grandi illusioni.
Si
vede chiaramente che l’io, il sé, è illusione e si comincia a
scoprire la stessa modalità di costruzione dell’io, si riconosce
il samsāra, cioè l’illusione, ma questa illusione da dove sorge?
dalla mente? e questa mente che è illusa come può essere
purificata, liberata dall’illusione? Vi è una sola risposta:
tramite l’indagine, la meditazione, la visione vera delle cose.
La
meditazione è lo strumento che permette di non essere oscurati,
dominati dall’illusione, anche se è impossibile nel samsāra
esserne liberati completamente.
Domanda:
I filosofi greci, gli stoici mi pare, spiegando l’atarassia
proclamavano la necessità di affrontare ogni cosa con distacco, e mi
pare che tu confermi lo stesso percorso, cioè che l’unica
possibilità di alleggerire il peso delle illusioni sia quello di
affrontare ogni esperienza della vita con un senso di distacco…
Lama: Si,
hai espresso bene il concetto, oggi abbiamo cercato di affrontare
questo argomento utilizzando il linguaggio più comune, ricorrendo il
meno possibile a termini filosofici, religiosi o dottrinali, ma il
senso è lo stesso.
Prima
di concludere questa giornata meditiamo insieme brevemente sui temi
trattati.
(segue
meditazione)
Grazie
Roberto per la traduzione e buona serata a tutti.
Le
Quatto nobili Verità e le Sei Pāramitā nella Māhamudhrā
La
data di questo incontro non era stata programmata in funzione della
fortunata coincidenza con il capodanno tibetano, ma è un’ottima
occasione per festeggiarlo essere riuniti per analizzare la
Māhamudhrā.
Per
affrontare la Māhamudhrā non è necessario perdersi in complessi
discorsi o accese discussioni, è invece indispensabile saperne
focalizzare l’aspetto centrale, comprenderla, e questa capacità
dipende dalla propria pratica, dallo sforzo impegnato anche nel
passato.
Nel
precedente seminario di Assisi, riportato nella prima parte di questo
documento, si è affrontata la modalità di preparazione della mente
alla meditazione di Māhamudhrā.
La
mia presenza qui oggi è in parte un regalo a Renata, che è una
praticante non buddhista della Māhamudhrā, infatti il buddhismo ha
avuto inizio circa duemilacinquecento anni fa, ma la Māhamudhrā
esiste da tempo immemorabile, è come il Veda, il Sanatānadhrma, il
Dharma universale senza inizio.
L’essenza
della Māhamudhrā è la vacuità che va al di là di ogni tempo ed è
il centro dell’insegnamento buddhista.
La
Māhamudhrā, allo stesso modo degli insegnamenti cristiani, fornisce
tutti gli strumenti per realizzare l’illuminazione in una vita, e
vi leggerò ora la preghiera del lignaggio di Māhamudhrā che poi
cercherò di spiegarvi almeno in parte, ho ricevuto questo testo nel
1981 dal maestro Ling Rinpoche, uno dei tutori del Dalai Lama, è
molto interessante e introduce direttamente nella cuore della
questione.
(segue
lettura del testo in tibetano)
Domanda:
abbiamo sentito la tonalità, è interessante ma perché l’hai
letta a noi che non capiamo nemmeno una parola?
Intervento:
In questo modo ci ha trasmesso l’energia della preghiera.
I
versi appena letti esprimono ammirazione nei confronti di tutti
coloro che in passato hanno praticato la Māhamudhrā,
indifferentemente dalla loro tradizione, siano cristiani, islamici,
buddhisti, o bönpo, perché la Māhamudhrā è un dono naturale
all’umanità, appartiene a tutti, è la ricchezza e la qualità
della mente umana, la stessa mente e la sua natura sono la Māhamudhrā
e questa unione è ciò che definiamo armonia. I conflitti interiori,
così come quelli esteriori, sono causati dall’incapacità di
armonizzare la mente con la sua natura ultima.
Riconoscere
la mente e la natura ultima della mente è la pratica di Māhamudhrā
attraverso cui si può conoscere se stessi, è il cammino che porta
verso l’illuminazione, la realizzazione del sé.
Nel
primo verso si descrive il continuum mentale che è prigioniero della
trappola dell’aggrapparsi al sé, e in quello successivo si afferma
la necessità di recidere questo nefasto legame, non si tratta di
tagliare il continuum mentale, bensì la catena dell’afferrare il
sé.
La
mente ordinaria presente in tutti noi possiede la stessa natura della
mente di Buddha, però è tuttora prigioniera, incatenata
all’afferrare il sé, e la pratica di Māhamudhrā consiste proprio
nel recidere il giogo che lega il continuum mentale.
Il
metodo per tagliare il legame dell’afferrare il sé procede di
passo in passo e comincia con la pratica della gentilezza amorevole,
che poi matura nella compassione, la quale a sua volta si trasforma
nella grande compassione universale, la bodhicitta.
L’essenza
di questo concetto è chiaramente espresso nella preghiera di
Māhamudhrā (V.
testi annessi pag. VI),
sostanzialmente in questo verso:
“Affinché
io possa sradicare la pianta rampicante dell’attaccamento al sé
nel mio continuum mentale,
Praticare
l’amore, la compassione e la bodhicitta,
e
compiere velocemente il Māhamudhrā del sentiero dell’Unione,
O
Guru venerabili,
Guide
spirituali che, per discepoli fortunati,
Avete
diffuso l'essenza del Dharma,
Vi
prego di concedermi la vostra benedizione.”
L’attaccamento
al sé, l’afferrarsi al sé può essere esaminato da due
angolazioni, la prima riguarda il sorgere dell’idea del sé a cui
ci si attacca immediatamente coinvolgendosi completamente sul piano
emotivo, mentre la seconda concepisce l’idea del sé a un livello
più sottile, però entrambi sono ugualmente presenti.
In
quest’unico verso sono contenute tutte le informazioni riguardanti
la Māhamudhrā, che non è il bastone magico che, calato sulla testa
del discepolo, produce illuminazione istantanea, anzi richiede un
lavoro duro e tanto coraggio, si deve operare sulla propria mente
ottusa, chiusa, piena di dubbi e di paure.
La
mente scorre nel letto di un fiume che si frammenta in tanti rivoli e
correnti, così nel continuum mentale si impongo più insicurezze che
sicurezze, più debolezze che coraggio, più pensieri negativi e
distruttivi che pensieri positivi e creativi, più sofferenze che
felicità, e allora ci si deve domandare come mai ciò avvenga, la
risposta è contenuta nel Lo Jong, l’addestramento della mente, nel
verso che cita: “Il
principale e unico colpevole è l’afferrare il sé, l’attaccamento
al sé, da questo sorge tutto il resto”.
La
Māhamudhrā non rimane a livello superficiale, ma affronta
concretamente questo problema, va direttamente alla sua sorgente e ne
combatte e sradica la radice.
La
pratica del Lo Jong, la trasformazione della mente, è parte del
metodo della pratica di Māhamudhrā, che consiste nello sviluppo
dell’amore, della compassione, della bodhicitta conseguente allo
sradicamento dell’attaccamento al sé.
Questo
testo ha un titolo molto interessante, armonioso, Gelugpa-kagyüpa,
che però può essere tradotto in due modi diversi:
Sua
Santità il Dalai Lama ha scritto un commentario in cui, definendo la
Māhamudhrā, conferma l’unione delle tradizioni Gelugpa e Kagyüpa,
vi è però una seconda interpretazione, infatti il termine Gelug
significa anche Ganden, cioè del monastero di Ganden, e la parola
kagyü
esprime anche il concetto di trasmissione verbale, quindi questo
titolo potrebbe essere ugualmente tradotto come “la trasmissione
orale del monastero di Gaden”.
Comunque
nella Māhamudhrā non sono importanti il lignaggio e le tradizioni,
ciò che conta è la sua stessa essenza, è un dono all’universo.
Il
termine sanscrito Māhamudhrā significa: maha:
grande, universale e mudra:
modo di essere; qualsiasi realtà vi è dunque inclusa, non c’è
più distinzione, persino l’illusione, la confusione, la stupidità,
la follia non sono più valutate come qualcosa di negativo a sé
stante, infatti la mente chiara, aperta, libera, può riconoscere la
natura di Māhamudhrā in ogni cosa, al di là di come questa appaia
ordinariamente.
Praticare
la Māhamudhrā significa percorrere il sentiero dell’unione,
eliminando ogni discriminazione, infatti non abbiamo nessun elemento
per valutare e dividere, e come potremmo dunque giudicare la
confusione dell’altro quando noi stessi ci troviamo nella stessa
identica situazione e non siamo in grado di vedere le cose come
realmente sono? E’ impossibile, eppure è esattamente ciò avviene
nella società imprigionata nel caos generale dei tanti individui che
pretendono di eliminare la nebbia scura che avvolge gli altri, senza
vedere che essi stessi ne sono completamente schiavi, questo è il
samsāra.
Soltanto
la pratica della Māhamudhrā può aiutare a diminuire il disordine
samsarico, aiuta ad aprirsi alla tolleranza, alla pazienza, alla
gentilezza amorevole, alla compassione, favorendo così una maggiore
comprensione degli altri e quindi di sé stessi.
L’approccio
alla Māhamudhrā è la capacità di vedere direttamente la natura di
vacuità della propria mente, e non può avvenire ricorrendo
all’analisi intellettuale, alla psicoanalisi o usufruendo delle
migliori tecnologie di un laboratorio specializzato, e nemmeno
tramite la benedizione di un essere realizzato o di un’iniziazione
magica.
Soltanto
rivolgendo lo sguardo al proprio interno, alla condizione della
propria mente, è possibile trovare il giusto sentiero dell’unione
di Māhamudhrā, se invece ci disperdiamo nella più facile e
immediata osservazione del caos esteriore non otterremo nulla. Come
si può chiarire la confusione esterna se non si è chiarita quella
interiore?
Per
ottenere una visione chiara della propria mente è necessario
acquisire due fattori fondamentali: l’accumulazione di meriti e la
purificazione delle attitudini negative, indicazioni che sono
presenti in tutte le religioni.
Il
santo Milarepa non era un erudito, un dotto insegnante, ma un tipico
tibetano della regione occidentale al confine con l’odierno Nepal e
come i suoi compatrioti aveva una testa molto dura, egli non fece
null’altro che meditare la Māhamudhrā, sostenendo che l’intera
pratica del buddhismo (io preferisco dire del Dharma) è contenuta
nella pratica delle sei pāramitā o perfezioni trascendentali:
Generosità, Moralità, Pazienza, Perseveranza entusiastica,
Concentrazione e Saggezza.
Le
sei pāramitā sono inscindibilmente connesse all’accumulazione dei
meriti e alla purificazione delle negatività; le prime tre
rappresentano quelle che nel buddhismo tibetano sono definite
pratiche preliminari, perché se ci limitassimo ad eseguire
fedelmente le centomila prosternazioni, le centomila offerte del
mandala e così via, senza il sostegno perseverante delle pāramitā,
senza sviluppare l’attitudine alla generosità, alla moralità e
alla pazienza, non otterremo alcun risultato, la nostra pratica
sarebbe completamente inutile, sterile, e sicuramente trarrebbe
maggior beneficio, almeno sul piano fisico, da un buon allenamento in
palestra.
Le
pratiche preliminari comportano prima di tutto l’applicazione,
sempre accompagnata dalla perseveranza entusiastica, delle prime tre
perfezioni, perché se ci limitassimo alla contabilità dei mantra o
delle prosternazioni otterremmo unicamente il potenziamento
dell’orgoglio nutrendo pericolosamente l’ego dharmico, che è il
peggiore di tutti, perché il Dharma è finalizzato alla distruzione
dell’ego, ma se al contrario è potenziato da una pratica impropria
si va incontro al disastro, non c’è più soluzione, la medicina
stessa è scaduta, inutilizzabile. Dunque l’ego dharmico è la
malattia incurabile più grave, questo è il grande rischio del
praticante di Dharma che deve sempre mantenere vigile l’attenzione
e lo sguardo interiore, per non incorrere in simili errori.
Oltre
alle pratiche preliminari ordinarie ci sono quelle straordinarie che
prevedono una contabilità altrettanto massiccia, così ci si affanna
a contare per concludere tutti questi compiti in modo da assicurarsi
il paradiso, ma in questo modo ci si carica unicamente di una forte
tensione che alimenta in modo abnorme l’ ego.
Sia
chiaro, non vi è nulla di male nelle pratiche preliminari canoniche
a patto che siano fondate saldamente sulla generosità, sulla
moralità e sulla pazienza, e tutte accompagnate dalla perseveranza
entusiastica, questo è imprescindibile al fine di scampare al
pericolo di trasformarle in alimenti deteriorati che fanno male e
gonfiano a dismisura l’ego.
Senza
questa consapevolezza lo sforzo e l’energia impiegati nel
compimento delle pratiche preliminari sono vani e incrementano il
caos e gli oscuramenti della mente che è già normalmente
sollecitata da un insensato e disordinato susseguirsi di pensieri, e
alla quale non si deve aggiungere la micidiale confusione dharmica.
Io
credo veramente che i preliminari siano una buona pratica, ma
sclerotizzarsi sul conteggio è davvero fuorviante e pericoloso, è
come se si dovesse pagare un mutuo alla banca ed è veramente
ridicolo e folle.
La
pratica del Dharma deve invece essere gioiosa perché trasforma,
migliora, infatti la quarta perfezione è la perseveranza
entusiastica, la gioia nell’accumulazione dei meriti e nella
purificazione delle tendenze negative. Invece il computo ossessivo
del numero dei mantra o delle prosternazioni o di altro non
garantisce affatto che ciò avvenga, è solo una questione contabile
inutile, probabilmente era un metodo buono anticamente per i
tibetani, ma oggi per noi non è adatto.
Domanda:
Anche Lama Yeshe suggeriva di non fossilizzarsi sul conteggio dei
vari preliminari perché non lo riteneva opportuno per il nostro tipo
di vita, consigliava invece di dedicare del tempo, tre giorni, una
settimana, un mese o quel che si poteva, in cui praticare
concentrandosi sulla qualità piuttosto che sulla quantità, ritieni
che possa essere un’impostazione migliore per noi?
Lama: Si,
potrebbe essere più adatto, ma il punto centrale è intendersi su
ciò che significa ritiro, certamente non vuol dire andare altrove e
cominciare a fare cose assolutamente strane e diverse dalla propria
vita consueta, come oggi è di moda. Il vero ritiro è rimanere
nell’ambiente consueto e, dal momento del risveglio sino a notte,
imparare a osservare se stessi applicando concretamente le pāramitā.
Il senso del ritiro è stare dove si è e trasformare la mente
tramite la pratica.
Le
pratiche preliminari producono accumulazione di meriti e
purificazione delle negatività, creano cioè le condizioni adeguate
affinché la mente possa agire su se stessa.
Lo
stato ordinario della mente è irrequieto, agitato, in costante
movimento, salta da un oggetto all’altro senza soffermarsi su
nulla, ciò rende inaccessibile ogni possibilità di cambiamento, di
riflessione, e l’unico mezzo che permette di uscire da questa
condizione di follia e acquietare la mente è applicarsi nelle
pratiche preliminari delle pāramitā che purificano ogni negatività
e favoriscono l’accumulo dei meriti.
Per
praticare correttamente i preliminari è necessario conoscere, saper
giudicare in che stato si trova la mente, di cosa necessita, ciò che
possiede e ciò che le manca, perché se si tenta un approccio
superficiale e indiscriminato non si otterrà nessun risultato. La
misura della validità della propria pratica non è il libro
contabile, ma è la capacità di giudizio sulle condizioni effettive
della mente.
Il
termine tibetano “pratiche preliminari” potrebbe forse essere
tradotto più correttamente con “pratiche fondamentali” in quanto
esse costituiscono il fondamento delle prime tre perfezioni, sempre
accompagnate dalla quarta, su cui si costruiscono le ultime due,
concentrazione e saggezza, che rappresentano la pratica effettiva
della Māhamudhrā.
Ricordiamo
l’insegnamento di Milarepa, qualsiasi pratica di Dharma si stia
facendo, occorre sempre compierla nell’ambito delle sei pāramitā.
Se
osserviamo tutti i livelli della pratica di Dharma, dall’elevato
Vajrayāna al Theravāda o dal Theravāda al Vajrayāna, constatiamo
che in tutti l’elemento costante è rappresentato dalle sei
pāramitā o perfezioni trascendenti.
Personalmente
ritengo che il Theravāda sia la pratica superiore perché si dirige
in modo diretto e sollecito al nocciolo della questione: la necessità
di comprendere le Quattro
Nobili Verità,
mentre troppo spesso coloro che ritengono di praticare il Vajrayāna
non le conoscono nemmeno.
Ancora
oggi molti tibetani, prendono iniziazioni, partecipano a
manifestazioni e rituali, ma non conoscono le Quattro Nobili Verità,
e questo è esattamente il contrario di ciò che dovrebbe essere,
diventa un gioco per bambini, un piacevole picnic ascoltando musica,
un’ennesima illusione in cui si sogna di rinascere nella prossima
vita nella terra nascosta di Śambhala.
In
questo modo i rituali del Vajrayāna si riducono ad una pratica
minore del Dharma, mentre la comprensione delle Quattro Nobili Verità
diventa la pratica più elevata, e la Māhamudhrā ne è parte.
Ci
sono tanti modi di definire la Māhamudhrā: Mādhyamika, Rigpa,
Dzogchen, ma se ascoltiamo le parole di coloro che ne hanno
esperienza, ci accorgiamo che, pur dando nomi diversi, stanno tutti
parlando della stessa realtà.
Per
prima cosa devono essere compresi i preliminari fondamentali utili a
riconoscere l’instabilità, l’irrequietezza della mente, il suo
divagare, e applicare le prime tre perfezioni con grande perseveranza
in modo da portare la stessa mente ad uno stato di calma, di quiete,
che diventa la base necessaria su cui costruire le successive
pāramitā.
Praticando
con perseveranza la generosità, la moralità e la pazienza la mente
non salta più superficialmente da un oggetto all’altro, ma si
tranquillizza e si concentra senza difficoltà su ciò che sta
osservando, e l’acquisizione di questa capacità indica che si sono
accumulati i meriti e purificate le negatività e dunque si sono
compiuti i preliminari, si è posto il fondamento affinché la mente
possa procedere oltre.
Avendo
interiorizzato quest’attitudine le pratiche preliminari
tradizionali come le prostrazioni, l’offerta dell’acqua, la
pulizia del tempio, sono fantastiche, soprattutto la pratica del
pulire è davvero stupenda tanto che si racconta, per dare un esempio
della sua importanza, la storia di un nipote del Buddha che era
particolarmente ottuso e non riusciva ad imparare assolutamente
nulla, non era nemmeno capace di tenere a mente una parola intera;
così il Buddha, pensando a quali preliminari potessero essere
adatti, gli ordinò di pulire le scarpe dei monaci. Il ragazzo
completò con scrupolo e rispetto questo compito e il Buddha lo
assegnò alla pulizia del tempio, che non era allora un locale
chiuso, ma completamente all’aperto. Il ragazzo non si stancava di
pulire con devozione, e dopo un certo tempo il Buddha gli disse di
aggiungere a questa mansione la recita ininterrotta di un mantra il
cui significato era: “tolgo
la polvere dal tempio e tolgo la polvere dalla mente, tolgo la
polvere dal tempio e tolgo la polvere dalla mente….”. Questa
pratica era senza fine, perché è impossibile eliminare la polvere
dal terreno, comportava contemporaneamente l’applicazione della
pazienza, della generosità, e della moralità, ma il discepolo vi si
applicò con una tale gioiosa perseveranza che accumulò moltissimi
meriti e ottenne la purificazione delle negatività nella completa
pulizia della sua mente e rapidamente fu in grado di concentrarsi e
di giungere alla saggezza. Questo è il modo in cui il nipote del
Buddha realizzò in quella stessa vita lo stato di Arhat e ottenne la
liberazione.
Pulire
la casa come se fosse un tempio è una ottima pratica preliminare,
non è necessario andare chissà dove, la propria casa è
naturalmente il proprio tempio, la sua pulizia è senza fine, si deve
ricominciare ogni giorno, offre dunque una possibilità preziosa.
Le
pratiche preliminari o pratiche fondamentali sono dunque le
perfezioni della generosità, della moralità e della pazienza che è
davvero la più difficile da applicare.
Sāntideva
nel Bodhicaryāvatāra vi dedica un intero capitolo, il sesto, inizia
affermando che non c’è peggior negatività della rabbia e
dell’odio e non c’è pratica più difficile della pazienza. Se
veramente volete essere coraggiosi praticanti del Dharma praticate la
pazienza.
Essere
pazienti non significa sopportare qualcuno che ci sta tagliando un
braccio, ma è rimanere fermi quei cinque minuti che precedono la
reazione, vuol dire non scattare aggressivamente e immediatamente.
Leggiamo alcuni versi di questo testo 1.
Sāntideva
- BODHICARYĀVATĀRA - Capitolo
6° -
LA
PERFEZIONE DELLA PAZIENZA
-
Questa
adorazione dei Sugata, la generosità, la buona condotta osservata
nel corso di migliaia di eoni: l’odio distrugge tutto ciò.
-
.Non
c’è male uguale all’odio, non c’è pratica spirituale uguale
alla pazienza: Perciò con vari mezzi, con grande sforzo, si
sviluppi la pazienza.
-
”
La mente non trova
pace, ne gioisce di piacere o diletto, né si addormenta, né si
sente sicura finché il dardo dell’odio è conficcato nel cuore.
-
Persino
coloro che si onora con doni e rispetto, e anche i propri
dipendenti, bramano di distruggere il padrone che è sfigurato
dall’odio.
-
Anche
gli amici rifuggono da lui. Egli dà, ma non è onorato. In breve,
non c’è verso per cui chi è incline alla rabbia sia ricco.
-
Chi
comprende che l’odio è un nemico poiché crea simili sofferenze,
e con ostinazione lo colpisce, è felice in questo mondo e nel
successivo.
-
Consumando
il cibo della frustrazione preparato facendo l’indesiderabile e
ostacolando il desiderabile , un odio tagliente mi abbatte.
-
Perciò
distruggerò il cibo di questo ingannatore, perché questo odio non
ha altro fine che il mio assassinio.
-
Che
io non turbi il sentimento di gioia partecipe, anche all’arrivo di
qualcosa di estremamente sgradito. Non c’è nulla di desiderabile
nello stato di frustrazione, al contrario, ciò che è salutare
viene trascurato.
-
Se
c’è una soluzione, che senso ha la frustrazione? Che senso ha la
frustrazione se non c’è soluzione?
-
Sofferenza,
umiliazione, dure parole e disonore: non desideriamo queste cose né
per noi stessi né per i nostri cari; ma è l’inverso per i nostri
nemici.
-
La
felicità è rara. La sofferenza persiste senza sforzo, ma solo
attraverso la sofferenza si può trovare scampo. Perciò, o mente,
sii forte!
-
Nel
Karnāta i devoti del Durgā sopportano volentieri e inutilmente il
dolore di ustioni, ferite, e altro ancora. Dal momento che la mia
meta è la liberazione, perché sono un codardo?
-
Con
la pratica nulla rimane difficile. Così, facendo pratica con i
disagi minori, diventano sopportabili anche i disagi maggiori.
-
L’irritazione
di cimici, moscerini e zanzare, di fame e sete, e sofferenze quali
un grande prurito: perché non le consideri insignificanti?
-
Freddo,
caldo, pioggia e vento, viaggio e malattia, prigione e percosse: non
bisognerebbe essere troppo sensibili al riguardo. Altrimenti
l’angoscia peggiora.
Noi
al contrario siamo costantemente preoccupati da tutte queste cose
prima ancora che accadano, non abbiamo tempo di praticare la pazienza
e andiamo esattamente nella direzione opposta alla saggezza della
Māhamudhrā in cui tutto si mostra nella sua realtà di equanimità
e gli inutili affanni scompaiono, evaporano naturalmente.
Le
pratiche preliminari consistono nell’applicazione delle sei
pāramitā, in particolare della pazienza e nel Bodhicaryāvatāra
non si accenna affatto alla necessità di contare di centomila in
centomila, prostrazioni o mandala o altro, e nemmeno Nāgārjuna e
Dharmakīrti ne parlano, né tantomeno il Buddha, soltanto i tibetani
lo fanno, ma non so da dove venga questa modalità di praticare, è
comunque un grande fraintendimento che comporta l’illusione di
ottenere automaticamente l’illuminazione avendo contato e concluso
correttamente quanto prescritto, è un vero problema non solo per i
tibetani, ma anche per gli occidentali che ne hanno subito fatto il
business dei ritiri, con un’efficiente e produttiva organizzazione
aziendale, questo è terribile per il Dharma, però è tutto parte
del samsāra.
Terminiamo
qui per ora e nel pomeriggio affronteremo la parte relativa alla
meditazione più strettamente connessa alle successive perfezioni
della concentrazione e della saggezza e naturalmente della
Māhamudhrā.
Grazie.
Māhamudhrā,
universale dono del Dharma
Iniziamo
il pomeriggio con una breve meditazione.
(segue
meditazione)
In
accordo con la tradizione, l’approccio alla Māhamudhrā consiste
nella ricerca della visione corretta per mezzo della meditazione.
Riguardo alle due ultime perfezioni, la concentrazione e la saggezza,
si sta cercando la saggezza tramite la concentrazione. Queste due
ultime pāramitā sono la pratica vera e propria di Māhamudhrā.
Le
prime tre pāramitā, generosità, etica e pazienza, sono la fase
della preparazione, integrate dalla quarta, la perseveranza
entusiastica, che è sempre necessaria sopratutto alle
caratteristiche specifiche della pratica della Māhamudhrā. Allo
stesso modo, ogni pratica di Dharma deve svolgersi nel contesto delle
sei Pāramitā altrimenti sarebbe veramente difficile distinguere ciò
che è autenticamente Dharma da ciò che non lo è.
La
comprensione delle sei Pāramitā ci mette nella condizione di poter
vedere con chiarezza ciò che è relativo alla pratica preparatoria,
preliminare, e ciò che è parte della pratica vera e propria, e
soprattutto sappiamo distinguere ciò che è autenticamente pratica
da ciò che è semplicemente struttura, formula, cultura o
tradizione.
“Tek-pu”
è quel basso seggiolino che alza il corpo dal suolo. Nella
preparazione alla meditazione si insiste sulla posizione del corpo,
che deve essere confortevole, rilassata, al fine di calmare e
stabilizzare la mente. Non esiste una norma uniforme, valida
ugualmente per tutti come se fossimo tanti soldatini, vestiti allo
stesso modo, con lo stesso tipo di cuscino, e così via, ognuno deve
trovare il supporto più idoneo, affinché il corpo si mantenga
naturalmente stabile, con la colonna vertebrale diritta, nella
posizione descritta nei sette punti del Vairociana.
Rimanendo
immobili si permette all’energia sottile di circolare che, invece,
a causa del movimento del corpo sarebbe annientata e dispersa
dall’energia grossolana, per questo è necessario mantenersi saldi
nella corretta postura, non è soltanto un esercizio fisico, è
soprattutto mentale.
Seduti
in modo corretto e rilassato favoriamo la pulizia dei centri
energetici tramite la respirazione in nove cicli, un’antica
tradizione dello yoga indiano. Il corpo nell’armonia della
posizione stabile è attraversato dall’armonia del respiro,
dell’energia o vento, che porta armonia alla mente. La mente si
muove per mezzo dell’energia-vento e questa passa attraverso il
corpo, così all’inizio occorre calmare l’energia del corpo, poi
l’energia-vento, poi l’energia della mente.
In
questa condizione armonica del corpo, dell’energia e della mente,
si è preparato il giusto spazio al pensiero positivo e si accoglie
l’ospite nel proprio tempio pulito e tranquillo.
Se
invece corpo, mente ed energia sono agitati, in disordine, come è
possibile invitare nella casa sporca questo ospite di riguardo?
Quando
la mente è quieta vede chiaramente la realtà nella sua essenza
equanime, non esistono tensioni che discriminano buono e cattivo,
favorevole e avverso, tutto è neutro, stabile, armonico, e soltanto
in questa condizione è possibile richiamare il pensiero positivo e
con una buona motivazione generare il rifugio e la bodhicitta,
praticare il guru yoga e formulare preghiere, non finalizzate ad
acquisire qualcosa, ma come supporto allo sviluppo del pensiero
positivo.
In
genere vi è un grosso fraintendimento per quanto riguarda la
preghiera, troppe volte la si riduce a richiesta piagnucolosa, ma
questo non ha proprio senso, è risultato dell’angoscia,
dell’agitazione e della confusione, mentre in un corpo calmo e in
una mente chiara pervasa da una motivazione positiva sorge
l’autentica preghiera di amorevole compassione e altruismo, non
come richiesta, ma come auspicio altruistico, come ammirazione delle
qualità positive.
Avendo
dunque manifestato, con corpo, energia e mente calmi, il pensiero
positivo e generato il rifugio, la bodhicitta e il guru yoga,
presenti in ogni pratica, si è nella condizione di poter praticare
la Māhamudhrā in quanto la mente è pulita, priva di tutto, è
libera anche dalle pratiche che hanno preceduto questo momento, è
naturale, non cerca altro, non ha desideri, pensieri, preoccupazioni,
si trova nel suo stato naturale completamente aperto, come nello
spazio vuoto, nella trasparenza di un cristallo, in piena e chiara
consapevolezza, e questo è lo stato in cui è possibile guardare la
mente.
Come
alla fine delle pratiche c’è la dedica, lì la mente si ferma e
non cerca più altro. Rimane nel suo stato naturale, libera e in
pace, senza creare o seguire altri nuovi pensieri, in uno stato di
chiara consapevolezza, una mente né assopita né drogata.
La
consapevolezza non articola alcun pensiero, ma rimane nello stato
naturale libero e in pace. Trascorso un certo tempo, qualche minuto,
si osserva questo stato, come la mente appare ora.
La
si guarda all’improvviso, la si coglie di sorpresa.
Nella
mente ordinaria, inquieta, appaiono in modo incontrollato moltissimi
pensieri, questi non sono un prodotto della mente, non si dice:
adesso
penso e
i pensieri appaiono, ma essi sono naturalmente lì. Nella calma della
meditazione, osservando la propria mente, senza identificazione con i
pensieri, li si osserva con distacco come se si assistesse ad uno
spettacolo.
Un
altro metodo per permettere alla mente di rimanere nel suo stato
naturale consiste nel tagliare il pensiero nello stesso istante in
cui sorge, senza aggressività, ma pacificamente, dolcemente, in
questo modo si libera la mente dal pensiero concettuale.
La
mente, sia nello stato di veglia che in quello del sonno, è
costantemente pervasa e dominata dai pensieri concettuali e, poiché
la maggior parte di essi sono negativi, generano quella sofferenza
che ci fa affondare sempre di più nel samsāra.
I
pensieri negativi producono una cattiva respirazione, una pessima
circolazione dell’energia, dei venti, che automaticamente sviluppa
una nociva condizione fisica, in questo modo sorgono le malattie, le
difese immunitarie crollano.
Māhamudhrā
è liberare la mente dai pensieri concettuali, cioè avere la
capacità di osservarli e, nel constare tutta la loro inutilità,
lasciarli decadere, non è necessario combatterli, si annullano
naturalmente. Autoliberazione, “rang-drol”, significa liberare se
stessi dai pensieri produttori di conflitti in quanto questi nemici
se ne vanno automaticamente senza necessità di ingaggiare uno
scontro.
Semplicemente
mantenendo la mente pacifica nella chiara consapevolezza il nemico,
il pensiero concettuale, se ne va da solo, senza combattere.
I
pensieri che sorgono sono molti, ma la mente è una, un solo
continuum mentale, perché se fossero due esisterebbero due persone
diverse, ma questo unico continuum mentale è sottoposto a
un’infinità di concetti, di idee, di desideri, che determinano uno
stress mentale che affatica senza produrre nulla di buono. Dunque è
necessario interrompere la causa dello stress, fermiamo tutti questi
pensieri, oppure osserviamoli come se fossero una rappresentazione
teatrale, non sono nostri, ma nascono dalle circostanze in cui
viviamo.
Con
questo tipo di meditazione si comprende la natura convenzionale della
mente, non la sua la natura ultima, ora non sarebbe possibile.
Guardando lo spettacolo dei pensieri senza identificarsi con essi e
contemporaneamente volgendo lo sguardo alla mente, la si riconosce,
la si vede nella sua essenza, uno spazio vuoto, e per la prima volta
si sperimenta la natura convenzionale della mente con chiara
consapevolezza.
La
natura convenzionale della mente è chiara consapevolezza.
Cos’è
la natura della mente? vi è la natura convenzionale e la natura
ultima, la vacuità della mente, ma per comprenderla è necessario
prima capire cosa sia la vacuità, un compito non facile.
Per
comprendere la vacuità della mente occorre comprendere cosa sia la
mente.
Prima
si conosce la natura convenzionale della mente, poi si conosce la
mente, e infine si giunge a conoscere la vacuità della mente, la sua
natura ultima.
L’unione
di vacuità e mente è l’autentica Māhamudhrā, il sentiero
dell’unione di Māhamudhrā.
Per
realizzare la vacuità della mente è necessario realizzare prima la
vacuità del sé, infatti, poiché non si conosce se stessi, come si
può conoscere la propria mente? non è possibile, se non conosco
Michele, come posso dire quella è la casa di Michele? vedo una casa,
ma non so chi vi abiti.
Non
si può conoscere la propria mente senza prima aver riconosciuto il
sé.
Non
si può meditare direttamente sulla vacuità della propria mente
senza prima aver meditato sulla vacuità del sé.
Dunque
è necessario cercare questo sé perché, come abbiamo detto fin
dall’inizio, l’attaccamento al sé è la radice del problema, ed
è proprio l’afferrarsi al sé che impedisce la conoscenza della
propria mente.
Quindi,
dapprima occorre liberarsi dall’afferrarsi al sé, iniziando
dall’esercizio della concentrazione sulla natura convenzionale
della mente, che si intensifica con il potere della consapevolezza.
Da
qui non c’è modo di procedere immediatamente al riconoscimento
della natura ultima della mente, ma è necessario procedere prima al
riconoscimento del sé e della vacuità del sé, per poi procedere
alla conoscenza della vacuità della mente.
Sulla
base della comprensione della natura convenzionale della mente,
concentrandosi su di essa si cerca la vacuità del sé, ma non si può
trovare questa vacuità senza prima aver scovato ed eliminato
l’attaccamento al sé. Il metodo è sempre lo stesso, non è
necessario combattere i nemici, ma semplicemente riconoscere
l’attaccamento come tale.
Con
una mente calma e chiara si vede il sorgere dell’ignoranza,
dell’attaccamento, dell’avversione e si è consapevoli che questa
situazione fortifica l’attaccamento al sé, il quale come un motore
potente continuamente alimentato da benzina genera il samsāra. Nella
meditazione questo meccanismo emerge in modo chiaro e mostra la
condizione interiore del samsāra.
Il
samsāra che si osserva all’esterno, da cui si vorrebbe fuggire, e
a cui ci si riferisce quasi automaticamente, non è altro che il
frutto del samsāra interiore che però, al di fuori della
meditazione, non si è in grado di vedere, e questo è il vero
problema.
Crogiolarsi
romanticamente nelle visioni fantastiche delle terre pure, affermare
quanto sia bello l’amore, la compassione e come siano magnifici i
Buddha, i Bodhisattva, e così via, è essere come i bambini
catturati da un bellissimo cartone animato, e affrontare in questo
modo la meditazione è ingannare se stessi, è prendersi in giro,
perché le Quattro Nobili Verità: della sofferenza, della causa
della sofferenza, del sentiero che porta alla liberazione dalla
sofferenza e della liberazione dalla sofferenza, non sono un cartone
animato.
Talvolta
invece le meditazioni sulle terre pure, sui mandala, sulle divinità,
piene di colori e di luci, diventano come i cartoni animati, che sono
psicologicamente fatti apposta per affascinare la mente dei bambini.
Tra
i tibetani ci sono persone di vera profonda devozione che magari già
a 13 anni hanno completato il “Ngondro” (la serie delle pratiche
preparatorie delle prostrazioni, del rifugio, dell’offerta del
mandala, ecc) con grande fede nel loro Guru, ma non conoscono affatto
le quattro nobili verità.
Questo
ha sicuramente ha rafforzato la loro fede, ma non gli ha portato la
comprensione profonda del Dharma, fondata su una vera conoscenza
dell’insegnamento del Buddha. La loro semplice genuina integrità,
la purezza della loro pratica elementare della compassione, che hanno
sicuramente prodotto purificazione e merito personali, sono però
l’esatto opposto di ciò che la società moderna propone. Questo
cambiamento di condizioni comporta seriamente il rischio che la
società tibetana odierna, vittima anch’essa dell’abitudine al
pettegolezzo, perda la sua innocenza spirituale.
Stiamo
trattando un argomento veramente complesso facciamo dunque un
riepilogo.
Prima
di tutto è importante comprendere con chiarezza che le Quattro
Nobili Verità, sono il fondamento dell’insegnamento del Buddha, e
le sei Pāramitā, o Perfezioni trascendenti, rappresentano il
sentiero completo del Dharma. Ricordiamo che le prime tre perfezioni
sono le pratiche preliminari o fondamentali, le ultime due la pratica
della Māhamudhrā e la quarta, della perseveranza entusiastica, è
presente in tutte in quanto indispensabile alla loro applicazione.
L’obiettivo
della pratica di Māhamudhrā è la vacuità della mente.
Esaminando
le Quattro Nobili Verità vediamo che la prima nobile verità della
sofferenza, non è esterna, ma interiore: non occorre cercarla
all’esterno in quanto è l’esperienza della stessa sofferenza
mentale.
La
sofferenza è incessantemente congiunta alla mente, nessun anestetico
potrebbe annullare questo dolore e tentando di farlo si ucciderebbe
al contempo la gioia, dunque l’unico modo per liberarsene senza
dover combattere e opporvisi aggressivamente è la meditazione di
Māhamudhrā che, tramite l’osservazione della mente stessa, del
sorgere della sofferenza mentale o psicologica o emozionale, conduce
alla conoscenza della vacuità della mente.
La
nobile verità della causa della sofferenza, così come la verità
del sentiero che conduce alla liberazione dalla sofferenza, sono
parte della mente, della struttura psicologica della mente,
ugualmente la verità della cessazione della sofferenza è anch’essa
parte del mondo mentale, della natura ultima della mente.
La
capacità di liberarsi dalla sofferenza mentale dipende dalla
comprensione della natura ultima della mente.
La
procedura meditativa che abbiamo illustrato oggi, delle sei
perfezioni come facenti parte della struttura meditativa della
Mahamudra, è molto efficace. Il primo passo consiste nello
stabilizzare la concentrazione sulla natura convenzionale della mente
al fine di riconoscerla. Questo deve essere accompagnato dalle
pratiche preliminari che producono accumulazione dei meriti e
purificazione delle negatività. Questo è il modo di meditare:
osservare la mente, senza tensioni, né resistenze, ma lasciando
andare ogni pensiero con consapevolezza, senza forzare né
combattere, come si insegna nel Theravāda a “osservare e lasciar
andare”, così è nella Māhamudhrā.
Meditazione
nella Mahamudra è questo “lasciare andare” nella consapevolezza.
E’ importante lasciar scorrere i pensieri senza giudicarli né
afferrarsi ad essi, concentrandosi invece sulla natura della mente,
in questo modo diminuirà giorno dopo giorno il chiacchiericcio
mentale e nascerà gioia nel continuum mentale, si avrà maggiore
stabilità, tranquillità, meno timori e una migliore conoscenza di
se stessi.
Avendo
acquisito una stabile chiara contemplazione della natura
convenzionale della mente si procede alla ricerca dell’io, del sé;
dov’è questo io? cos’è? è il fenomeno più misterioso e crea
la maggior confusione, è un nemico che non si può cacciare, è il
ladro dentro la casa, il quale, non solo nega di essere un ladro, ma
è convinto di essere il padrone di casa e come tale si muove, appare
e scompare, quando lo si cerca sparisce e quando non lo si vuole
intorno impone la sua presenza, consumando in questo modo tutte le
buone qualità e spargendo ovunque solo quelle cattive, e tutto
questo disordine deve essere ripulito.
Questo
è l’io, l’ego a cui si è così fortemente attaccati, e
stranamente, malgrado vi siano tanti rituali, oracoli, divinazioni e
preghiere per ogni circostanza, non esiste nessuna pūja per il vero
problema, eliminare l’ego, ciò significa che ognuno deve lavorare
su se stesso, nessun aiuto può venire dall’esterno.
Un'altra
pratica comune nella cultura tibetana è relativa al powa, cioè il
trasferimento nel momento della morte del principio cosciente in una
terra pura e che prevede l’esecuzione di una particolare procedura
atta ad incanalare correttamente il movimento dei venti in modo che
si apra spontaneamente una fessura sulla sommità del cranio da cui
la coscienza possa elevarsi verso la terra pura; ma siamo proprio
sicuri che basti un buco in testa per essere liberati?
Queste
visioni infantili sono terrificanti e veramente dannose per la
maturazione umana. In America esistono centri in cui si insegna la
pratica del powa e terminato l’addestramento si consegnano diplomi
che attestano l’abilità a praticarla e garantiscono in questo modo
l’accesso al paradiso, ma tutto questo è terribile e si discosta
persino dalla tradizione tibetana in cui il morente è comunque
accompagnato nel powa dalle preghiere del Lama, in occidente invece
tutto è stato trasformato in un business certificato, e questo è
davvero molto pericoloso.
La
Māhamudhrā è completamente diversa, ognuno vede in se stesso i
cambiamenti prodotti dalla pratica, ed è questa trasformazione
interiore la vera garanzia.
La
Māhamudhrā è una pratica pacifica, non violenta, in cui la mente
permane nello stato naturale e lascia scorrere, senza afferrarli, gli
oggetti che in questo modo perdono forza giorno dopo giorno, fino a
scomparire. Questo è il modo non aggressivo per liberarsi da ogni
oscurità, da ogni ostacolo, da ogni impurità e da ogni interferenza
e sofferenza.
Non
si pretende dunque di ottenere quasi magicamente e istantaneamente
l’illuminazione e il nirvāna, non avrebbe alcun senso.
Il
desiderio di ottenere l’illuminazione per il bene di tutti gli
esseri senzienti è positivo se è tranquillo, senza aspettative,
sinceramente motivato dalla compassione che fa procedere un passo
dopo l’altro, giorno per giorno, nella pacificazione della mente in
modo che sia più chiara e possa al momento della morte lasciare
questo corpo serenamente.
La
ricerca affannosa, il desiderio esasperato di ottenere subito grandi
realizzazioni, l’illuminazione, il nirvana, la buddhità per il
beneficio di tutti gli esseri senzienti, non porta da nessuna parte,
è attaccamento, illusione, è simile al sogno di un bambino piccolo
che vuole costruire un grande grattacielo, di fatto noi siamo come
bambini che desiderano diventare Arhat, Bodhisattva, Buddha, ma la
nostra spiritualità è infantile, appena abbozzata e non abbiamo
maturato nessuna delle capacità necessarie per raggiungere queste
mete, possiamo invece realizzare il primo passo di Māhamudhrā che
permetterà di evolversi nei successivi.
Domanda:
Relativamente alla formula della presa di rifugio nei tre gioielli in
cui si auspica l’illuminazione per il bene di tutti gli esseri
senzienti, se non la si afferra con attaccamento, ma la si esprime in
quanto motivazione di base per procedere sul sentiero, è ugualmente
un’attitudine negativa?
Lama: No,
a patto che sia completamente libera da ogni attaccamento,
dall’orgoglio, e solo come auspicio.
Intervento:
però è comunque rischioso perché il confine è molto sottile.
Intervento:
Certo,
devi essere estremamente vigile e attento senza mai montarti la
testa, procedendo prudentemente un passo alla volta, perché il
rischio dell’ego è comunque sempre presente, è il ladro che se ne
sta comodo in casa….
Lama: Si
tratta di essere molto realistici, di imparare a guardare in se
stessi, conoscere le proprie forze, senza nutrire con fantasie,
illusioni e orgoglio l’onnipresente ego, dopo di che va bene anche
fissare un ideale, sapendo però che è a lunghissimo termine e che è
appunto soltanto un ideale oggi non raggiungibile.
Quello
che praticamente siamo in grado di fare è realizzare il primo passo
della Māhamudhrā che è, come dicevamo prima, l’osservazione
distaccata di tutto ciò che appare nella mente lasciandolo scorrere
e riconoscere la natura convenzionale della mente.
Questo
procedimento si inserisce perfettamente nel contesto integrato delle
Quattro Nobili Verità, con la Māhamudhrā al centro, e le Sei
Pāramitā di supporto.
Nelle
Quattro Nobili Verità vi è il pensiero positivo e quello negativo,
il samsāra e il nirvāna, tutto è compreso nella base meditativa
integrata delle Quattro Nobili Verità, delle sei Pāramitā e di
Māhamudhrā. Questa è una condizione realistica della meditazione e
costituisce il primo passo verso l’obiettivo.
Entrambi,
il samsāra e il nirvāna sono le manifestazioni dello stato ultimo
della mente; ma si inizia dall’osservazione della mente fino a
comprenderne la natura convenzionale, e si giunge così ad osservare
l’io, ma cos’è l’io? L’afferrare l’io, ma cos’è questo
afferrare? Poi viene la vacuità dell’io, e si giunge infine alla
Mahamudra la vacuità della mente, la natura ultima della mente.
Vacuità
della propria mente, non della mente altrui, perché si era meditato
sul proprio io, e per far ciò occorreva stabilità mentale,
concentrazione sulla natura convenzionale della mente.
Per
giungere a comprenderlo si deve prima di tutto osservare il
meccanismo dell’afferrare l’io, il sorgere dell’io, il modo con
cui è afferrato questo io, per passare alla vacuità dell’io, e
soltanto dopo aver visto l’io, dal suo sorgere alla sua vacuità,
si può procedere al compimento della Māhamudhrā, cioè
all’osservazione della natura ultima della mente.
Si
giunge all’osservazione della natura ultima della mente tramite una
stabile, quieta, calma concentrazione sulla mente convenzionale, sul
formarsi del’io, sull’aggrapparsi all’io, sulla vacuità
dell’io. Questo è il modo corretto di procedere.
La
pratica preliminare o del fondamento della Māhamudhrā e la pratica
vera e propria della Māhamudhrā vanno di pari passo, insieme, non
seguono un percorso progressivo che prevede prima il completamento
della parte preliminare per accedere in un tempo successivo alla
seconda fase, al contrario, l’unione integrata di tutti gli aspetti
delle pratiche, preliminare ed effettiva, procede congiuntamente
dall’inizio alla fine.
Ci
sono domande?
Domanda:
Finché va tutto bene sembra possibile praticare tranquillamente, ma
quando si è travolti da eventi veramente gravi, come malattie e la
morte di persone care, mi chiedo se la pratica non sia soltanto
finalizzata, se e come serva, ad affrontare queste situazioni
drammatiche?
Lama: La
pratica essenziale nel Dharma è la rinuncia, che non riguarda amici,
parenti, qualcuno o qualcosa in particolare, non è fuggire dai
problemi, ma è la rinuncia al samsāra. Bisogna vivere
consapevolmente nel samsāra senza rimanerne attaccati, come il fiore
di loto che nasce nel fango, ma non è contaminato dal fango.
Intervento:
Lo stesso concetto è espresso nel cristianesimo: “siate nel mondo,
ma non del mondo”.
Lama: Infatti,
perché non si può sfuggire alla realtà del samsāra, è la nostra
casa, come ha detto il Buddha nascita, malattia, invecchiamento e
morte non possono essere evitati, riguardano tutti gli esseri
indiscriminatamente, in modo assolutamente equanime e il primo passo
per affrontare questa realtà è la rinuncia, perché tutto il dolore
deriva dall’attaccamento, dall’afferrarsi ad un io che non si
conosce. Nella Māhamudhrā si è ininterrottamente consapevoli della
condizione samsarica, si riconosce lo stato illusorio della visione
della realtà.
Domanda:
Come inserisci tutto questo, che è completo in sé, con la pratica
del mantra, dei rituali, delle offerte, delle divinazioni e di tutto
il resto, perché parrebbe che non ve ne sia necessità?
Lama: La
Māhamudhrā è universale e la via che porta ad essa deve essere
spoglia da ogni esteriorità, tutte le pratiche che tu hai elencato
ne sono inevitabilmente escluse. La Māhamudhrā va diretta alla vera
natura della mente-cuore.
La
recita dei mantra, di qualsiasi preghiera, delle visualizzazioni,
aiutano a connettersi con la mente calma e acquietata della
meditazione, sono strumenti e non devono essere confusi con le
realizzazioni altrimenti si crea un’ulteriore illusione, la
Māhamudhrā è libera da tutto questo, è concretamente immersa
nella realtà quotidiana di ognuno.
Lama: Roberto,
per favore dacci un tuo commento.
Roberto: Tutto
serve per capire. Sbatti contro un muro, poi un altro e un altro
ancora e alla fine capisci che devi apportare un diverso ordine in te
stesso e quindi cerchi un aiuto, una risposta che ti permetta di
rendere significativa la tua vita.
Personalmente,
quando nel buddhismo mi è stata spiegata la bodhicitta, ne sono
rimasto affascinato, l’ho trovata più che convincente e ho voluto
approfondirla, però è talmente vasta e complessa che ogni giorno
propone nuovi aspetti da capire e alla fine non si sa più dove
collocarli e ci si chiede cosa sia davvero essenziale.
Allora
si approda alla scuola Theravāda che smantella tutta la costruzione
di mantra, di visualizzazioni, e dice semplicemente: “siedi e
osserva” e ci si accorge che in queste due parole c’è tutto, non
occorre altro, nemmeno l’aspirazione alla bodhicitta, perché si
vede come in realtà si trattasse soltanto di elaborazioni mentali,
intellettuali, non reali. E’ come se si avesse a disposizione
un’enciclopedia, ma si sapesse che l’unica informazione utile è
contenuta in un piccolo foglietto che si ha in mano.
I
tibetani possono raggiungere l’illuminazione recitando con
devozione il mantra “Om Mani Padme Hum”, un’altra tradizione
con lo stare seduti e osservare e così via, le possibilità sono
infinite e c’è il rischio di perdersi nei meandri della forma e di
avere difficoltà a tornare alla sostanza autentica. Allora ci si
chiede se non sia necessario mettere da parte la forma per poter
trovare la sostanza. Questa è una domanda….
Lama: Durante
la mia permanenza in California sono stato ospite di una coppia di
anziani praticanti molto intelligenti e con la mente veramente
aperta, non settari, della tradizione Rimé, che mi hanno chiesto di
dare alcuni insegnamenti in luoghi diversi, e alla fine Judith,
questa signora settantenne che da molti anni pratica il Dharma e si
sente autenticamente buddhista, ha commentato: “tu
insegni la sostanza, senza aggiungere alcuna forma”.
Anche
in questo incontro ho parlato della Māhamudhrā senza forma, se
l’avessi insegnata secondo la tradizione tibetana avrei dovuto
presentare la Māhamudhrā con forma, che però è tutt’altra cosa.
La
Māhamudhrā senza forma è essenziale, è perfetta in ogni
religione, cultura, ambiente, situazione di vita, e in ciascuna mente
umana.
Io
insegno il Dharma, non una religione in particolare, e non c’è in
questo nessuna contraddizione con il buddhismo che io seguo in quanto
vi sono nato e ne ho ricevuto l’educazione, è parte di me, e
dunque pratico la Māhamudhrā nella forma che mi è familiare, ma
per voi sarebbe senza senso, voi dovete praticare la Māhamudhrā
consapevolmente presenti nella vostre radici.
Questa
è la grandezza della Māhamudhrā senza forma, è un regalo
universale.
Intervento:
Penso che per noi il primo fondamentale obiettivo sia scovare sempre
il nemico, il ladro che abbiamo in casa, cominciare a conoscere la
propria mente e cercare di trasformarla un passettino alla volta. I
metodi che si usano, la recita del padre nostro o i mantra o lo stare
seduti ed osservare, non sono rilevanti, sono soltanto strumenti che
permettono ad ognuno di trovare la propria strada, indipendentemente
da tradizioni, fedi o ateismo.
Lama: Si,
è così.
Possiamo
concludere questo incontro e vi ringrazio perché è stato veramente
bello affrontare insieme questo aspetto del Dharma.
TESTI
ANNESSI
I tre Aspetti
Principali del Sentiero
Testo insegnato
dall’erudito monaco Lobsang (Tsong
Khapa ) a Tsa Kho
Vonpo Ngawang Drakpa.
Traduzione inglese e note a cura di
Geshe Gedun Tharchin - La traduzione italiana è stata effettuata
dall’Istituto Lam Rim di Roma.
Porgo
omaggio ai venerabili Lama.2
Spiegherò,
come meglio posso,
il
significato essenziale di tutte le Scritture del Buddha,
il
sentiero lodato dagli eccellenti Bodhisattva3,
la
via d’accesso per il fortunato che anela alla liberazione.4
Coloro
che non sono attaccati ai piaceri dell’esistenza mondana5,
coloro
che si sforzano per rendere utili le circostanze favorevoli e la
fortuna6,
coloro
che propendono per il sentiero che compiace Buddha ,
questi
fortunati7
dovrebbero ascoltare con mente attenta.
Senza
una rinuncia8
completamente pura,
non
vi è modo di frenare l’ardente ricerca di piaceri nell’oceano
dell’esistenza9.
Inoltre,
l’attaccamento all’esistenza ciclica imprigiona completamente gli
esseri incarnati.
Quindi,
sin dall’inizio, bisognerebbe cercare di realizzare la rinuncia.
Le
circostanze favorevoli e la fortuna sono difficili da ottenere
e
la vita non è lunga,
familiarizzando
con ciò, si elimina l’attaccamento alle apparenze di questa vita.
Riflettendo
costantemente sul karma e sui suoi inevitabili effetti
e
sulle sofferenze del samsara10,
si
elimina l’attaccamento alle apparenze delle vite future11.
Se,
avendo meditato in tal modo, non nasce nessun desiderio
per
i piaceri dell’esistenza ciclica,
e
se costantemente, giorno e notte, sorge un’aspirazione alla
liberazione,
allora
la rinuncia è stata generata.
Tuttavia,
se questa rinuncia non viene unita alla generazione
di
una completa aspirazione alla più alta illuminazione12,
non
diverrà causa della meravigliosa beatitudine dell’insuperabile
Bodhi13.
Perciò
il saggio dovrebbe generare il supremo Bodhicitta14.
Gli
esseri samsarici vengono trascinati dalla corrente dei quattro
potenti fiumi15,
sono
legati con le strette catene del karma16,
difficile da eliminare,
sono
entrati nella gabbia di ferro dell’attaccamento al Sé17,
sono
completamente oscurati dalle fitte tenebre dell’ignoranza,
nascono
nell’esistenza senza limiti, e nelle loro nascite
vengono
incessantemente torturati dalle tre sofferenze18.
Riflettendo
in tal modo circa la condizione delle madri19
che si trovano in tale stato,
genera
la suprema intenzione altruistica di divenire un Risvegliato20.
sebbene
tu abbia sviluppato la rinuncia e il Bodhicitta,
la
radice del samsara23
non può essere estirpata.
Quindi,
impegnati intensamente per realizzare l’origine interdipendente24.
Colui
che vede come inevitabile la realtà di causa ed effetto di tutti i
fenomeni
nel
samsara e nel nirvana25,
distrugge
totalmente ogni percezione errata
ed
è entrato nel sentiero che compiace i Buddha.
Fin
quando le due realizzazioni, quella delle apparenze,
ovvero
l’inevitabilità dell’origine interdipendente26
e
quella della Vacuità, ovvero la non-asserzione27,
vengono
considerate separate, non vi è ancora la realizzazione
del
pensiero di Buddha Shakyamuni28.
Quando
le due realizzazioni esistono simultaneamente, senza alternarsi,
e
la semplice percezione dell’inevitabilità dell’origine
interdipendente eliminerà
la
concezione di un’esistenza intrinseca,
allora
l’analisi della visione29
è completa.
Se
comprenderai che la Vacuità appare come causa ed effetto,
non
sarai preda delle visioni estremiste34.
Quando
avrai realizzato correttamente
i
punti essenziali dei tre aspetti principali del sentiero35,
dimora
in solitudine e genera il potere della perseveranza entusiastica36.
OTTO
VERSI DELLA TRASFORMAZIONE DELLA MENTE
Gli
otto versi della trasformazione della mente” appartengono ad un
importantissimo testo scritto da Kadampa Geshe Langri Tangpa, (XII°
secolo)
e fanno parte
degli insegnamenti Lo Jong. Il poema fu composto nel periodo in cui
in Tibet prosperava la scuola Kadampa. - La traduzione italiana è
stata effettuata dall’Istituto Lam Rim di Roma
Considerando
tutti gli esseri senzienti
superiori
alla gemma che esaudisce i desideri
per
realizzare il fine supremo39
possa
io costantemente prenderli a cuore.
Quando
sarò con gli altri,
riterrò
me stesso come il meno importante,
e
mi prenderò cura di loro fin nel profondo del cuore
come
se ognuno fosse il più elevato degli esseri.
Vigile,
ogni volta che sorge un’emozione negativa40
Che
possa nuocere me o gli altri,
l’affronterò
e l’eliminerò
senza
indugio.
Vedendo
esseri in preda alla malvagità
avrò
sempre cura di tali creature così rare,
come
se avessi trovato un tesoro prezioso.
Quando
altri, per invidia, mi maltratteranno,
mi
insulteranno o faranno cose simili,
accetterò
la sconfitta e offrirò la vittoria.
Quando
qualcuno a cui ho fatto del bene
e
in cui ho riposto grandi speranze
mi
infligge un danno terribile,
lo
considererò il mio santo amico spirituale43.
(ripetere 3 volte) In
breve, direttamente e indirettamente, offro
ogni
beneficio e felicità a tutti gli esseri senzienti, mie madri44;
possa
io segretamente prendere su di me
tutte
le loro azioni negative e sofferenze.
Possa
la pratica non essere mai contaminata dalle idee causate
dalle
otto preoccupazioni mondane45,
e,
consapevole che tutte le cose sono illusorie,
possa
io, privo di attaccamento, essere libero dal samsara46
PREGHIERA
CONCLUSIVA DEL LAM-RIM
Per
le due raccolte che pervadono la vastità dello spazio, accumulate
con molto impegno per lungo tempo possa io diventare rapidamente il
potente vittorioso che guida i migratori il cui occhio mentale è
ottenebrato dall’ignoranza.
Da
ora in tutte le mie esistenze possa Mañjusri prendersi cura di me
con amore, possa io trovare il supremo sentiero graduale di tutti gli
insegnamenti, praticarlo e compiacere tutti i vittoriosi.
Utilizzando
ogni realizzazione dei punti del sentiero, dissiperò l’oscurità
mentale di tutti gli esseri attraverso metodi abilissimi dettati
dall’intenso potere dell’amore.
Possa
io sostenere e propagare per eoni gli insegnamenti del vittorioso,
ovunque il prezioso insegnamento non sia giunto o dove sia
degenerato, spinto da grande compassione, possa io diffondere la luce
su questi benefici tesori.
Possano
le meravigliose opere virtuose dei vittoriosi e dei loro figli e la
pratica eccellente degli stadi del sentiero all’illuminazione
arricchire la mente dei ricercatori della liberazione, possano le
azioni dei vittoriosi continuare a lungo.
Possa
tutto essere reso favorevole alla pratica del sentiero eccellente e
siano dissipati gli ostacoli. Possano tutti gli esseri umani e non
umani in tutte le loro vite non essere mai separati dal sentiero puro
elogiato dai vittoriosi.
Chiunque,
con grande energia, si impegna operando in armonia con le pratiche
preparatorie del veicolo supremo possa essere sempre assistito dai
potenti dharmapala e possano estendersi oceani di buona fortuna,
pervadendo ogni direzione.
PREGHIERA
MĀHAMUDRĀ
O
Grande Vajradhara, che pervadi tutte le nature,
Glorioso
primo Buddha, principio di tutte le famiglie di Buddha
Nella
dimora celeste dei tre corpi spontanei,
Ti
prego di concedermi la tua benedizione.
Affinché
io possa sradicare la pianta rampicante dell’attaccamento al sé
nel mio continuum mentale,
Praticare
l’amore, la compassione e la bodhicitta,
e
compiere velocemente il Māhamudhrā del sentiero dell’Unione,
O
Onnisciente, Eccelso Mañjusrī,
Padre
di tutti i Conquistatori dei tre tempi,
Nelle
terre di Buddha attraverso i mondi delle dieci direzioni,
Ti
prego di concedermi la tua benedizione.
Affinché
io possa sradicare la pianta rampicante dell’attaccamento al sé
nel mio continuum mentale,
Praticare
l’amore, la compassione e la bodhicitta,
e
compiere velocemente il Māhamudhrā del sentiero dell’Unione,
O
Guru venerabili,
Guide
spirituali che, per discepoli fortunati,
Avete
diffuso l'essenza del Dharma,
Vi
prego di concedermi la vostra benedizione.
Affinché
io possa sradicare la pianta rampicante dell’attaccamento al sé
nel mio continuum mentale,
Praticare
l’amore, la compassione e la bodhicitta,
e
compiere velocemente il Māhamudhrā del sentiero dell’Unione,
Vi
prego concedetemi la vostra benedizione.
Affinché
io possa vedere il venerabile Guru come un Buddha,
Superare
l’attaccamento per il samsāra,
Completare
i sentieri comuni e non comuni,
e
ottenere velocemente l’Unione del Māhamudhrā.
(ripetere
3 volte) Il
mio corpo e il tuo corpo, o Padre,
La
mia parola e la tua parola, o Padre,
La
mia mente e la tua mente, o Padre,
Possano,
attraverso la tua benedizione, divenire un’unità inseparabile.
1
Tratto dal testo edito da Ubaldini editore – Roma – collana
Civiltà dell’Oriente
2
Lama: (termine tibetano, in sanscrito guru) guida o maestro
spirituale. Letteralmente: “ricco di qualità spirituali”.
3
Bodhisattva: (termine sanscrito) colui che possiede la Bodhicitta.
4
Liberazione: (in sanscrito moksha) eliminazione di tutte le
emozioni afflittive o illusioni, ottenimento dello stato di Arhat,
il sentiero della fine dell’apprendimento del sarvabuddha e del
pratyekabuddha
5
Piaceri dell’esistenza mondana: piaceri dominati dall’attaccamento
ai piaceri dei sensi.
6
Circostanze favorevoli e fortuna: avere buone opportunità e
condizioni per praticare il Dharma.
7
Fortunati: coloro che hanno incontrato il Dharma e sono capaci di
praticarlo.
8
Rinuncia: autentica intenzione di abbandonare il Samsara e
raggiungere il Nirvana.
9
Oceano dell’esistenza: (in sanscrito samsara, in tibetano
khor wa) attaccamento alle apparenze di questa vita,
interesse per gli aspetti riguardante la vita presente.
10
Samsara: (termine sanscrito) gli aggregati impuri di un essere
senziente, che da tempo senza inizio hanno dato luogo al ciclo di
morte e rinascita a causa dell’illusione e del karma, e hanno reso
gli esseri senzienti carichi delle sofferenze dei sei regni
fisici/spirituali.
11
Attaccamento alle apparenze delle vite future: interesse per gli
aspetti riguardanti le prossime vite nel samsara.
12
Aspirazione alla più alta illuminazione: (in sanscrito Bodhicitta,
in tibetano jang chub kyi sem).
13
Insuperabile Bodhi: lo stato di Buddha.
14
Bodhicitta: (termine sanscrito) autentica aspirazione a raggiungere
la completa illuminazione allo scopo di portare tutti gli esseri
senzienti allo stato di completa illuminazione.
15
Quattro potenti fiumi: rinascita, invecchiamento, malattia e morte.
16
Karma: (termine sanscrito, in italiano azione, in tibetano
les) una sottile impronta nel continuum mentale proveniente
da esperienze precedenti, la quale da impulsi ad azioni mentali e
fisiche.
17
Attaccamento al Sé: (in tibetano dag zin): percezione errata
che si attacca all’idea di un Sé o di un Io intrinsecamente
esistente.
18
Tre sofferenze: sofferenza del dolore, sofferenza del cambiamento,
sofferenza della condizione.
19
Madri: tutti gli esseri senzienti, i più cari, quelli che hanno
recato più benefici.
20
Intenzione altruistica di divenire un Risvegliato: in questo
contesto si riferisce al Bodhicitta.
21
Saggezza: realizzazione della Vacuità.
22
La vera natura delle cose: la realtà ultima dell’esistenza delle
cose, vacue di un’esistenza intrinseca.
23
Radice del Samsara: l’ignoranza, il non vedere la verità, opposta
alla saggezza.
24
Origine interdipendente: (in tibetano ten byung) la realtà
dell’esistenza delle cose e degli eventi, che esistono in modo
interdipendente.
25
Nirvana: al di là della sofferenza, cessazione della sofferenza.
26
Apparenze, ovvero l’inevitabilità dell’origine interdipendente:
realtà convenzionale o verità convenzionale.
27
Vacuità, ovvero la non-asserzione: realtà ultima o verità ultima.
28
Pensiero del Buddha Shakyamuni: la natura non duale delle due
verità.
29
Visione: realtà ultima.
30
Estremo dell’esistenza: l’idea che le cose esistano solo in
maniera intrinseca o da sé.
31
Apparenza: Visione comune.
32
Estremo della non-esistenza: l’idea che le cose non esistano, se
non in maniera intrinseca.
33
Vacuità: la vera natura dei fenomeni, non esistenti in maniera
intrinseca.
34
Visioni estremiste: Nichilismo ed Eternalismo.
35
I tre aspetti principali del sentiero: Rinuncia, Bodhicitta e
Saggezza.
36
Perseveranza entusiastica: sforzo gioioso nella pratica del Dharma.
37
Meta finale: illuminazione completa, stato di Buddha .
38
Figlio mio: in maniera diretta, si riferisce a Tsakhowa Ngawang
Dakpa; in maniera indiretta a coloro che desiderano realizzare i tre
aspetti principali del sentiero.
39
Fine supremo: lo stato di completa illuminazione, lo stato di
Buddha.
40
Emozione negativa: (in tibetano nyon
mong) le
contaminazioni mentali quali rabbia, attaccamento, ignoranza
41
Azioni negative: (in tibetano dig
pa) una disposizione
mentale causata da un’azione negativa commessa.
42
Sofferenze: (in pali dukkha)
la verità della Sofferenza, che ha tre livelli: sofferenza del
dolore, sofferenza del cambiamento, sofferenza del samsara.
43
Amico spirituale: (in tibetano ge
wei she nyen, Geshe)
colui che aiuta a fare azioni virtuose.
44
Madri: - tutti gli esseri senzienti sono state nostre madri. – La
persona più cara e quella più giovevole.
45
Otto preoccupazioni mondane: le idee generate dal guardare
attraverso gli occhi dell’attaccamento e dell’avversione, sono:
piacere e dispiacere, vittoria e perdita, lode e biasimo, gloria e
disgrazia.
46
Samsara: (termine sanscrito, in tibetano khor
wa) attaccamento
bramoso alle cose mondane che fa permanere nel circolo della
sofferenza e dell’insoddisfazione.
Testi
annessi:
I Tre Aspetti Principali del Sentiero
Gli Otto Versi di Trasformazione della Mente
Preghiera di dedica del Lam Rim
Preghiera di Māhamudhrā
La
conoscenza basata sulla percezione
diretta;
La
conoscenza basata sulla logica
deduttiva, a sua
volta fondata sulla percezione diretta;
La
conoscenza basata sulle realizzazioni
ottenute tramite la percezione diretta e la logica deduttiva.
L’addestramento
superiore della moralità si fonda sulla compassione universale;
L’addestramento
superiore della concentrazione si colloca al primo livello del
Māhamudhrā, ovvero la concentrazione sulla mente;
L’addestramento
superiore della saggezza appartiene al secondo livello del
Māhamudhrā e consiste nella contemplazione della realtà ultima
della mente.
Preliminari
di amore e compassione;
Calmo
dimorare della mente;
La
realizzazione dell’osservazione e la ricerca della mente.
****
Questa
adorazione dei Sugata, la generosità, la buona condotta osservata
nel corso di migliaia di eoni: l’odio distrugge tutto ciò.
.Non
c’è male uguale all’odio, non c’è pratica spirituale uguale
alla pazienza: Perciò con vari mezzi, con grande sforzo, si
sviluppi la pazienza.
”
La mente non trova
pace, ne gioisce di piacere o diletto, né si addormenta, né si
sente sicura finché il dardo dell’odio è conficcato nel cuore.
Persino
coloro che si onora con doni e rispetto, e anche i propri
dipendenti, bramano di distruggere il padrone che è sfigurato
dall’odio.
Anche
gli amici rifuggono da lui. Egli dà, ma non è onorato. In breve,
non c’è verso per cui chi è incline alla rabbia sia ricco.
Chi
comprende che l’odio è un nemico poiché crea simili sofferenze,
e con ostinazione lo colpisce, è felice in questo mondo e nel
successivo.
Consumando
il cibo della frustrazione preparato facendo l’indesiderabile e
ostacolando il desiderabile , un odio tagliente mi abbatte.
Perciò
distruggerò il cibo di questo ingannatore, perché questo odio non
ha altro fine che il mio assassinio.
Che
io non turbi il sentimento di gioia partecipe, anche all’arrivo di
qualcosa di estremamente sgradito. Non c’è nulla di desiderabile
nello stato di frustrazione, al contrario, ciò che è salutare
viene trascurato.
Se
c’è una soluzione, che senso ha la frustrazione? Che senso ha la
frustrazione se non c’è soluzione?
Sofferenza,
umiliazione, dure parole e disonore: non desideriamo queste cose né
per noi stessi né per i nostri cari; ma è l’inverso per i nostri
nemici.
La
felicità è rara. La sofferenza persiste senza sforzo, ma solo
attraverso la sofferenza si può trovare scampo. Perciò, o mente,
sii forte!
Nel
Karnāta i devoti del Durgā sopportano volentieri e inutilmente il
dolore di ustioni, ferite, e altro ancora. Dal momento che la mia
meta è la liberazione, perché sono un codardo?
Con
la pratica nulla rimane difficile. Così, facendo pratica con i
disagi minori, diventano sopportabili anche i disagi maggiori.
L’irritazione
di cimici, moscerini e zanzare, di fame e sete, e sofferenze quali
un grande prurito: perché non le consideri insignificanti?
Freddo,
caldo, pioggia e vento, viaggio e malattia, prigione e percosse: non
bisognerebbe essere troppo sensibili al riguardo. Altrimenti
l’angoscia peggiora.
1
Tratto dal testo edito da Ubaldini editore – Roma – collana
Civiltà dell’Oriente
2
Lama: (termine tibetano, in sanscrito guru) guida o maestro
spirituale. Letteralmente: “ricco di qualità spirituali”.
3
Bodhisattva: (termine sanscrito) colui che possiede la Bodhicitta.
4
Liberazione: (in sanscrito moksha) eliminazione di tutte le
emozioni afflittive o illusioni, ottenimento dello stato di Arhat,
il sentiero della fine dell’apprendimento del sarvabuddha e del
pratyekabuddha
5
Piaceri dell’esistenza mondana: piaceri dominati dall’attaccamento
ai piaceri dei sensi.
6
Circostanze favorevoli e fortuna: avere buone opportunità e
condizioni per praticare il Dharma.
7
Fortunati: coloro che hanno incontrato il Dharma e sono capaci di
praticarlo.
8
Rinuncia: autentica intenzione di abbandonare il Samsara e
raggiungere il Nirvana.
9
Oceano dell’esistenza: (in sanscrito samsara, in tibetano
khor wa) attaccamento alle apparenze di questa vita,
interesse per gli aspetti riguardante la vita presente.
10
Samsara: (termine sanscrito) gli aggregati impuri di un essere
senziente, che da tempo senza inizio hanno dato luogo al ciclo di
morte e rinascita a causa dell’illusione e del karma, e hanno reso
gli esseri senzienti carichi delle sofferenze dei sei regni
fisici/spirituali.
11
Attaccamento alle apparenze delle vite future: interesse per gli
aspetti riguardanti le prossime vite nel samsara.
12
Aspirazione alla più alta illuminazione: (in sanscrito Bodhicitta,
in tibetano jang chub kyi sem).
13
Insuperabile Bodhi: lo stato di Buddha.
14
Bodhicitta: (termine sanscrito) autentica aspirazione a raggiungere
la completa illuminazione allo scopo di portare tutti gli esseri
senzienti allo stato di completa illuminazione.
15
Quattro potenti fiumi: rinascita, invecchiamento, malattia e morte.
16
Karma: (termine sanscrito, in italiano azione, in tibetano
les) una sottile impronta nel continuum mentale proveniente
da esperienze precedenti, la quale da impulsi ad azioni mentali e
fisiche.
17
Attaccamento al Sé: (in tibetano dag zin): percezione errata
che si attacca all’idea di un Sé o di un Io intrinsecamente
esistente.
18
Tre sofferenze: sofferenza del dolore, sofferenza del cambiamento,
sofferenza della condizione.
19
Madri: tutti gli esseri senzienti, i più cari, quelli che hanno
recato più benefici.
20
Intenzione altruistica di divenire un Risvegliato: in questo
contesto si riferisce al Bodhicitta.
21
Saggezza: realizzazione della Vacuità.
22
La vera natura delle cose: la realtà ultima dell’esistenza delle
cose, vacue di un’esistenza intrinseca.
23
Radice del Samsara: l’ignoranza, il non vedere la verità, opposta
alla saggezza.
24
Origine interdipendente: (in tibetano ten byung) la realtà
dell’esistenza delle cose e degli eventi, che esistono in modo
interdipendente.
25
Nirvana: al di là della sofferenza, cessazione della sofferenza.
26
Apparenze, ovvero l’inevitabilità dell’origine interdipendente:
realtà convenzionale o verità convenzionale.
27
Vacuità, ovvero la non-asserzione: realtà ultima o verità ultima.
28
Pensiero del Buddha Shakyamuni: la natura non duale delle due
verità.
29
Visione: realtà ultima.
30
Estremo dell’esistenza: l’idea che le cose esistano solo in
maniera intrinseca o da sé.
31
Apparenza: Visione comune.
32
Estremo della non-esistenza: l’idea che le cose non esistano, se
non in maniera intrinseca.
33
Vacuità: la vera natura dei fenomeni, non esistenti in maniera
intrinseca.
34
Visioni estremiste: Nichilismo ed Eternalismo.
35
I tre aspetti principali del sentiero: Rinuncia, Bodhicitta e
Saggezza.
36
Perseveranza entusiastica: sforzo gioioso nella pratica del Dharma.
37
Meta finale: illuminazione completa, stato di Buddha .
38
Figlio mio: in maniera diretta, si riferisce a Tsakhowa Ngawang
Dakpa; in maniera indiretta a coloro che desiderano realizzare i tre
aspetti principali del sentiero.
39
Fine supremo: lo stato di completa illuminazione, lo stato di
Buddha.
40
Emozione negativa: (in tibetano nyon
mong) le
contaminazioni mentali quali rabbia, attaccamento, ignoranza
41
Azioni negative: (in tibetano dig
pa) una disposizione
mentale causata da un’azione negativa commessa.
42
Sofferenze: (in pali dukkha)
la verità della Sofferenza, che ha tre livelli: sofferenza del
dolore, sofferenza del cambiamento, sofferenza del samsara.
43
Amico spirituale: (in tibetano ge
wei she nyen, Geshe)
colui che aiuta a fare azioni virtuose.
44
Madri: - tutti gli esseri senzienti sono state nostre madri. – La
persona più cara e quella più giovevole.
45
Otto preoccupazioni mondane: le idee generate dal guardare
attraverso gli occhi dell’attaccamento e dell’avversione, sono:
piacere e dispiacere, vittoria e perdita, lode e biasimo, gloria e
disgrazia.
46
Samsara: (termine sanscrito, in tibetano khor
wa) attaccamento
bramoso alle cose mondane che fa permanere nel circolo della
sofferenza e dell’insoddisfazione.