Thursday, 8 January 2015

DHARMA E ADHARMA









DHARMA E ADHARMA








Geshe Gedun Tharchin

INSEGNAMENTI INTENSIVI
Istituto Lamrim/Fondazione Maitreya Roma
ANNO 2004













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.INDICE


Parte Prima - INSEGNAMENTI SPECIALI
Capitolo 1° Illuminare la via che conduce all’illuminazione 
- I tre livelli di pratica del Dharma e gli otto Dharma mondani……     2
- Triplici aspetti, la pratica della Rinuncia …………………………     8

Capitolo 2° Le sei paramita secondo Nagarjuna, Santideva e Maitreya …….   13

Capitolo 3°  Le Quattro Nobili verità……………………………………………   23

















***











Capitolo 1° 

Illuminare la via che conduce all’illuminazione


I tre livelli di pratica del Dharma e gli otto Dharma mondani

Oggi ci dedicheremo all’approfondimento del significato della parola “Dharma” in modo da poterlo praticare con sempre maggior consapevolezza. Non è un termine tibetano ma appartiene alla più antica cultura indiana e a tal proposito è interessante osservare come nel passato vi siano stati numerosi contatti tra le culture dell’antica Grecia e dell’India, in particolare al tempo del re Asoka, nel 270 a.C., tanto che i greci avevano tradotto “Dharma” con “buona condotta”, “buon cuore”.
Il Dharma rappresenta un fenomeno fondamentale nell’arricchimento della nostra umanità. Noi siamo sempre alla ricerca di una chiara definizione del Dharma perché intuiamo che in esso vi è un senso profondissimo. Da dove viene? come possiamo personalizzarlo? 
Il Dharma è una “bontà universale” che da sempre è parte dell’esistenza stessa e, dunque, nella nostra esperienza umana dobbiamo essere in grado di coglierne tutto il significato, esso è ciò che dà il senso alla nostra vita ed è possibile assimilarlo completamente in noi stessi, non considerandolo più come se fosse una realtà esterna, solo attraverso la sua comprensione totale e profonda.
Il Dharma non appartiene a un dato luogo, istituzione o individuo, è semplicemente qui. Non possiamo neppure riceverlo dal maestro, né compralo in un negozio, possiamo solo essere qui cercando, insieme, di comprenderne l’essenza universale e familiarizzare con essa. 
Con la presenza del Dharma nel cuore diventiamo persone più calorose, sensibili, gentili, ma quando ce ne allontaniamo siamo strumenti in balia delle nostre emozioni. Dovremmo imparare ad osservare in noi stessi la diversità della nostra esperienza quando viviamo nella presenza del Dharma e quando invece agiamo al di fuori di esso. 
Questo metodo chiarisce molto bene la realtà del Dharma e la sua influenza nella vita, perché, altrimenti, ne avremmo solo una conoscenza teorica, intellettuale, limitata ad un livello superficiale. 
E’ necessario procedere nel sentiero che porta alla comprensione del Dharma per fasi ordinate e susseguenti; il primo passo consiste nell’ascoltare, leggere e studiare, poi dobbiamo riflettere su quanto udito e studiato e, infine, possiamo contemplare. 
Tale gradualità evita che ci si fermi ad una conoscenza intellettuale ma fa si che se ne abbia una reale assimilazione nell’esperienza. Questi tre gradini sono fondamentali e, anche se all’inizio è sufficiente studiare in maniera superficiale, è però sempre necessario procedere alla successiva fase di riflessione e di contemplazione. 
Concluso questo primo approccio si riprenderà lo studio e sarà interessante osservare come esso ci sembrerà molto diverso, arricchito di elementi che prima non avevamo colto; si completerà dunque il secondo ciclo con le fasi della riflessione e della contemplazione, e così di seguito. Seguendo con costanza questo metodo il Dharma penetrerà sempre più profondamente in noi.
Pensare di comprendere il Dharma nella sua interezza in un solo istante, sin dall’inizio, è pura illusione ed è un grande ostacolo purtroppo molto frequente nella società occidentale, è invece importante il modo con cui si osserva il Dharma. Se si affronta il suo studio con ammirazione e ottimismo esso produrrà più frutti e risultati, se invece lo si affronta con un atteggiamento critico e negativo il tutto diverrà più complesso, irto di ostacoli e lo studio richiederà molto più tempo. 
E’ necessario accostarsi alla meditazione, al Dharma, con atteggiamento mentale positivo, sereno, privo di aspettative, evitando di caricarlo di peso eccessivo evitando di trasformarlo in “troppo” perché, anche se il Dharma è una cosa buona, il “troppo” è sempre sbagliato. I due ostacoli sono dunque l’eccessiva aspettativa e il coinvolgimento esagerato, ed è fondamentale evitarli entrambi. Se invece si riesce a mantenere la giusta misura in ogni tipo di realtà essa diverrà automaticamente positiva; ad esempio una sostanza potente può essere nel contempo un veleno pericoloso che però, se assunto in giusta dose, può essere una preziosa medicina. Se non si ha la giusta misura anche la realtà migliore, il Dharma, diventerà un veleno trasformandosi in “non-dharma”.
Non bisogna dunque avere fretta, non è una corsa, si deve procedere con un passo adeguato alle possibilità del momento ed è questo il metodo più veloce per sviluppare le proprie qualità interiori. Non si deve nemmeno pensare che aver a che fare con il Dharma sia qualcosa di molto facile, è, al contrario, arduo e difficile perché la motivazione che richiede il Dharma è diametralmente opposta alle tendenze abituali, definite nei testi buddhisti:“gli otto dharma mondani”. 
Uno di questi otto riguarda la “gratificazione dell’ego”: se gli altri ci lodano e ci rispettano ci sentiamo felici ma, al contrario, quando ci rimproverano o non ci rispettano siamo profondamente infelici. Se le persone parlano bene di noi siamo veramente contenti, se però dicono cose poco piacevoli sul nostro conto sprofondiamo nella prostrazione. Altrettanto se riceviamo regali e gratificazioni, o ci sentiamo dimenticati e frustrati, il nostro umore cambia radicalmente. Questo comportamento è veramente infantile, immaturo.
E’ interessante la storia che racconta di uno yogi tibetano che si era isolato per meditare, però per sopravvivere aveva bisogno del sostegno dei devoti che regolarmente venivano a trovarlo; un giorno, in attesa del loro arrivo, mise una particolare cura nel pulire l’altare e nel prepararlo, però realizzò che la motivazione per cui si dava un gran daffare era un Dharma mondano, voleva l’approvazione dei suoi amici, e poiché questo era un impedimento, prese della terra e la gettò sull’altare. Nello stesso istante nel sud dell’India uno yogi indiano cominciò a sorridere e quando i suoi discepoli gliene chiesero il motivo rispose che lo yogi tibetano in quel momento, gettando la terra sull’altare, aveva sconfitto il dharma mondano e questo era motivo di grande soddisfazione. 
Praticare il Dharma puro era già duro a quel tempo, ma per noi è quasi impossibile perché radicalmente opposto alla nostra attuale tendenza, non dobbiamo dunque avere l’aspettativa di diventare praticanti puri, dobbiamo accontentarci di piccoli ma progressivi passi. La storia dello yogi tibetano ci dimostra comunque che il Dharma dipende esclusivamente dalla motivazione interiore e non dall’apparenza esterna. Quando l’altare era bello e pulito non vi era Dharma a causa della motivazione egoistica, rivolta all’apparenza, ma lo è diventato quando l’altare è stato sporcato perché in quel momento la motivazione è stata purificata. Il gesto di gettare la terra ovviamente non era diretto contro l’altare, ma contro l’io, contro l’attaccamento all’io. Tutti gli otto Dharma mondani si basano sull’io in tutte le sue forme ed espressioni; ogni problema, sofferenza, difficoltà che sperimentiamo quotidianamente deriva da questo attaccamento all’io. 
Ogni sofferenza nasce dall’attaccamento all’io. Un tempo si seguiva un sentiero indicato dal Buddha, cercando di esserne coerenti con semplicità, oggi invece amiamo molto disquisire sottilmente se si tratta di psicologia buddhista o di filosofia  buddhista, mostrando cultura e capacità dialettica, forse, ma la realtà è sempre e solo una: prima c’è l’attaccamento all’io da cui deriva il senso del mio - il mio nome e tutto ciò che mi riguarda è mio. Poi subentra l’apparenza esterna, le azioni esterne che di per sé non hanno nulla di bene o di male, ma che diventano fortemente condizionate dall’attaccamento all’io e al mio.
La sofferenza o la felicità provocata dalle azioni esterne non dipende da esse in quanto tali ma dalla loro radice, dalla loro base. Se la radice affonda in un terreno avvelenato anche i frutti saranno velenosi, se invece affonda in buona nutriente terra i frutti saranno ricchi di sostanza e questo è il principio del Dharma. Ogni giorno ripetiamo la stessa routine, ripetiamo le stesse azioni, ma la gioia o l’infelicità che da esse deriva dipende esclusivamente dalla loro radice, dalla motivazione. 
Nell’attività quotidiana, nel nostro lavoro, a volte abbiamo successo e altre no perché ciò è parte naturale del ritmo dell’esistenza, non possiamo cambiare i fatti in assoluto positivo o negativo, però abbiamo piena libertà “nell’intenzione” e, anche quando tutto pare andare estremamente male, possiamo sempre mantenere un’intenzione buona conservando la serenità con attitudine ottimistica, in questo modo il principio dharmico è in grado di modificare i nostri rapporti nell’ambito dl lavoro. Ci sono dunque due livelli, quello esteriore del lavoro, della mente del lavoro, e quello interiore della mente del Dharma che può essere considerato come il nostro vero sé.   A livello esterno dobbiamo gestire le situazioni che si presentano a seconda delle condizioni rispondendo di volta in volta ad esigenze diverse, mentre a livello interno manteniamo la calma e la serenità mentale. La presenza del Dharma funge un po’ da climatizzatore in grado di regolare gradevolmente la temperatura, così quando ci troviamo in un ambiente frenetico e stressante, o siamo ammalati, il Dharma  mantiene il livello interiore costantemente calmo e sereno, è una realtà spirituale parte della nostra vita e dobbiamo mantenerne la presenza nel cuore sempre, anche quando stiamo dormendo. Questo è il metodo migliore per aver cura di noi stessi, sia psicologicamente che fisicamente.
Il titolo dell’insegnamento di oggi “Illuminare la via che conduce all’illuminazione” si riferisce ad un testo di Atisha, maestro indiano che svolse un ruolo fondamentale nella seconda diffusione del buddhismo in Tibet quando vi giunse nel X° secolo. Egli compose molti testi e tra questi “La Lampada della via dell’Illuminazione” che è un riassunto di tutti gli insegnamenti del Buddha, e di tutti gli insegnamenti del Dharma, perché il Dharma esisteva anche prima del Buddha, ma solo il Buddha era in grado di presentarlo. Per questo lo scritto di Atisha conosciuto anche come “Il sentiero che conduce all’illuminazione” o “Lam-rim” è il compendio di tutti gli insegnamenti del Dharma e di tutti gli insegnamenti del Buddha storico. Atisha presenta il Dharma in tre livelli:
 il primo è l’atteggiamento mentale, il desiderio, di fare del bene per realizzare situazioni mondane, per la vita;
il secondo è l’atteggiamento mentale, il desiderio, di raggiungere la liberazione, il Nirvana;
il terzo è l’atteggiamento mentale, il desiderio, di realizzare l’illuminazione.
La pratica del Dharma non ha dunque un unico scopo, ed è necessario procedere con gradualità. Il primo obiettivo, come abbiamo visto, è quello di appagare i desideri mondani, le bontà mondane. E quando ad esso subentra fortemente il desiderio di liberazione, di Nirvana, facciamo un passo avanti passando al secondo stadio. Nel terzo stadio infine, non solo siamo usciti dal Samsara, ma abbiamo potere ed energia per aiutare gli altri.
Le tre fasi sono consequenziali, prima di poter aiutare gli altri dobbiamo saper realmente aiutare noi stessi e ciò significa aver costruito solide basi e condizioni. Non si può  raggiungere immediatamente la piena illuminazione perché essa dipende dalla liberazione individuale, la quale a sua volta dipende dalla bontà mondana. Tutti i tre scopi devono essere realizzati uno dopo l’altro. E’ dunque evidente che ogni cosa buona in questa vita, nel samsara, non è in contraddizione con il Dharma, è parte di esso, il problema però sorge dal fatto che la nostra tendenza abituale non corrisponde a nessuno dei tre livelli.
La prima pratica del Dharma consiste nel cambiare questa nostra tendenza abituale in modo da poter entrare nei tre stadi consequenziali. E’ necessario imparare ad osservare le proprie tendenze abituali, che corrispondono agli otto dharma mondani, ponendole a confronto con i tre tipi di Dharma in modo da essere in grado di averne una distinzione molto chiara. In genere ci aspettiamo molta felicità dagli otto dharma mondani e in realtà ne ricaviamo sempre e solo sofferenza, per questo è così importante distinguerli nettamente dai veri atteggiamenti dharmici. Questa è la situazione molto complessa della nostra vita nel samsara. 
L’aspettarsi che dicano sempre cose belle di noi non è una semplice aspettativa ma è l’espressione di un forte attaccamento al sé che procura ansia, tensione, agitazione, sofferenza. L’attaccamento al sé ci devia, non ci permette di comprendere la verità e la sofferenza che ne deriva non è un qualcosa di esterno a noi, indipendente, ma è collegata alla nostra interiorità. Noi fatichiamo moltissimo per concretizzare il nostro attaccamento al sé e crediamo che questo sia il modo con cui appagare i nostri desideri, in realtà il nostro vero desiderio è assolutamente diverso, è il suo esatto contrario, è l’essere liberi da ogni attaccamento al sé. 
Presupposto che sarebbe stato troppo complesso spiegare tutto il sentiero che conduce all’illuminazione, Atisha ne ha sintetizzato l’essenza presentando i tre livelli di Dharma con la raccomandazione di cominciare a lavorare, non per soddisfare il proprio attaccamento all’io ma, al contrario, per soddisfare i veri desideri.
La gradualità è importante, nessuno creda di poter accorciare i tempi saltando il primo obiettivo concernente la soddisfazione dei buoni bisogni mondani, perché solo dopo averlo realizzato è possibile passare alla seconda fase di intensificazione del proprio lavoro al fine di ottenere la liberazione dall’attaccamento al sé e quindi la liberazione del nirvana e, finalmente, poter raggiungere il desiderio puro di voler aiutare gli altri con l’ottenimento della piena illuminazione. E’ dunque necessario percorrere interamente i tre stadi evolutivi, perché se si pensa di essere già pronti ad aiutare veramente gli altri si incorrerà in grandi e diversi ostacoli e problemi. Non serve disperarsi e piangere di fronte alla sofferenza altrui se non si hanno gli strumenti e le capacità necessarie per aiutarli veramente e ciò è possibile solo quando si è purificati e pronti per il terzo livello.
Non è nemmeno facile liberare sé stessi completamente dall’attaccamento all’io, perché prima è necessario appagare i bisogni mondani e solo in seguito alla loro soddisfazione sarà possibile praticare il Dharma superiore.
Atisha descrivendo il primo livello consiglia di appagare le necessità che condizionano la nostra vita in questo mondo.
Domanda: Allora noi dobbiamo avere prima di tutto una vita soddisfacente per poter accedere al secondo livello? E come si fa a sapere quando la vita è soddisfacente realmente e non è solo l’illusione della rincorsa di un proprio desiderio?
Risposta:   Nessuno ti può dire se sei completamente soddisfatta. Solo tu puoi saperlo con la motivazione interiore dell’equilibrare i bisogni e ciò significa accontentarsi, saper gioire. Se non sappiamo accontentarci, anche se possedessimo tutto il mondo non sarebbe sufficiente, non potremmo essere soddisfatti. Essendo capaci di accontentarsi invece saremo contenti e soddisfatti con ciò che abbiamo e non desidereremmo null’altro; ad esempio se io ho quest’orologio e ne sono contento non ho desiderio di possederne altri, di doverne cercare altri.
Domanda:. Quindi una cosa fondamentale forse è quella di essere coscienti dei propri limiti, perché se io pretendo di essere diverso da quello che sono senza averne le capacità chiaramente sarò infelice tutta la vita, ma se prendo atto dei miei limiti posso essere contento con ciò che ho.
Domanda: La nostra società in effetti ci condiziona pesantemente; è significativo l’esempio dell’orologio perché noi perdiamo il senso della funzione della cose, in effetti quello che abbiamo soddisfa pienamente il nostro bisogno di conoscere l’ora, ma se lo vogliamo d’argento, o tempestato di diamanti, considereremmo l’orologio insufficiente, quindi credo che quando tu parli di soddisfare i bisogni ti riferisca soltanto ai bisogni primari quelli reali, un tetto, degli abiti e del cibo, tutto il resto è un desiderio in più.
Risposta:  Il primo livello è riuscire a guadagnare le cose di cui si ha bisogno per vivere in questo mondo senza recare danno agli altri, e questo ci darà soddisfazione e piena contentezza. Se non abbiamo questa capacità è impossibile raggiungere la liberazione o la piena illuminazione. Se non siamo capaci a cucinare il nostro cibo, come possiamo pensare di essere capaci di fare le altre cose più complesse. 
Il modo di presentare il Dharma da parte di Atisha è molto bello:
Nel primo stadio siamo in grado di guadagnarci le cose senza avere attaccamento all’io. 
Nel secondo livello utilizziamo queste condizioni come un mezzo per raggiungere la liberazione dal samsara ed entrare nel nirvana. 
Avendo dunque raggiunto la capacità di liberarci dal samsara potremo essere di aiuto agli altri. Questo è il ciclo completo del pieno Dharma.





Triplici aspetti, la pratica della Rinuncia


Questa mattina abbiamo conosciuto i tre tipi di Dharma di cui parla Atisha nell’opera “La lampada che illumina il sentiero dell’illuminazione”, pratiche che devono essere compiute in modo consequenziale ed abbiamo anche esaminato la differenza sostanziale esistente tra i tre tipi di Dharma e gli otto dharma mondani, linea di confine che deve essere sempre ben presente e chiara in noi. L’autentico desiderio di felicità e di gioia scaturisce dai tre tipi di Dharma e non dagli otto dharma mondani.
Abbiamo dunque due tipi di felicità una genuina, vera e l’altra, derivante dagli otto dharma mondani, apparente, instabile, mutante. Il nostro desiderio deve quindi essere rivolto alla felicità genuina e dobbiamo essere sempre in grado di distinguere la vera felicità da quella falsa, apparente e ingannevole.
E’ interessante osservare come questi otto dharma mondani sembrano rispondere ai nostri desideri mentre in realtà ne sono l’opposto e danno risultati contrari ai nostri reali interessi.
Bisogna dunque aver ben chiara la distinzione tra felicità genuina e falsa felicità, tra i tre livelli del Dharma e gli otto dharma mondani. 
Esistono diverse descrizioni del Lam-rim ma si possono riassumere tutte nei tre livelli di Dharma descritti da Atisha. La quintessenza del Lam-rim è contenuta nei tre aspetti principali del sentiero contenuti in questo testo.
Il sentiero che porta all’illuminazione presenta tre aspetti fondamentali:
il primo è la Rinuncia, l’aspirazione a raggiungere la liberazione; 
il secondo è la Bodhicitta, il desiderio di raggiungere l’illuminazione per il beneficio di tutti gli esseri senzienti;
il terzo è la visione della Vacuità.
Questi tre principi sono il riassunto degli stadi che conducono all’illuminazione, la quintessenza del Lam-rim.
La prima riga dice: “Porgo omaggio ai venerabili Lama”, in tibetano prima c’è la parola “ge” che significa trasformare la nostra attitudine mondana in attitudine dharmica e quindi indica la rinuncia, “dzun” invece è lo sforzo gioioso nell’aiutare gli altri e indica la bodhicitta, “lama” è la qualità nel possedere una retta visione. Con la definizione “venerabili lama” si intendono dunque i tre aspetti del sentiero, e porre omaggio ai Lama non è riferito a coloro che portano tale titolo, ma a coloro che posseggono queste tre qualità.
In Nepal tutti i tibetani vengono chiamati lama, in  India tutti i monaci e le monache vengono chiamati lama e in Tibet chi possiede bei cappelli, stravaganti, viene chiamato lama, invece in questo testo con la frase “Porgo omaggio ai venerabili Lama” ci si riferisce quindi con rispetto e ammirazione, agli esseri senzienti che hanno i tre aspetti fondamentali del sentiero, ma non è facile capire chi li possegga e chi no.
Nella quartina seguente si annuncia la spiegazione de tre aspetti principali.
L’essenza di tutti gli insegnamenti del Buddha, del Dharma, è la rinuncia, perché il Buddha ha dato gli insegnamenti dharmici con l’intenzione di liberare gli esseri dal samsara; quindi l’aspirazione alla liberazione è quell’atteggiamento che viene definito rinuncia ed è l’essenza di tutti gli insegnamenti del Dharma.
Nella terza riga si parla del sentiero, dato dagli eccellenti Bodhisattva, esseri superiori che hanno sviluppato completamente l’atteggiamento altruistico, e si riferisce alla bodhicitta che è l’oggetto stesso dei Bodhisattva. Questo è il Dharma dei fortunati che aspirano alla liberazione e in questo contesto si riferisce alla visione della vacuità.
La visione della vacuità è una sorta di porta, di cancello, verso la liberazione. Leggendo la versione italiana dovremmo ricordarci che alla seconda riga si sta parlando della rinuncia, alla terza riga della bodhicitta e alla quarta della visione della vacuità.
Nella seconda quartina indicando “Coloro che non sono attaccati ai piaceri dell’esistenza mondana”, ci si riferisce al metodo per praticare la rinuncia. La rinuncia non è solo il desiderio di raggiungere la liberazione ma anche la rinuncia ai piaceri mondani. Quindi abbandonare i piaceri mondani è un mezzo per sviluppare l’aspirazione alla liberazione. Se proviamo attaccamento verso le cose mondane non riusciamo realmente a sviluppare l’aspirazione alla liberazione. Dunque la prima riga spiega il mezzo utile alla pratica della rinuncia. 
Nella seconda riga dice: “Coloro che si sforzano per rendere utili le circostanze favorevoli alla fortuna” e intende che, dopo aver raggiunto la soddisfazione delle necessità di base di questa vita, possiamo dedicarci a darle un senso. Possiamo dare un senso alla vita e a tutti i beni che possediamo solo tramite la bodhicitta, l’atteggiamento altruistico. La volontà di dare un senso alla propria vita è dunque il primo fondamentale passo verso la bodhicitta.
Nella terza riga dice “Coloro che propendono per il sentiero che compiace il Buddha” e si riferisce alla visione della vacuità, perché l’obiettivo del Buddha e degli esseri illuminati è l’eliminazione dell’ignoranza. Eliminare l’ignoranza significa eliminare la base, la radice, di tutte le illusioni. L’ignoranza si configura dunque come la visione opposta alla visione della vacuità.
In questi versi si indica come propendere per la rinuncia, come avvicinarsi alla bodhicitta, come trasformare la propria visione ignorante nella visione della vacuità. Gli esseri così fortunati dovrebbero ascoltare con mente chiara e ammirazione queste qualità. 
Senza rinuncia non vi è possibilità di raggiungere la liberazione o il nirvana perché l’attaccamento all’esistenza, al samsara è il maggiore ostacolo. Per questo coloro che aspirano alla liberazione dovrebbero per prima cosa sviluppare la rinuncia, che è un mezzo abile, quindi non si pensi di cercare direttamente la liberazione, il nirvana, al di fuori di esso. Coloro che aspirano al Nirvana per prima cosa devono ricercare la rinuncia, obiettivo prioritario, e il metodo da seguire  è descritto nelle righe seguenti.  Il primo gradino è costituito dal liberarsi dall’attaccamento verso tutte le cose che riguardano questa vita e il secondo consiste nell’abbandonare l’attaccamento verso le cose mondane delle vite future.
Riguardo al primo aspetto ci sono cose su cui dovremmo riflettere, prima di tutto su quanto sia difficile ottenere una vita umana fortunata e qualificata. Facile o difficile? Qual è la risposta? Noi non ci poniamo mai questa domanda, ma se ci soffermiamo su essa cominciamo a comprendere quanto sia difficile ottenere tutte le condizioni ottimali per la pratica del Dharma. Se invece evitiamo di affrontare tale questione tutto ci appare normale e dovuto, la vita è una routine, lasciata andare senza essere realmente vissuta. Invece, se affrontiamo seriamente il quesito vediamo che la vita umana è una realtà speciale che ci impone di fare qualche cosa di speciale e questa è la pratica del Dharma, e, affrontando il significato profondo della vita, si incontra la Bodhicitta. 
Questa preziosa vita umana non solo è difficile da ottenere, ma dura anche poco; riflettendo dunque su questi due aspetti possiamo annullare l’attaccamento per le sue apparenze e sviluppiamo la prima fase della rinuncia. Poi, scendendo ad un livello più profondo, possiamo liberarci dall’attaccamento alle vite future riflettendo sulla legge di causa-effetto e sulle sofferenze del samsara. 
La legge di causa-effetto non contempla eccezioni, nessuno può sfuggirvi, è un processo matematicamente automatico: ad una causa negativa non può che seguire un effetto negativo così come ad una causa positiva seguirà un effetto positivo e a una causa neutra un effetto neutro.
Se ci soffermiamo sulla sofferenza generale del samsara, a cui sono soggetti tutti gli esseri in quanto vivono le stesse condizioni, vediamo che è impossibile raggiungere un appagamento totale ed essere pienamente liberati da essa. Non esiste un luogo in cui possiamo ripararci dalla sofferenza del samsara essa è presente ovunque, è intrinseca a questa condizione. Ciò vale per la vita presente e per tutte quelle che verranno. Riflettendo su ciò giungiamo dunque alla conclusione che non vi è nulla da volere o da ammirare nel samsara, l’unico desiderio da sviluppare è quello di liberarsi dal samsara e quando finalmente possederemo questo stato mentale, ininterrottamente, giorno e notte, significa che avremo sviluppato la rinuncia. Leggiamo: “Le circostanze favorevoli e la fortuna sono difficili da ottenere e la vita non è lunga. Realizzando tutto ciò si elimina l’attaccamento alle apparenze di questa vita. Riflettendo costantemente sul karma e sui suoi inevitabili effetti e sulle sofferenze del samsara si elimina l’attaccamento alle apparenze delle vite future. Se, avendo realizzato in tal modo, non nasce nessun desiderio per i piaceri dell’esistenza ciclica e se costantemente, giorno e notte sorge un’aspirazione alla liberazione, allora siamo nello stato di rinuncia generale”. 
Riassumendo dunque, nel testo si precisano i molteplici motivi per cui è necessario sviluppare la rinuncia, si indica poi il metodo con cui procedere per ottenere tale obiettivo e, infine, lo stato che corrisponde alla rinuncia.
Perché si deve sviluppare la rinuncia? Non si deve cercare la liberazione, bensì la rinuncia perché essa è un mezzo per raggiungere la liberazione. La rinuncia è altresì un mezzo per superare le sofferenze samsariche. Tendenzialmente noi pensiamo che il Nirvana sia il mezzo che ci libererà dalle sofferenze del samsara, ma ciò non è vero perché il Nirvana e la liberazione sono lo stato in cui non c’è più sofferenza, ma il mezzo per giungere ad esso è la rinuncia. Mentre siamo nel samsara possiamo avere lo strumento per superare la sofferenza, il Nirvana non ci serve a questo scopo. Quando siamo nel samsara non possiamo essere nel Nirvana e quindi ciò di cui abbiamo bisogno è il mezzo che ci permetterà di superare la sofferenza, la rinuncia, che è l’aspirazione a uscire dal samsara. Quando siamo nel samsara non c’è il Nirvana e quando saremo nel Nirvana non avremo più bisogno del Nirvana perché in tale stato non c’è più sofferenza.
L’aspirazione al Nirvana è dunque lo sviluppo della rinuncia, del non attaccamento alle apparenze del samsara. Che differenza c’è se porto questo orologio con attaccamento o con rinuncia? Poiché posseggo questo orologio posso sviluppare rinuncia verso di esso, se non lo avessi non potei nemmeno rinunciarvi. Quindi, per sviluppare la rinuncia, è necessario possedere l’oggetto a cui rinunciare. La capacità di avere gli oggetti diviene dunque un mezzo per poter sviluppare la rinuncia. 
Rinuncia non significa disprezzo delle cose, ma utilizzo corretto delle stesse, senza attribuzione di valore aggiunto e senza sviluppare attaccamento verso di esse. Un esempio ci è dato dal fiore di loto, che cresce in ambiente paludoso spesso brutto e sporco, eppure esso è bello e puro. Anche quando ci troviamo in situazioni difficili abbiamo sempre la possibilità di praticare il Dharma e il samsara è un condizione essenziale a ciò, dunque saper rinunciare al samsara non significa fuggire da esso, al contrario, significa saperlo utilizzare quale unico mezzo idoneo per poterlo realmente superare.
Non preoccupiamoci del Nirvana perché finché siamo qui non c’è Nirvana e quando saremo nel Nirvana non ci sarà Samsara. Quello di cui abbiamo realmente bisogno nel Samsara è la rinuncia, ciò che ci permette di trasformare il Samsara in un metodo per superare le difficoltà e le sofferenze del Samsara stesso. 
La rinuncia è sapersi accontentare e non avere attaccamento, non significa che dobbiamo gettare via ciò che possediamo, è anche possibile che il sincero atteggiamento di rinuncia aumenti la nostra ricchezza. Il Lama che rispondeva alla domanda “chi è l’uomo più ricco del Tibet”con sicurezza:“sono io” era un essere che, consapevole della ricchezza di possedere una vita umana, si accontentava di ciò che aveva, senza attaccamento. Se sappiamo accontentarci siamo le persone più soddisfatte e ci sentiamo realmente ricchi, mentre, con un atteggiamento contrario, saremo inevitabilmente poveri e insoddisfatti perché ci mancherà sempre qualcosa, anche se possedessimo tutte le ricchezze del mondo. 
Se abbiamo solo il sufficiente e ne siamo contenti siamo davvero ricchi. La rinuncia è una cosa molto preziosa e bella, non costa niente e ci rende ricchi. Senza la rinuncia siamo interiormente completamente poveri, anche se esteriormente possiamo ostentare molte ricchezze materiali, siamo esseri poveri che soffrono costantemente. 
Non c’è contraddizione tra rinuncia e capacità di ottenere le cose, perché se manca questa capacità non c’è nemmeno la possibilità di applicare la rinuncia, questo è il Dharma, potente, sottile e gratuito, un dono universale di Dio. 
Domanda:  La rinuncia è legata al possesso di oggetti, e noi non veniamo coinvolti più di tanto, perché siamo noi che rinunciamo all’oggetto e non l’oggetto che viene a mancare, ma come può la rinuncia preparare l’essere umano a lasciare il proprio corpo?
Risposta:  Bisogna sviluppare il non attaccamento a questo corpo e utilizzarlo per ottenere i benefici, con equilibrio. Non disprezzarlo, ma utilizzarlo per raggiungere i massimi benefici spirituali. Quindi il concetto non è che dobbiamo riuscire ad avere delle cose per poi sviluppare rinuncia, ma possedere delle cose e realizzare la rinuncia in sé stessi, è ben diverso.
Domanda: La rinuncia maggiore però non è quella delle cose ma quella dell’ego e leggevo in un testo di Dharma che bisogna avere l’ego, sentirne tutta la forza, la presenza sottile e costante per poterlo lasciare, altrimenti se non si ha questa consapevolezza non si ha nemmeno la possibilità di questa fondamentale rinuncia.
Risposta:   Molto bene! Il Dharma insegna ciò che arreca beneficio a noi stessi e agli altri, non è l’insegnamento di una determinata visione o filosofia, si può insegnare qualsiasi cosa purché sia di beneficio agli altri. Ed è proprio questa flessibilità la bellezza del Dharma. Una teoria fissa non potrebbe mai essere davvero adeguata, perché i tempi, le persone, tutto cambia, continuamente, e quindi è necessario ricevere un insegnamento che, nascendo dall’amore e dalla compassione, sia naturalmente flessibile adatto alla situazione e al momento di ognuno, un dono preziosissimo che sarebbe davvero insensato rifiutare. Il Dharma è un messaggio d’amore, è la bodhicitta.









Capitolo 2°

Le sei Paramita, secondo Nagarjuna, Santideva e Maitreya


La cosa più importante per intraprendere qualsiasi attività è la motivazione e non vi è dubbio che chi vuole percorrere il cammino del Dharma abbia una forte motivazione positiva, come quella di voler praticare il Dharma per il beneficio degli altri e per il beneficio di sé stessi. 
La pratica del Dharma è per natura cosa buona e virtuosa, qualcosa di speciale, e nel momento in cui l’avvertiamo in noi stessi in modo completo e rilassato possiamo riflettere su ogni cosa in profondità, liberi da preoccupazioni, da interessi, da problemi. Non si tratta di una particolare energia che si sprigiona da un individuo, ma è parte stessa della natura del Dharma.
Quindi non è necessario ricercare che cosa sia il Dharma, dove sia, come ci possa benedire, perché lo si trova naturalmente. Oggi, in questo momento, il Dharma è l’interesse che abbiamo in comune e la motivazione positiva che condividiamo è molto forte, ha tutta la potenza di un’insieme di sterpi secchi a cui diamo fuoco piuttosto che l’accensione separata di ogni ramo. L’insieme dei rami produrrà maggior potenza e maggior durata. Questo è il significato dell’incontro di Dharma.
La nostra piccola pratica, unendosi alla elevata pratica comune, potenzia la stessa ed è molto più efficace, l’intenzione di ognuno è fondamentale alla pratica stessa, la motivazione deve nascere dall’innata qualità umana che consiste nel naturale desiderio del bene. Se osserviamo profondamente in noi stessi non riusciamo a trovare nemmeno la più esile intenzione di poter nuocere, di poter far del male a qualcuno e questo è il modo in cui possiamo riconoscere la nostra natura fondamentale, ed è bellissimo. Non mi stancherò mai di ripetere che l’intenzione non deve essere creata perché è già li, presente in ognuno di noi, all’interno della nostra natura, si tratta solo di purificarla dalle temporanee impurità che la coprono nascondendola.
Esistono varie interpretazioni dei termini buddhisti “Natura di Buddha”, o “Semi dell’illuminazione”, quello che in termini cristiani potrebbe essere detto, “Spirito Santo”, o nell’induismo “Sanathan dharma”, Dharma universale, a cui ogni individuo partecipa e “Sovadharma”, Dharma individuale, la pratica che ogni individuo fa secondo le proprie condizioni e situazioni. 
Il Dharma universale è quello che può riportarsi allo Spirito Santo o al seme dell’illuminazione, è dato a tutti gli individui in modo eguale e corrisponde alla fondamentale natura dell’essere umano, alla bontà dell’umanità. 
Il Dharma individuale è il modo in cui ogni individuo riesce a praticare il Dharma universale, secondo quelle che sono le sue condizioni e il suo globale contesto di vita.
Si potrebbe dire che tutte le diverse espressioni religiose, il cristianesimo, l’induismo, l’islamismo, l’ebraismo non sono altro che forme individuali di praticare il Dharma universale. Sono cioè differenti forme di pratica che corrispondono a differenti situazioni e contesti culturali, linguistici e di vita di ogni individuo. E’ dunque importante comprendere che ci troviamo tutti in un terreno comune e che le differenti espressioni non sono affatto contraddittorie tra loro.
Finché manteniamo una visione dualistica e settaria, “bianco o nero”, “torto o ragione” “giusto o sbagliato” siamo fuorviati e ci troviamo in uno stato confusionale che impedisce la pratica del Dharma. Quindi, indipendentemente dalla tradizione a cui apparteniamo, se guardiamo attentamente dentro di noi le qualità fondamentali umane non possiamo non vederle, sono evidenti, senza eccezione. Se ci osserviamo con equanimità non possiamo trovare nulla di negativo e di distruttivo.
Dunque la meditazione, la riflessione e lo studio sono necessari per potenziare la bontà della fondamentale natura umana sino a che essa non diventi parte del nostro vivere quotidiano, essa è purificazione. Con questa consapevolezza sarà sempre più facile incrementare tale bontà tramite la purificazione, osservando come nel profondo di noi stessi non vi sia nulla di negativo, di distruttivo e, nell’assenza di negatività e di distruzione, emerga in noi la naturale presenza di amore e compassione equanimi, ciò che viene riconosciuta come “compassione universale”
Partendo da questa pratica e capacità individuale ognuno può aiutare gli altri affinché raggiungano l’illuminazione, raggiungano il Nirvana. Dalla compassione universale sorge l’attitudine altruistica, l’autentico desiderio di aiutare gli altri a raggiungere i differenti stadi di felicità.
La pratica di amore e compassione della fondamentale natura umana è l’esperienza più commovente e toccante che rende tutti più umili perché in essa non si ricerca il possesso ingannevole, si sta semplicemente tentando di tornare alla natura fondamentale. Tale atteggiamento è essenziale per poter sviluppare la giusta motivazione rispetto a qualsiasi pratica si voglia intraprendere.
Quando parliamo della nostra illuminazione non ci riferiamo ad una difficoltosa salita, come se dovessimo raggiungere la cima dell’Everest, ma al contrario si tratta di saper scendere in noi stessi, e la discesa è sempre più facile della salita. Non dobbiamo scoprire qualcosa di ignoto, dobbiamo solo conservare qualcosa che già possediamo e in tal modo diventare autentici esseri umani. E’ molto semplice: per praticare il Dharma basta avere un tetto, un po’ di cibo e un indumento per coprirsi, non occorre altro, liberi da ogni preoccupazione, vivendo secondo quella che è la realtà.
Sono molti gli importantissimi punti dell’approfondimento filosofico, quali la rinuncia, la bodhicitta, ma la cosa essenziale è la comprensione profonda della natura fondamentale umana, l’essenza di tutto, il rimanere in essa.
In questa consapevolezza si può attuare la compassione universale, fondata sull’equanimità, ogni essere vivente deve realmente essere visto in modo uguale, senza discriminazione alcuna. Se sappiamo guardare profondamente in noi scopriamo quanto ciò sia assolutamente vero e non vi è alcuna necessità di doversi arrovellare in complicate spiegazioni filosofiche o logiche, basta rivolgere lo sguardo sereno all’interno di noi stessi.
Questa notte ad esempio ho fatto un sogno talmente contraddittorio con la realtà che mi sono svegliato, non si trattava di un incubo al contrario era un sogno bellissimo ma riflettendo su ciò che mi aveva svegliato ho capito che era la sua non aderenza alla realtà. Anche durante il sogno non siamo completamente sopraffatti dalla mente illusoria, ma possiamo sempre riconoscere la realtà. Quando mi sono svegliato era notte fonda e mi pareva anche che il cuscino fosse durissimo e scomodo, quasi mi incitasse a non dormire, così ho deciso di non preoccuparmene e ne ho approfittato per praticare e meditare, ed è stato un tempo magnifico, ottimale per la riflessione profonda che è molto difficile da raggiungere durante le ore del giorno in mezzo alle molte attività. Ho approfittato dell’opportunità offerta da questo momento inaspettato, non scaturito da alcuna programmazione, un dono gratuito, stupendo. E’ un’occasione di cui approfittare sempre riportando alla mente quelle fonti di contentezza e di felicità che sono alla base della nostra natura più profonda.
Questa è la pratica del Dharma, la pratica spirituale e il miglior modo per ottenere risultati è quello di non avere aspettative, di non cercarli. Bisogna sempre fare una distinzione tra desiderio e attaccamento, il desiderio è una tendenza naturale, mentre l’attaccamento non è naturale. Fare le cose buone, in modo etico, è l’espressione del desiderio, ma attendersi un risultato è l’espressione dell’attaccamento, rientra nel calcolo così ben espresso per esempio dall’economia moderna. In questo modo non si fa che produrre karma negativo. Ci sono parecchi dibattiti sull’etica all’interno del sistema economico. La vera etica economica imporrebbe di fare cose utili a tutti senza fare calcoli su ciò che se ne può ricavare, per questo si dice che la generosità, il dare, porta il benessere. 
L’etica, la moralità, il buon cuore, il non compiere atti negativi nei confronti di nessuno portano a rinascite più elevate.
La pazienza e la tolleranza invece conferiscono un’aura. Quando ero in India o in Nepal nessuno mai mi ha detto che vedeva un’aura, erano tutti molto sereni e tranquilli ma nessuno accennava mai ad alcuna aura, ma, appena arrivato in occidente molti commentavano “e ma qui c’è un’aura così grande!..” e quindi ho pensato che doveva essere un risultato della pazienza!.... La pazienza ha comunque davvero in sé una forte radiosità energetica, quello che probabilmente voi chiamate aura.
La perseveranza entusiastica porta ad una forma di regalità, questo è il suo risultato. La capacità di poter lavorare duramente ma sempre in modo calmo, non agitato fa si che la persona acquisisca un peso, una serietà una presenza rilevante.
La concentrazione o contemplazione, ci rende pacifici e calmi. Quando si pratica la concentrazione su un singolo punto si appare del tutto calmi e pacificati e non come esseri perennemente arrabbiati che si infiammano e reagiscono violentemente non appena contraddetti. Il risultato della concentrazione è la calma, la pacificazione, l’essere rilassati. Quando reagiamo con irritazione perché altri fanno rumore mentre pensiamo di essere in concentrazione, sentendoci vittime di mancanza di rispetto e considerazione, possiamo essere certi di non stare praticando la concentrazione.
La sesta paramita, la saggezza, la conoscenza che realizza la realtà, ha come risultato la capacità di liberarci dall’illusione.
Infine, l’amore e la compassione porteranno a termine, esaudiranno, ogni nostro desiderio.
La perfezione di queste sette pratiche ci trasformerà nel “riverente” del mondo. Il termine “riverente” va inteso nel senso di “riverito”, colui che riceve il riconoscimento, la riverenza. Questo è un concetto importante perché Nagarjuna nella “ghirlanda preziosa”, alle sei paramita o perfezioni, ha aggiunto questa settima dell’amore e della compassione. Il testo inizia con l’affermazione che la pratica del Bodhisattva consiste in sette perfezioni: 
la generosità
l’etica
la pazienza;
la perseveranza entusiastica
la concentrazione
la saggezza
l’amore e la compassione
La generosità è la pratica che ci dona il risultato del benessere;
l’etica, che non deve intendersi come di norme morali da seguire, è l’atteggiamento altruistico che ci porta ad aiutare gli altri;
la pazienza ci libera definitivamente dalla rabbia e dall’odio;
la perseveranza entusiastica è la gioia del poter porre in atto azioni virtuose;
la concentrazione o contemplazione è la capacità di essere liberi dall’illusione e dall’inganno;
la saggezza porta alla visione della verità ultima;
l’amore e la compassione determina l’equanimità, è un assaggio di come tutti gli esseri debbano essere trattati in modo uguale e non è una visione folle ma è un atto di grande intelligenza.
Queste sono le sette perfezioni presentate nella bellissima opera di Nagarjuna intitolata “Ratnavali”, “La preziosa ghirlanda”. 
Prima abbiamo accennato al moderno sistema economico, che certamente non è basato sull’etica, perché se così fosse produrrebbe gioia e benessere per tutti, ma purtroppo è fondato sul profitto egoistico, sullo sfruttamento che ci rende tutti schiavi, perversamente dipendenti da esso. 
Il benessere invece può nascere soltanto dal dare, senza calcolo, senza attendersi un risultato in cambio, ed è un’ atteggiamento generoso così automatico e naturale che è necessario fornire alcuna prova per dimostrarlo, anche se ve ne sarebbero infinite, mentre non esiste una sola prova capace di dimostrare il contrario.
Così viene affermato negli studi filosofici buddhisti e precisamente sintetizzato nella citazione: “Ciò è indiscutibile, ciò è vero nel suo contenuto e nel suo significato perché è stato esaminato nei tre tipi di analisi”.
Per quanto riguarda il contenuto esso è stato analizzato nella triplice analisi in quanto fenomeno: 
il fenomeno manifesto di cui possiamo avere esperienza con i nostri sensi;
il fenomeno parzialmente oscuro che non possiamo esperire con i nostri sensi ma che possiamo raggiungere per deduzione o ragionamento logico;
 e infine il fenomeno totalmente, sottilmente, oscuro di cui non possiamo avere alcuna esperienza, né con i sensi, né con la logica, ma che possiamo “provare” solo tramite l’accettazione incondizionata delle spiegazioni datene dai grandi maestri.
Il contenuto di questa citazione, che riguarda il modo in cui appaiono i fenomeni, risulta vero e non ha contraddizione alcuna con:
il primo tipo di analisi che esamina ogni fenomeno apparente e ne ha cognizione valida attraverso i sensi;
 il secondo tipo di analisi che affronta i fenomeni parzialmente oscuri e ne ha cognizione valida attraverso la deduzione e il ragionamento logico;
il terzo tipo di analisi che affronta i fenomeni sottilmente oscuri e ne ha cognizione valida attraverso le parole dette dalle persone giuste, cioè da esseri  considerati tali perché ciò che hanno detto è stato sottoposto ad analisi ed è stato verificato che non esistono contraddizioni all’interno di quanto affermato né all’inizio né alla fine.
Per cui questa citazione risulta vera perché il suo contenuto è stato verificato dalle tre analisi.
In questi quattro versi è condensata in modo molto semplice, ma evidentissima, l’essenza di quanto detto sinora, cioè che la generosità porta benessere, l’etica determina rinascite elevate, la pazienza ha una radiosità manifesta, la perseveranza entusiastica conferisce regalità, la concentrazione induce calma e pace, la saggezza permette di distruggere le illusioni ingannevoli, e l’amore e la compassione esaudiranno tutti i desideri. Nessuno ha mai provato che questo non fosse vero ed è bene avere fiducia in tali principi e intraprenderli, in questo consiste la pratica. Invece quello che noi generalmente crediamo è esattamente il suo contrario e con tale visione errata poniamo in atto tutti i presupposti per la creazione di innumerevoli problemi.
Se prendete il testo “La via del Nirvana” al capitolo in cui si parla delle sei paramita, vedete che anche Milarepa ha affrontato la questione: 
“Le sei Paramita contengono tutto l’insegnamento buddhista (intendendo tutti gli insegnamenti che conducono all’illuminazione).
Per coloro che praticano il Dharma la ricchezza è solo una causa di distrazione.
Colui che darà via tutti i beni materiali rinascerà come principe del cielo (cioè avrà condizioni molto favorevoli alla pratica). 
Nobile colui che pratica la generosità.”
Gli insegnamenti di Milarepa sono estremamente pratici:
“La disciplina morale è la scala che conduce alla liberazione, la quale né i monaci né i profani possono abbandonare e tutti i praticanti buddhisti la dovrebbero seguire.
La pazienza è la virtù che Buddha curò maggiormente. E’ un vestito difficile da indossare ma tutti i meriti si sviluppano nel momento in cui lo si indossa.
La diligenza è il sentiero breve che conduce alla liberazione e necessita della pratica del Dharma, senza di essa nulla può essere fatto. Galoppiamo dunque sul cavallo della diligenza.
Questi quattro Dharma portano meriti agli uomini, Essendo indispensabili a tutti. Adesso vi parlerò della saggezza.
La meditazione è l’insegnamento tra questi due, poiché si applica sia alla saggezza che alla pratica dei meriti. Attraverso di essa tutte le distrazioni sono superate. Per tutti i praticanti buddhisti è la più importante.”
Il benessere è avere ciò di cui si ha bisogno, non c’è altro da volere. Anche la salute è relativa all’etica, quindi all’aiutare gli altri, così, quando si è ammalati si dovrebbe praticare l’etica e aiutare gli altri e non soltanto rivolgersi a un medico. Questo ha senso, perché la salute, il benessere fisico, è strettamente connesso alla nostra interiorità, i problemi fisici hanno radici in noi stessi, nelle nostre paure, nelle nostre difficoltà, hanno origine nel forte attaccamento al sé, così profondamente radicato, e l’altruismo è l’unica possibile via per potercene liberare.
Così è evidente la correlazione tra l’amicizia e la pazienza, per avere molti amici bisogna praticare molta pazienza e tolleranza.  Il benessere, la salute, gli amici, sono fenomeni estremamente importanti nel Samsara e si possono ottenere senza difficoltà con la generosità, l’etica e la pazienza, tre perfezioni che non richiedono diplomi universitari o master, ma facilmente e felicemente praticabili.
Oggigiorno il meccanismo sociale è così complesso che rende tutto complicato quindi bisogna saper andare oltre e ciò è possibile  e realizzabile perché dipende da una capacità umana naturale: “l’attività spirituale”.
Il testo continua dicendo che una volta raggiunto un certo livello di generosità, automaticamente praticheremo l’etica ovvero l’aiuto gli altri e quando avremo raggiunto un certo livello di etica automaticamente questa ci condurrà a praticare la pazienza e la tolleranza, la pazienza ci introdurrà automaticamente nella perseveranza entusiastica, una buona perseveranza entusiastica ci permetterà di praticare bene la concentrazione, e una profonda concentrazione ci renderà capaci di praticare la saggezza. 
Si tratta dunque di pratiche in sequenza collegate tra loro, generosità, etica pazienza, perseveranza entusiastica, concentrazione e saggezza. La pratica delle sei perfezioni ha quattro caratteristiche:
demolirà le azioni opposte ed errate ;
aiuterà a sviluppare la capacità di eliminare i pensieri concettuali;
esaudirà tutti i desideri;
aiuterà a portare a maturazione tutti gli altri esseri.
La generosità è in grado di eliminare la povertà e proprio su tali basi dovrebbe operare un’organizzazione internazionale come la FAO, invece di limitarsi a ricercare mezzi per sfamare qualcuno, dovrebbe studiare la generosità, saper insegnare e aiutare tutti i paesi ad eliminare la fame del mondo con generosità. Qual’è invece la proposta dell’ONU? Portare un po’ di cibo e prendersi in cambio beni preziosi, depredare foreste. La generosità invece offre bellissime soluzioni nell’assoluta equanimità.
Quando ci si trova in un momento critico, difficile, la soluzione ci è offerta dall’etica che è come brezza fresca che attraversa la nostra mente, il nostro cuore.
Per poter superare la rabbia e l’odio si pratica la pazienza, che è l’unica soluzione possibile.
Al fine di poter raggiungere un livello spirituale superiore si pratica la perseveranza entusiastica.
Per poter mantenere la mente rivolta alla propria interiorità si pratica la concentrazione, perché la nostra mente tende sempre a sfuggire, non  sta mai ferma. Mi ha veramente colpito l’espressione italiana “essere fuori di testa”, è interessante, infatti la mente deve essere mantenuta all’interno affinché possa realizzare la saggezza, raggiungere la verità ultima.
Queste sono le perfezioni, letteralmente il termine “paramita” significa “andato oltre” e ciò perché esse permettono all’individuo di andare oltre.
Nell’ambito delle sei paramita vi è un’ulteriore suddivisione: generosità della generosità, etica della generosità, pazienza della generosità  ecc.. Ogni perfezione deve essere caratterizzata da tutte le perfezioni. Praticare una perfezione da sola è assai difficile e, affinché sia autentica, deve comprendere tutte le altre.
Per concludere, tutte le paramita possono essere incluse in due categorie dette “accumulazioni”: 
la generosità e l’etica fanno parte dell’accumulazione di meriti;
la saggezza fa parte dell’accumulazione della saggezza;
la pazienza, la perseveranza entusiastica e la concentrazione appartengono ad entrambe le accumulazioni.
Tutte le perfezioni sono tra loro correlate e l’accumulazione di meriti e di saggezza  è fondamentale in quanto fornisce la potenzialità e la necessaria energia spirituale. Infine non dobbiamo mai tralasciare quella che è considerata la settima perfezione, l’amore e la compassione. Alla domanda su come si possa applicare l’accumulazione di meriti e l’accumulazione della saggezza, la risposta che io trovo è proprio nell’amore e nella compassione.
La gentilezza amorevole è capace di esaudire tutti i desideri infatti, con un’altra formulazione, si dice che, avendo accumulato i necessari meriti, si è in grado di esaudire tutti i desideri.
In comparazione si vede dunque che la generosità dona il benessere, l’etica la felicità e la salute, la pazienza amici, buona apparenza, brillantezza, la perseveranza entusiastica le qualità, la concentrazione la pacificazione, la saggezza la liberazione; dunque tutti gli obiettivi sono raggiunti e non vi è nessun motivo per dimostrare che non sia così, ci sono invece milioni di ragioni per affermare che questo è vero in tutto. 
Le sei paramita, in combinazione con la gentilezza amorevole, sono la soluzione di ogni problema.
Leggiamo le sei paramita nel testo del “Bodhicaryavatara”, al capitolo V° dal verso n. 9: 
“Se la perfezione della generosità consiste nel rendere l’universo libero dalla povertà, come possono averla conquistata i Protettori precedenti, se il mondo è ancora oggi  così povero?
Si dice che la perfezione della generosità derivi dall’atteggiamento mentale di lasciare a tutte le persone tutto quello che si ha, insieme con il frutto di quell’atto. Perciò la perfezione è l’atteggiamento mentale stesso.
Quindi la generosità è l’atteggiamento del dare, non del dare con parsimonia, con calcolo, un pezzetto per volta, ma di darsi completamente, è molto più facile dedicare la propria vita con atteggiamento di grande generosità come quello di Buddha, di Gandhi e di tanti altri di cui non sappiamo nemmeno il nome.
“Dove si potrebbero portare i pesci e le altre creature in modo che io non possa ucciderli? Tuttavia si conviene che raggiungere l’atteggiamento mentale di astenersi dagli atti del mondo è la perfezione della moralità.”
La moralità è l’atteggiamento di proteggere tutti gli esseri viventi
“Quante persone malvagie, senza fine come il cielo, posso io uccidere? Ma quando l’atteggiamento mentale dell’ira è ucciso, ucciso è ogni nemico.
Dov’è tanto cuoio da coprire il mondo intero? Il vasto mondo può essere coperto con il cuoio che basta per un paio di scarpe soltanto.
Allo stesso modo, poiché non posso controllare gli eventi esterni controllerò la mia mente. E’ forse affar mio se le altre cose sono controllate?
Anche con l’aiuto di corpo e parola una mente ottusa non dà nessun frutto che regga il paragone con quello prodotto dalla sola mente acuta, come il raggiungimento dello stato degli dei di Brahma.”
La pazienza è lo stato in cui si ha il controllo dell’ira, della propria ira naturalmente, è il superamento della propria rabbia, non di quella altrui, non vi devono essere fraintendimenti i proposito, praticare la pazienza significa annullare la propria rabbia.
La perseveranza entusiastica è l’atteggiamento di ammirazione che abbiamo nei confronti delle azioni virtuose altrui.
La concentrazione è la pulizia della propria mente, lo stato chiaro della mente, non si tratta di riunire tutta la propria mente in un luogo, si tratta invece di chiarire la propria mente, di purificarla.
“L’Onnisciente ha dichiarato che ogni recitazione e austerità, pur se praticate per un certo lungo periodo, sono del tutto inutili se la mente è concentrata su qualcos’altro o è ottusa.
Coloro che non hanno sviluppato questa mente, che è nascosta e contiene la somma intera dei Dharma, girano in cerchio invano tentando di ottenere la felicità e distruggere la sofferenza.”
La saggezza è la comprensione dei segreti della mente. Il sommo Dharma è il segreto della mente, e qual’è questo segreto? La capacità della mente di cambiare e modificare ogni cosa, essa non è al di fuori di noi ma risiede al nostro interno, quindi, potendo trasformare la mente possiamo trasformare ogni cosa, questo è il suo segreto. L’essenza di tutta l’esistenza è la nostra mente che ha tutte le possibilità. Chiaramente è assolutamente inutile tentare di conoscere il segreto delle menti altrui, dobbiamo conoscere il segreto della nostra mente e di conseguenza conoscere ogni cosa, ecco cos’è la saggezza, secondo Santideva. 
Oggi abbiamo letto le sei perfezioni secondo Santideva, Nagarjuna e Milarepa e, nello stesso testo che riporta molte citazioni, troviamo anche le sei perfezioni secondo Maitreya, “l’ornamento del sutra di Maitreya”. 
Ci sono domande?
Domanda:Una volta hai detto che per praticare correttamente con consapevolezza non bisogna avere assolutamente riferimenti certi, nemmeno le dieci azioni non virtuose,  ma noi occidentali che siamo abituati, nella scelta dei comportamenti, a dover rispondere a precise regole, che ricerchiamo continuamente punti fermi, non possiamo riferirci almeno alle sei perfezioni?
Risposta:   Le sei perfezioni sono il fondamento del buddhismo, invece le dieci azioni non virtuose si rapportano a regole, possono essere paragonate ai dieci comandamenti, e sono state stabilite ed espresse secondo il contesto culturale e storico in cui sono nate. Vi è quindi una sostanziale differenza tra norme che sono nate in un determinata situazione e quella che invece è la pratica sostanziale del Dharma che ovviamente non è condizionata. Le dieci azioni virtuose e le dieci azioni non virtuose sono le regole buddhiste che indicano come non essere di danno agli altri e quindi, in tal senso,  possono benissimo essere trasportate e applicate nel mondo contemporaneo.
Domanda: Essere generosi e compassionevoli non significa però essere aperti in modo indiscriminato e acritico nei confronti di tutti?
Risposta:  Fondamentalmente le perfezioni risiedono nell’atteggiamento mentale e le condizioni pratiche in cui ci troviamo possono permettere, o meno, di dare l’aiuto richiesto. Io posso provare grande compassione ma non essere nella condizione di poter aiutare concretamente una persona perché le sue aspettative non corrispondono alle mie reali possibilità, mentre l’atteggiamento mentale compassionevole è fondamentale comunque e sempre. Quando non è possibile aiutare gli altri come essi vorrebbero è bene rimanere in uno stato generoso di equanimità. Santideva ad esempio  appariva come una persona molto pigra che non faceva nulla né per sé né per gli altri, ma in realtà era un grandissimo praticante di infinito aiuto per tutti gli esseri. L’aiutare gli altri a livello pratico dipende dalla capacità individuali. Un antico studioso diceva che la persona intelligente e generosa è quella che è in grado di riconoscere la propria capacità nel realizzare o meno ciò che intende fare.
Domanda: Tu poni sempre grande attenzione sul valore delle persone, però nel mondo di oggi le cose vanno un po’ diversamente, ci sono persone di grande valore che però non possiedono mezzi economici e quindi non possono realizzare ciò che vorrebbero a meno di non essere aiutate, altri invece di valore assai scarso ma con denaro e potere, potrebbero invece senza sforzo realizzare qualsiasi cosa.
Risposta:  Quando Santideva parla delle sei paramita si riferisce sempre ad un livello mentale, spirituale, presenza costante e indispensabile, pura ed equanime e, di fronte alle situazioni concrete, deve rapportarsi alla conoscenza consapevole delle nostre possibilità e capacità reali di realizzazione. Sono due livelli differenti, uno è relativo al nostro sviluppo spirituale e l’altro a ciò che concretamente riusciamo a mettere in pratica, altrimenti, senza questa capacità critica, volendo fare tutto anche quello che non è a noi possibile, rischiamo di aumentare la sofferenza e fare guai gravi.
Domanda: Quindi, mantenendo a livello mentale il cuore aperto alla generosità, dobbiamo anche prendere atto che esistono limiti concreti e calibrare  il nostro intervento di conseguenza? 
Risposta:  Esatto, perché esiste sempre questa enorme differenza tra il livello materiale, che è sempre finito, e il livello spirituale che invece è suscettibile ad uno sviluppo infinito.
Discussione:Vorrei aggiungere la citazione di un grande personaggio del passato, San Paolo, il quale diceva: “io non posso fare il bene degli altri perché sono sempre troppo occupato a fare loro del male”.
Discussione: Il rischio per noi occidentali è rappresentato da questa presunzione di onnipotenza che in realtà non abbiamo.
Discussione: Serve umiltà perché spesso il voler essere generosi è soltanto espressione del proprio egoismo ed egocentrismo, il voler fare quello che si presume sia il bene dell’altro ma che spesso non corrisponde alla realtà, ma soltanto alla propria gratificazione.
Risposta: Ci sono tre tipi di generosità: la generosità dell’offrire il Dharma, la generosità del dare cose materiale, e la generosità del fornire protezione; sono tutte generosità, la generosità non è solo di tipo materiale.
Domanda: Se ho ben capito, all’interno delle sei paramita c’è già l’indicazione di come seguirle in modo ottimale ed è il collegamento inscindibile che esiste tra tutte le perfezioni, nessuna può essere applicata isolatamente, senza le altre. E’ così ?
Risposta:  Si, e con equilibrio prendere atto che esistono situazioni in cui noi non possiamo fare nulla, l’unica persona che possiamo aiutare pienamente siamo noi stessi. Per aiutare veramente sé stessi e gli altri è importante rimanere sempre nell’equanimità.









Capitolo 3°

Le quattro Nobili Verità


E’ importante soffermarsi in modo particolare sui tre principali aspetti del sentiero, in modo da disporci allo sviluppo della corretta motivazione che deve essere sempre presente, sia nella vita in generale come nel momento presente di pratica del Dharma .
Dobbiamo essere coscienti della magnifica opportunità che ci è offerta in queste giornate di approfondimento godendo insieme dell’atmosfera e delle sensazioni pacifiche che ne nascono e che ci permettono di dimenticare tutte le noie e le preoccupazioni quotidiane, forse sarebbe più corretto dire che in questo preciso momento siamo liberi da ogni preoccupazione e stiamo vivendo in perfetta salute mentale e fisica. 
Usando il linguaggio filosofico potremmo affermare che siamo in uno stato equanime della mente e il Nirvana stesso non è cosa differente da tale tipo di situazione. Se ne abbiamo la capacità possiamo realizzare il Nirvana qui in un luogo di perfetto rilassamento perché tale potenzialità è sempre presente in noi e, se non ne approfittiamo, perdiamo una grande occasione. 
La meditazione quotidiana è importante perché permette di sperimentare il livello profondo del nostro sé. La pratica non è dunque solo questione di sforzo e di conoscenza ma è il mettere insieme cause e condizioni e, nel momento in cui ciò avviene, la realizzazione sorgerà spontaneamente. Un esempio sempre chiaro è quello della pianta che deve fiorire, non vi è alcun modo di forzarne il naturale processo, l’unico modo per ottenere una bella fioritura è quello di averne molta cura, fertilizzare il terreno, disporla nella giusta luce, darle acqua. Allo stesso modo si procede con la mente, basta porla nel corretto luogo e nelle corrette condizioni ed essa fiorirà, ma se vogliamo forzarla ne otterremo soltanto la sua distruzione. 
Nella pratica spirituale questo è un aspetto fondamentale, non si deve mai pressare, forzare la mente, ma soltanto porla nella posizione corretta accudendola con le giuste attenzioni.
In tal senso il continuo chiacchiericcio mentale e persino lo studio eccessivo e la lettura, possono trasformarsi a volte per la mente in elementi di disturbo. 
Non è facile porre la mente nelle situazioni corrette, avendo cura di lasciarla nella sua stessa natura. 
L’acqua inquinata posta a riposare in un contenitore pulito e adatto si purificherà naturalmente lasciando che le particelle di sporco depositino sul fondo in uno spontaneo processo di autopulitura. 
Un altro paragone chiarificatore è quello del cielo che in una giornata limpida manifesta tutta la propria intensa radiosità, ma quando nuvole passeggere ne oscurano la limpidezza non vi è modo di ripulirlo spingendo a forza le nubi, l’unico modo possibile è attendere che naturalmente tali oscurazioni si esauriscano e scompaiano. Similmente, per quanto riguarda la mente, a volte accade in modo assolutamente inaspettato, quasi misterioso, che si generi grande serenità e calma mentale perché si è verificata la raccolta delle cause e condizioni necessarie. Questo è il metodo essenziale per pulire la nostra mente. 
Nella tradizione tibetana ci sono state diverse controversie e dibattiti su questo aspetto, alcuni sostengono che le realizzazioni possono giungere anche senza meditazione, ma altri affermano l’esatto contrario e cioè che senza meditazione è impossibile raggiungere alcuna realizzazione. Precisamente le due posizioni vengono così sintetizzate:
“anche se siamo esseri illuminati lo siamo da sempre, sin dall’origine, in realtà però non lo riconosciamo” e da ciò nasce ogni problema. 
 “se ciò fosse vero non avrebbe alcun senso praticare”. 
Questi due punti di vista differenti sono parte della tradizione tibetana fondata sulla traduzione dei testi radice originali indiani della parola del Buddha avvenuta in Tibet per due volte che porta quindi alla distinzione in “vecchia traduzione” e “nuova traduzione”.
La prima traduzione è stata effettuata dalla scuola degli antichi, i Nyingmapa ed è considerata in Tibet di maggiore importanza, la seconda traduzione, Sarma, ha dato origine a nuove scuole di cui le tre più importanti sono: Kagyupa Sakyapa e Gelugpa. Anche all’interno di ognuna di queste scuole esistono ulteriori sottili suddivisioni e, benché ciò non sia evidente all’ esterno, all’interno delle scuole stesse ne determina le specifiche caratteristiche. Lo stesso fenomeno è presente nel cristianesimo e all’interno dello stesso cattolicesimo.
La differenza fondamentale nell’interpretazione della parola del Buddha è dovuta alla terminologia usata, nella vecchia traduzione, dei Nyingmapa, è Dzogchen (grande perfezione),  nella nuova traduzione è Mahamudra, (grande sigillo) che è il perno, il cuore, il fulcro della traduzione Sarmata. 
I Nyingma, oltre ad una propria interpretazione degli insegnamenti del Buddha, hanno anche raccolto insegnamenti particolari che non sono generalmente considerati nella tradizione tibetana e appartengono a pratiche tantriche, si tratta della raccolta di insegnamenti tantrici della vecchia traduzione a cui successivamente i discepoli hanno apportato interpretazioni ancora differenti. L’essenza dello Dzogchen è contenuta nel verso già citato “anche se siamo esseri illuminati dal tempo senza inizio, in realtà però non lo riconosciamo”.
Nell’interpretazione della nuova traduzione dei Sarmapa invece, si pensa che ciò non sia corretto e ci si concentra sulla Mahamudra basata sulla concezione che tutti noi abbiamo la natura di Buddha, che deve solo essere purificata, devono essere eliminate tutte le impurità che la ricoprono e oscurano; quando ciò avverrà noi saremo illuminati.
Domanda:  Allora non c’è differenza sostanziale tra le due posizioni?
Domanda: Si che c’è, perché nel Mahamudra si dice che hai la potenzialità di diventare illuminato ma devi purificare tutte le impurità, mentre lo Dzogchen dice che sei già illuminato dall’inizio, devi solo riconoscerlo.
Risposta:  Affinché non sorgano fraintendimenti è bene precisare subito che non è corretto pensare ad “un inizio”, bensì la terminologia esatta è “da tempo senza inizio” ed ciò è centrale nell’interpretazione tibetana degli insegnamenti del Buddha. Si è già illuminati o si deve ancora acquisire questa qualità? Troviamo riferimenti essenziali nel trattato “Uttaratantra”, il supremo lignaggio, insegnato dal Bodhisattva Maitreya ad Asanga nel IV secolo e nel quale vengono riassunti tutti gli insegnamenti relativi “al terzo giro di ruota” concernente la natura di Buddha, termine questo condiviso da entrambe le traduzioni, la vecchia e la nuova. L’Uttaratantra costituisce la fonte principale, il testo radice a cui si sono riferite tutte le successive interpretazioni. In esso sono trascritti nove classici esempi condivisi da tutte le scuole. Uno di questi narra di un tesoro costituito da oro nascosto nell’immondizia. L’oro rappresenta la natura di Buddha e l’immondizia le impurità mentali, il momento in cui si scopre questo oro che emerge dalla sporcizia è il momento in cui si raggiunge l’illuminazione e si realizza quella che è la propria autentica natura; ciò corrisponde all’insegnamento Nyingmapa perché, anche se siamo esseri illuminati dal tempo senza inizio, in realtà non siamo capaci di riconoscerlo immediatamente. Per i Sarma il trovare l’oro in mezzo all’immondizia corrisponde alla purificazione, alla ripulitura delle impurità che lo nascondono, che oscurano la nostra vera natura. Entrambe le posizioni trovano spiegazione nell’esempio, ecco perché gli studenti di Dharma devono fermarsi almeno un anno sullo studio della natura di Buddha, un soggetto stupendo.
Domanda: Rispetto alla pratica come si differenziano queste due interpretazioni? Noi generalmente lavoriamo sulla mente per purificarla da tutti gli ostacoli, ma secondo l’interpretazione degli antichi cosa dovremmo fare?
Risposta:  Creare le condizioni appropriate; invece di porre l’accento sul tipo di percorso da seguire rivolgere maggior attenzione e prendersi maggior cura delle condizioni affinché esso si verifichi naturalmente. Per esempio nell’educazione dei figli, vi è un modo diretto di procedere seguendo giorno per giorno l’evoluzione del proprio lavoro, oppure vi è un sistema educativo in cui ci si preoccupa di creare le condizioni migliori affinché questo processo avvenga naturalmente, ma in nessuno dei due casi vi è garanzia di buon risultato. Nei collegi inglesi, così come nei nostri monasteri, si cerca di educare persone importanti, famose in modo da potersene poi vantare, rilasciando spesso tutti gli attestati senza che corrispondano al livello di preparazione promesso. Le tradizioni sia di Oxford che di Cambridge sono molto particolari perché dopo aver ottenuto il primo grado di laurea si passa direttamente, in modo automatico alla laurea completa; la stessa cosa avviene nei monasteri in cui quando si arriva ad un certo livello si può accedere direttamente al livello massimo senza dover ottenere diplomi intermedi, così si può trascorrere una vita intera nel monastero e alla fine diventare Geshe senza averne la preparazione relativa. Quindi, anche se vi sono le migliori condizioni il processo non è mai garantito, in nessun caso, è dunque saggio considerare molto seriamente entrambe le possibilità e possibilmente praticarle insieme; non c’è una via migliore, più giusta, e nemmeno l’una esclude l’altra, anzi è bene integrarle creando le condizioni più favorevoli e impegnandosi nel lavoro di purificazione, attuando così una pratica globale. 
Per quanto riguarda la natura del Buddha vi sono interpretazioni differenti relativamente al modo in cui essa è in noi, ma che cos’è la natura di Buddha? E’ la natura della mente. Questa terminologia può sembrare strana e si potrebbe pensare a un dono che proviene dal Buddha, in realtà si tratta dell’autentica natura della propria mente. Comunque entrambe le tradizioni, quella della “grande perfezione” (Dzogchen) e quella del “grande sigillo” (Mahamudra) affermano la fondamentale importanza della natura della mente.
La natura della mente ha due livelli uno definitivo, ultimo, e uno cosiddetto convenzionale ed entrambi devono essere presenti. La natura della mente è direttamente collegata alla consapevolezza la cui crescita e realizzazione è il metodo per lo sviluppo della stessa natura della mente. Nel momento in cui sviluppiamo la consapevolezza sviluppiamo contemporaneamente il livello ultimo della natura della mente, la natura vacua della mente. E’ come una lampadina che fa più luce tanto più è potente. Con il crescere della consapevolezza la natura vacua della mente si manifesterà parallelamente con maggiore chiarezza e luminosità. 
Si può osservare allo stesso modo la natura di Buddha che  da una parte è innata e dall’altra può essere sviluppata. La natura di Buddha innata è quella conosciuta come “chiara luce” mentre, ad esempio, quando si affronta la consapevolezza ci si riferisce alla natura di Buddha che può essere sviluppata.
Se sappiamo osservare questi livelli della nostra mente riusciamo ad avere un miglior conoscenza del nostro sé, ed è un grande passo perché il riferimento a cui dobbiamo rivolgerci non è mai verso il mondo esterno ma sempre alla nostra interiorità, al nostro sé profondo.
E’ interessante affrontare l’argomento di oggi, “Le quattro nobili verità” partendo da questo punto di osservazione. 
Il primo giro della ruota del Dharma ha avuto come soggetto le quattro nobili verità ed è rivolto al contesto più generale.
Nel secondo giro della ruota del Dharma il soggetto si sposta sul significato ultimo di quanto precedentemente insegnato e ha come punto centrale la vacuità.
Nel terzo giro della ruota del Dharma si entra nel dettaglio delle questioni affrontate nei due giri precedenti con l’esame degli aspetti specifici dell’insegnamento. La tradizione dice che il Buddha dopo aver raggiunto l’illuminazione recitò questa quartina e rimase nella foresta sette settimane in silenzio:
“profondo, pacifico e senza costruzioni mentali, chiaro, non composto, come nettare che dissolve le sofferenze, questo ho scoperto!” 
l’esclamazione dimostra grande gioia per l’aver scoperto l’essenza del fenomeno, ma poi prosegue dicendo:
“nessuno capirebbe questo per cui rimarrò nella foresta e non lo comunicherò ad alcuno”
e rimase nella foresta fino a quando non passò qualcuno che gli chiese l’insegnamento. Quanto espresso nella quartina è contenuto nel terzo giro della ruota del Dharma, un livello di comprensione a cui si può giungere solo conseguentemente alla realizzazione dei primi due, per questo la spiegazione della quartina può essere data solo nel terzo giro della ruota del Dharma.
Con le espressioni “Natura di Buddha”, “Natura della Mente” e “Supremo Lignaggio” si definisce la stessa realtà.
Per quanto riguarda invece i due livelli della natura della mente, al livello ultimo è fondamentalmente il contenuto del secondo giro della ruota del Dharma, la vacuità, mentre al livello convenzionale è prioritario il soggetto del primo giro della ruota del Dharma, relativo alla panoramica generale. 
Si può anche dire che il primo giro della ruota del Dharma riguarda filosoficamente l’aspetto Hinayana ed è rivolto soprattutto agli uditori, i praticanti solitari. Il secondo giro della ruota del Dharma è quello riferito al Mahayana e ha come oggetto le sei perfezioni e le pratiche del Bodhisattva. Il terzo giro della ruota del Dharma sottolinea l’ultimo veicolo il Vajrayana, metodo che permette di affrontare in maniera più diretta e profonda  il sé.
Vi è poi un altro modo metaforico di definire i primi tre giri della ruota del Dharma con l’espressione “pulire la mente tre volte”. Potrebbe essere particolarmente esaustivo l’esempio degli abiti tibetani che un tempo venivano lavati solo una volta l’anno, quindi per poterli mondare da tanta sporcizia era necessario procedere con metodo, non era possibile ottenere un buon risultato in un colpo solo, così il primo lavaggio ripuliva la sporcizia più superficiale, il secondo quella più profonda e il terzo detergeva definitivamente le impurità rimaste. Se non si fosse praticata questa gradualità si sarebbe rischiato di distruggere e lacerare la stoffa.
Ecco l’abile mezzo del Buddha che la prima volta ripulisce le impurità grossolane applicando la pratica dei tre addestratori: etica, concentrazione e saggezza
Dopo aver ammorbidito la mente, eliminato le rigidità delle impurità grossolane, nel secondo giro della ruota del Dharma ci si può accostare alle pratiche: l’altruismo, la bodhicitta e le sei perfezioni, e procedendo gradino dopo gradino si va sempre più a fondo nella pulizia della mente.
Il terzo giro della ruota del Dharma mostra semplicemente ciò che uno è, si riconosce la propria essenza. I tre veicoli, Hinayana, Mahayana e Vajrayana, non sono affatto contrapposti o separati, ma costituiscono un cammino da percorrere e il tempo necessario per completarlo dipenderà esclusivamente dalla capacità individuale di ognuno. Nel testo tantrico “I Nomi di Manjusri” si dice che in ultima analisi esiste un solo sentiero, in una visione ultima tutti i veicoli sono un unico veicolo. E’ un testo radice bellissimo e fondamentale. 
Mi sono davvero divertito quando, appena giunto in Europa, sentivo le persone affermare con grande serietà la propria appartenenza a un veicolo piuttosto che ad un altro, perché questa è davvero una sciocchezza ridicola tipicamente occidentale che, sovrapponendosi alle pratiche buddhiste, ne altera radicalmente il senso fino a vanificarlo. Simili concezioni errate sono nate e cresciute esclusivamente nelle società tecnologicamente più avanzate, probabilmente sono partite dal Giappone per passare agli Stati Uniti e infine approdare in Europa. Se si continua così presto arriveranno anche in Tibet e questo sarebbe davvero un guaio perché la cultura tibetana, sinceramente ecumenica, finirebbe per scomparire. Non ha nessun senso affermare di appartenere ad un veicolo o ad un altro, tutti sono parte inscindibile di uno stesso sentiero. La nostra mente deve essere ripulita prima con il veicolo Hinayana, poi il processo continua nel Mahayana e infine la purificazione viene ultimata nel Vajrayana. 
La natura di Buddha è uguale in ogni individuo che, di conseguenza, è ugualmente importante e ha pari capacità di purificare la propria mente. Non esistono discriminazioni possibili tanto che, di fronte alla divisione in caste in India, il Buddha fu un vero rivoluzionario e dichiarò che l’unica casta esistente era l’essere umano che possiede uguale natura di Buddha senza alcuna distinzione. 
Riguardo alla prima nobile verità della sofferenza non si intende questo termine come dolore in senso stretto ma piuttosto come senso di insoddisfazione, presente in ognuno di noi in ogni circostanza, qualsiasi cosa stiamo facendo, anche quando è nascosto a livelli molto sottili è presente. Con la prima nobile verità conosciamo l’insoddisfazione che affonda le radici nelle oscurazioni della mente, nell’ignoranza. Il dolore è la manifestazione più evidente e palese dell’insoddisfazione, mentre la felicità è la manifestazione di alcuni livelli di questa insoddisfazione. Poiché la nostra mente è piena di oscurazioni ciò che ci appare come felicità corrisponde soltanto al fatto che alcuni livelli di insoddisfazione sono stati annullati.
Quando nello stato meditativo sperimentiamo l’assenza di felicità, l’assenza di sofferenza e di una sensazione particolare siamo nello stato equanime delle sensazioni che è un livello superiore anche a quello della felicità, perché con la felicità è sottinteso il riferimento al dolore e viceversa, mentre in uno stato in cui queste due sensazioni contrapposte sono assenti non vi è paragone si è nell’equilibrio equanime ed entrambe le sensazioni appaiono nella loro neutralità. Lo stato neutrale è superiore, perché la felicità può portare alla sofferenza e viceversa e il continuo alternarsi è già in sé sofferenza mentre lo stato neutrale si mantiene saldo nell’equanimità. La sensazione che può avere un Buddha è dunque quello della neutralità, sebbene anch’essa rientri sempre nell’ambito della sofferenza.
La verità della sofferenza sorge dall’attitudine discriminante che noi esseri convenzionali e ordinari assumiamo sempre. Immediatamente in ogni circostanza dobbiamo catalogare, dividere differenziare, strutturare secondo priorità e se la nostra priorità è la felicità il dolore inevitabilmente sarà ad un livello più basso. Nella nostra suddivisione a livello più basso poniamo la sofferenza, a livello intermedio la neutralità e a livello più alto a felicità, ma assumendo tale atteggiamento mentale non abbiamo alcuna comprensione della prima nobile verità della sofferenza, siamo assai lontani dalla sua realizzazione. Questo tipo di discriminazione, e il voler essere sempre felici è il segno sicuro della non realizzazione della prima nobile verità. Nemmeno il Buddha è sempre felice, non avrebbe alcun senso, mentre ciò che è importante è la neutralità o, secondo una definizione più sottile, “la naturalità”, uno stato superiore alla felicità. Al nostro livello comunque tutti e tre questi stati appartengono alla sofferenza dell’insoddisfazione.
Sia ben chiaro che non stiamo parlando di dover cambiare il Samsara ma di imparare ad osservarlo per quello che è. Quando accade un fatto doloroso, non dobbiamo farci travolgere affondare nel pozzo nero del pensiero che noi siamo gli esseri che soffrono, dobbiamo invece osservare tutto il dolore nella sua essenza più completa, senza porci al centro di esso identificandoci in esso ma vederlo per quello che è, una realtà presente ma diversa da noi. 
Allo stesso modo ovviamente dobbiamo osservare la felicità e questo metodo è veramente meraviglioso perché, ponendoci di fronte alla felicità, alla sofferenza e alla neutralità senza identificarci con le sensazioni che ne derivano, ma imparando ad osservare con lucida consapevolezza una realtà che è altro da noi scopriamo in questa distinzione la nostra libertà più vera. 
Lo stesso atteggiamento deve essere assunto nei confronti delle attitudini più radicate quali l’attaccamento, la rabbia, l’amore la compassione e persino la saggezza. In ogni caso dovremmo essere capaci di riconoscere la natura di questi fenomeni senza mai identificarci con essi perché altrimenti laddove c’è presenza di rabbia noi diventeremo gli arrabbiati e ciò non farà certo scomparire la rabbia ma al contrario ce ne renderà totalmente schiavi. La stessa identificazione con le sensazioni di amore e compassione è errata in quanto non è di beneficio a nessuno e non ci permette di essere consapevolmente liberi. E’ importante maturare la totale libertà da ogni tipo di emozione, sia essa buona o cattiva.
In particolare appartiene alla tradizione Theravada la pratica della presenza mentale che insiste sulla necessità di essere sempre consapevoli di ciò che accade nella nostra mente, la giusta via per poter permanere nella propria natura di Buddha.
Secondo la tradizione degli antichi, lo Dzogchen siamo naturalmente nello stato illuminato e dunque, come la tradizione Theravada parla di consapevolezza, lo Dzogchen indica di restare nella propria natura illuminata e il Mahamudra, la nuova tradizione, dice di permanere nella natura della mente senza lasciarsi distrarre dalle temporanee oscurazioni che possono presentarsi. Anche la compassione e l’amore, se diventano elemento di distrazione dall’essere nella natura della mente, costituiscono un ostacolo. 
Unire le diverse tradizioni cogliendone il messaggio profondo è fondamentale per il corretto cammino, al contrario, se si tende a discriminarle tra loro significa che non si è compreso questo fondamentale insegnamento.
Un importante aspetto nel buddhismo tibetano è rappresentato dalla vacuità, la vacuità che riguarda “l’io, il sé” e la vacuità che si riferisce ai “fenomeni” “all’altro da sé”. La scuola Gelugpa approfondisce maggiormente la vacuità del sé mentre la scuola Kagyupa pone maggior enfasi sulla vacuità dell’altro da sé, per questo ci sono tante sottili discussioni e polemiche per cui le scuole si accusano vicendevolmente di errata visione. Vi è anche una grande controversia riguardante “la concentrazione sul singolo punto” motivata dal porre attenzione alla presenza di pensieri o meno.
La controversia, che ha origine in un tempo molto lontano ed è sorta dalla contrapposizione di due maestri che hanno portato il buddhismo in Tibet, uno indiano e l’altro cinese, il maestro cinese affermava la visione del “si e no”, cioè che tutti i fenomeni esistono e al tempo stesso non esistono e la meditazione consisteva nello svuotare completamente la mente da qualsiasi tipo di pensiero in un totale vuoto. 
Il maestro indiano, Karmalashila, invece sosteneva che ciò non era giusto e affermava l’opposto perché per poter sviluppare le qualità della mente era necessario pensare. 
Al fine di risolvere definitivamente la questione il re del Tibet promosse un pubblico dibattito dichiarando che solo al vincitore sarebbe stato concesso il permesso di rimanere in Tibet e dare insegnamenti, e il dibattito fu vinto dal maestro indiano Karmalashila cosicché il monaco cinese dovette ritornare in Cina e per questo motivo il buddhismo cinese non attecchì in Tibet., però l’insegnamento del maestro cinese non è andato completamente perduto perché alcuni seguaci Dzogchen riconoscono in esso il proprio metodo di meditazione che consiste nel permanere nella natura della mente.
I tre punti di vista sono tuttora ugualmente validi, quello del maestro cinese, quello di Karmalashila e quello Dzogchen, tanto che un anziano maestro cinese, che ho avuto il piacere di incontrare a Roma e che ora risiede a Taiwan, ebbe un pubblico incontro qualche anno fa a New York con S.S. il Dalai Lama in cui venne ancora discussa la questione del “singolo punto”, in tale ambito fu ricercata una costruttiva unificazione tra le due posizioni e l’interessante e proficuo dibattito fu registrato e in seguito pubblicato in un testo.
Per quanto riguarda le diverse interpretazioni circa le modalità della meditazione è importante non assumere posizioni nette e contrapposte ma cercare invece di integrare i vari metodi, approfondendo e studiando le prerogative di ognuno e trovando una arricchente ed efficace unificazione.
La prima nobile verità “della sofferenza” giace nell’insoddisfazione;
La seconda nobile verità delle “cause della sofferenza” insegna che la causa di tale insoddisfazione risiede nelle condizioni samsariche del karma e nelle oscurazioni mentali.
La terza nobile verità della “cessazione della sofferenza” avviene tramite la realizzazione della quarta nobile verità “il sentiero che conduce alla cessazione della sofferenza”, la meditazione della pratica della presenza mentale, del permanere nello stato naturale della mente. C’è anche la meditazione  dello sviluppare le qualità mentali, ovvero i tre tipi di meditazione proposti dal maestro indiano, cinese e Dzogchen. 
Con la verità della cessazione della sofferenza si ritrova il proprio stato illuminato, si ripulisce la nostra natura della mente scoprendo la natura di Buddha. La natura di Buddha è un fenomeno che ha la stessa sostanza della vacuità così come lo stato dell’illuminazione e del Nirvana. 
Riguardo alla natura di Buddha essa è suddivisa in due livelli:
la natura di Buddha in senso definitivo, ultimo, che corrisponde alla vacuità
la natura di Buddha che corrisponde allo sviluppo delle qualità spirituali tramite una continua purificazione della mente, esattamente come accade ad una lampada che diviene man mano più luminosa con il riceve maggiore energia, così, la nostra mente che sviluppa continuamente qualità spirituali aumenta la sua luminosità eliminando naturalmente ogni oscurità. Questo è il modo con cui un individuo raggiunge l’illuminazione, è il modo in cui realizza la cessazione della sofferenza.
Oggi abbiamo affrontato teoricamente le quattro nobili verità ma esse possono e debbono essere esemplificate e calate nel quotidiano in  modo che ogni giorno possiamo raggiungere una piccola illuminazione. La piccola serenità della mente, cercare di mettere in pratica le quattro nobili verità nella meditazione produce momento dopo momento il cammino verso l’illuminazione. 
Praticare gli insegnamenti le tecniche di questi antichi maestri, senza preconcetti o pregiudizi significa apprenderli come consigli spirituali e questa è la pratica del Lamrim. Ogni insegnamento è un mezzo utile per raggiungere l’illuminazione.