La
pratica dello Dzogchen 1°
Lama
Gedun Tharchin
Geshe
Lharampa
30
– 31 Marzo e 1 Aprile
2019
- Sassari
DZOG CHEN
Consapevolezza
e Motivazione
Iniziamo
oggi un incontro di due giorni per lavorare tutti insieme, ognuno con
il proprio impegno, per approfondire la pratica del Dharma, rendendo
significativo il tempo senza perdere nemmeno un istante. Questo
lavoro congiunto ci permetterà di continuare anche quando saremo
soli nella nostra quotidianità mettendoci nella condizione ottimale
per poter offrire i frutti a tutti coloro che ci sono intorno,
famigliari, amici, colleghi.
Non
siamo qui per ricevere iniziazioni, benedizioni, illuminazione già
pronta in un bel pacchetto regalo e nemmeno per l’ascolto passivo
di un insegnamento in cui non siamo coinvolti personalmente, ma è
invece importante comprendere il significato del nostro compito che
ci vede impegnati attivamente come membri di un laboratorio in cui
agire nella ricerca interiore, nella terapia, nell’intervento,
siamo noi stessi il paziente su cui agire. Non è un’azione rivolta
all’esterno, non possiamo affannarci in una faticosa arrampicata su
una bella montagna sperando di trovare sulla cima miracolose
manifestazioni e realizzazioni, al contrario, dobbiamo scendere
sempre più nella profondità di noi stessi.
Ciò
che faremo oggi è dunque introdurci nell’esame di un tema
vastissimo, gigantesco, lo Dzogchen
e anche se è impossibile esaurirne la comprensione in soli due
giorni di approfondimento, impegnando ogni istante di questo tempo
potremo procedere al di là di ogni aspettativa poiché l’umanità
con il proprio lavoro spesso, come la storia dimostra, ha reso
possibile ciò che fino al giorno prima non lo era affatto. Il potere
della natura e il potere del Buddha hanno la stessa straordinaria
potenzialità trascendente di trasformazione dell’intero universo.
Lo
Dzogchen è incommensurabile non in virtù di trasmissioni di un guru
o pratiche, ma sboccia direttamente dalla natura, è come limpida
acqua che scaturisce semplicemente dalla sorgente di roccia e
ghiaccio e scorrere naturalmente dagli alti monti himalayani alle
pianure per poi sfociare nell’oceano, sviluppando in questo
percorso la vita, nutre infiniti esseri vegetali e animali, forgia le
pietre, scolpisce un meraviglioso paesaggio. Tutto questo è natura
di amore, compassione, dono, non costruito da volontà, da dovere, da
pianificazione, nemmeno da meditazione o altro, è spontanea,
luminosa manifestazione di armonia naturale, l’amore è
semplicemente naturalezza.
Le
azioni umane, frutto del cosiddetto raziocinio, pianificano il
mercato, sfruttano popoli interi, programmano guerre, distruggono
l’ambiente, avvelenano terra, acqua e aria, stabiliscono come e
quali violenze attivare, sono tutte contro natura e creano soltanto
infelicità inimmaginabile, annientamento degli esseri viventi e
dell’ambiente, e tutto questo dolore a che scopo?
Solo
l’amore è naturale, sorge spontaneo senza alcun intervento
esterno, non occorre altro, invece noi vogliamo forzare questa
condizione così semplice e diretta, ci perdiamo in un’infinità di
elucubrazioni mentali che più sono complesse più ci gratificano e
spendiamo un’infinità di tempo in inutili parole nel tentativo di
codificare tutto ciò di cui parliamo incessantemente, spiritualità,
religione, pratica, meditazione, senza però interiorizzare nel
profondo, sperimentare nulla.
L’amore
è lo stato naturale della grande perfezione, Dzogchen, è ciò che
ci rende illuminati, il che non implica affatto avere una particolare
istruzione, ma semplicemente essere autenticamente e completamente
liberi nella naturalezza e spontaneità che esprime l’amore. Questo
è il senso della vita, non la lotta, la competizione per il potere,
nemmeno la conquista del mondo intero, tutto ciò è soltanto estrema
povertà, spreco dell’esistenza con conseguente frustrazione,
depressione, sofferenza e complicazioni di ogni tipo.
Per
essere gioiosamente nella naturalezza bisogna imparare ad applicare
un motto che nel buddhismo è ripetuto continuamente: “Lascia
andare”,
questo è alla base del nostro incontro di oggi in cui ci dedichiamo
alla pratica dello Dzogchen, cioè ad imparare dalla natura a essere
natura.
L’amore,
la compassione non richiedono studi complicati, rituali magici,
pratiche pesanti di cui tenere rigorosa contabilità, tutto questo è
falso, inutile, perché l’unico elemento necessario è ritrovare
nella profondità del proprio cuore, semplice e pulito, la sua natura
amorevole e compassionevole, questo è il fondamento della filosofia
Dzogchen, sviluppare la consapevolezza della propria esistenza nella
natura di amore e compassione.
Su
questi temi è sempre utile il confronto con il pensiero altrui
perché nello scambio di opinioni diverse sono più chiare le tante
domande che ci poniamo e che ci aiutano a comprendere il valore
fondamentale della natura non solo intesa come bellezza indicibile,
ma nella consapevole conoscenza della sua essenza profonda di materia
e antimateria che si manifestano in contemporaneità.
La
conoscenza del valore sia spirituale che materiale non è mai
dualistica, esprime la potenzialità, di qualsiasi fenomeno nella sua
natura, è il vero miracolo dell’esistenza che costruisce in noi
pace, felicità, gioia, beatitudine, qui e ora, non in un ipotetico
futuro, questo è lo Dzogchen, la grande perfezione, personale e non
egoistica, che vede chiaramente con consapevolezza tutti gli inganni
dell’ego onnipresente che vorrebbe riportarci continuamente alle
lamentazioni, alla sofferenza, alla chiusura del cuore, ma non ne è
intaccata, li osserva e lascia andare, con naturalezza.
Oltre
alla indispensabile consapevolezza
vediamo ora quale altro elemento essenziale deve essere alla base di
ogni spiritualità e pratica del Dharma in ogni nostra azione e
relazione, la motivazione.
Se la motivazione è buona tutto ciò che ne deriverà sarà buono,
al contrario se non lo è i suoi frutti saranno altrettanto non
buoni.
Nello
Dzogchen vi è un testo molto bello: “La Pratica dei Preliminari”
in cui tratta di due livelli di motivazione, la prima è analizzata
secondo la prospettiva del Sūtrayana, il veicolo del sūtra, mentre
la seconda riguarda il veicolo del tantra o Mantrayāna.
La
motivazione, comune a entrambi i veicoli, è la Bodhicitta, la
generazione della mente di illuminazione, non per se stessa, ma a
beneficio di tutti gli esseri senzienti. L’obiettivo della
Bodhicitta è reso possibile prima di tutto dal riconoscimento delle
nostre potenzialità, valore e dal coraggio nell’affrontare il
nostro compito nella vita di ogni giorno.
Dobbiamo
scoprire in noi stessi lo Dzogchen, la mente di grande perfezione già
presente anche se non ancora realizzata e verso cui dobbiamo andare
con la motivazione di Bodhicitta perché senza di essa il nostro
cammino sarebbe impossibile.
Così
come non è possibile portare una tonnellata di peso su una
bicicletta, ma è necessario avere il mezzo idoneo, per la
realizzazione, l’illuminazione a beneficio di tutti gli esseri è
fondamentale la motivazione, base comune sia nel Sūtrayana che nel
Mantrayāna.
La
Bodhicitta non è affatto un obiettivo irraggiungibile e nemmeno
richiede pratiche complicatissime e lunghe, poiché tutto ha già
insito in sé la natura di compassione, è in noi, dobbiamo
semplicemente lasciar emergere questa spontaneità e dare senza
calcolo, senza barriere, lasciar andare tutte le costruzioni
fantastiche e illusorie a cui ci afferriamo con insensata bramosia e
che non hanno nessuna reale consistenza, ma ci impoveriscono e
rinchiudono nel nostro onnipresente e ingannevole ego.
L’ego
si afferma nella volontà costante di voler fare le cose per me, per
un presunto egoistico inesistente vantaggio, mentre il vero modo di
essere con la motivazione della Bodhicitta naturale è solo nella
relazione, nell’offerta, nell’azione verso gli altri. Lo Dzogchen
è semplicemente questo, non occorre nessuna fatica, nessuna pratica
complicata semplicemente dobbiamo lasciar affiorare spontaneamente la
Bodhicitta che è già nella profondità della nostra natura.
Quando
occupiamo tutto lo spazio con il nostro ego, oscuriamo la Bodhicitta,
le impediamo di emergere, quindi la nostra prima motivazione è
richiamarla, lasciarla espandere nella sua naturalezza. Questo è il
primo livello di motivazione.
Adesso
vediamo il secondo livello di motivazione, ancora più potente perché
per la piena realizzazione dello Dzogchen la Bodhicitta è ancora
insufficiente, è necessaria la motivazione del “vasto metodo
segreto del Mantrayāna”.
Nel
testo della pratica preliminare dello Dzogchen si afferma un concetto
fondamentale alla base di tutto e cioè che ogni essere ha in sé la
natura dell’illuminazione da tempo senza inizio e per poter
riconoscere questa illuminazione in noi stessi e negli altri è
necessario sviluppare la Bodhicitta e grazie ad essa saper
riconoscere in noi la natura di illuminazione lasciando così
emergere lo stato sottile della mente originaria, rigpa,
che automaticamente dissolve la mente grossolana che mai potrebbe
illuminarsi. Il riconoscimento della propria natura di Buddha ci
mostra la natura di Buddha in tutti gli altri esseri, altrimenti
sarebbe impossibile.
Quindi
la Bodhicitta è prima di tutto verso gli esseri senzienti che non
sanno riconoscere la propria illuminazione, la luce che illumina
l’esistenza qui e ora.
Se
invece scegliamo di rimanere pigramente nel buio dell’ignoranza ci
auto-infliggono sofferenza, insoddisfazione, vittimismo
nell’illusione della visione errata.
Visione
nel Mantrayāna
Il
nostro lavoro può essere paragonato alla preparazione di una torta e
per ora siamo ancora impegnati nell’impasto di base già ben
lavorato, ma ancora incompleto, dobbiamo terminare la visione della
seconda motivazione, la motivazione straordinaria del Mantrayāna,
che consiste nella consapevole conoscenza dell’illuminazione di
tutti gli esseri senzienti, compresi noi stessi, da tempo senza
inizio.
Con
questa conoscenza siamo liberati dal considerare reale ciò che non
lo è e ogni visione errata prodotta dall’ego si dissolve nella
visione stessa, la sua apparenza resta immutata, ma la sostanza ne è
completamente trasformata.
Questa
è la motivazione di Mantrayāna, parola che scomposta esprime questo
significato:
-man-
è la coscienza, la mente principale che osserva ciò che appare,
-tra-
significa protezione, ciò che si sente e -yāna-
il veicolo con cui realizzare la liberazione dalla visione errata ed
è la protezione della mente.
Secondo
la visione Mantrayāna è necessario sviluppare l’attitudine a
raggiungere l’illuminazione attraverso la pratica della generazione
della trasformazione di sé in divinità in questa stessa vita,
mentre nell’interpretazione Sūtrayana lo stato di trasformazione
nella natura della divinità richiede un’infinità di eoni.
Nella
visione Mantrayāna tutto è trasformato nella quotidianità, noi
siamo nella condizione di man
che osserva, tra
che sente e rig
in cui tutto è presente nella nostra coscienza, ma non tangibile con
gli occhi né con gli orecchi, presente solo nella mente e tutto
questo è descritto come Dharmakāya, la forma della vacuità, o
forma del Dharma. Questi livelli di percezione sono specificati nel
Mantrayāna come cammino di trasformazione nello stato di divinità.
È
un drastico cambiamento dall’apparenza comune allo stato
straordinario in cui tutto è visto nella purezza della natura,
purezza della forma e anche l’immagine che può presentarsi nella
sua manifestazione più negativa è vista dalla mente nella sua
purezza naturale, tutto è trasformato nella sua pura forma di
vacuità e questa è la reale protezione della mente da ogni
condizionamento di errata apparenza negativa, nulla può intaccare la
visione trasparentemente limpida nella luminosa mente primordiale, la
mente originaria da tempo senza inizio, la mente di Chiara Luce.
Nello
Dzogchen questa mente primordiale si chiama Rigpa,
mentre
la sua negazione è ma-rigpa. Generalmente nell’interpretazione
comune noi identifichiamo rigpa con saggezza e ma-rigpa con
ignoranza, ma nello Dzogchen la visione è più essenziale e diretta,
rigpa è il riconoscimento della mente primordiale.
La
mente grossolana si può fermare sempre e soltanto all’apparenza
illusoria dei fenomeni, non potrà mai avere la visione di
illuminazione, mentre solo la mente radice può trasformare
l’impossibile in possibile e liberarci dalla schiavitù delle
illusioni ingannevoli dell’ego e quando ci siamo liberati da tutte
le illusioni la mente diventa illuminata.
Siamo
giunti già a un buon punto di analisi, abbiamo compreso come
osservare, vedere la vera natura della propria mente.
Vi
sono molte interpretazioni diverse riguardo come raggiungere la
capacità di osservare la propria mente e secondo una tradizione
della pratica Dzogchen si afferma che un maestro illuminato, potente,
può rivelare a te la tua stessa mente in un solo istante, come il
lampo di un fulmine che ti fa entrare in un momentaneo stato di
trance in cui hai la visione consapevole e chiara della tua mente
primordiale.
Ma
oggi non ci si può fermare all’interpretazione più tradizionale
di una determinata scuola, qui dobbiamo unire più conoscenze
tradizionali, scientifiche, classiche, moderne e soprattutto dobbiamo
seguire l’insegnamento del Buddha che ci avverte di non dimenticare
mai che ognuno è il maestro di se stesso e dunque la nostra mente ci
può essere mostrata soltanto da noi stessi, nessun altro può farlo
al posto nostro e le pratiche preliminari non sono dunque necessità
primaria e irrinunciabile, ma meramente importanti come sostegno al
proprio lavoro.
Noi
possiamo accedere alla visione della mente attraverso la porta del
Dharma, è questo il significato vero della presa di rifugio nei tre
gioielli, Buddha, Dharma, Sangha e vi sono tre modi per prendere
rifugio: a livello esterno, a livello interiore e a livello segreto,
vi è poi un quarto passaggio che riguarda proprio il nostro lavoro
odierno ed è il Buddha, Dharma, Sangha della vacuità, della Chiara
Luce.
In
tutti i tre livelli, esterno, interiore e segreto il primo oggetto di
rifugio, il Buddha, significa avere la mente completamente liberata
dagli estremismi di nichilismo ed eternalismo.
È
possibile riconoscere la faccia della propria mente primordiale solo
se la mente convenzionale è stabilmente concentrata nella limpida
consapevolezza, profonda e luminosa, tramite la pura spontanea
naturalezza, e mai con forzature, tecnicismi o affidamento
incosciente a chissà quale magia o evento miracoloso.
Di
questo argomento tratta in modo estremamente chiaro Jiddu
Krishnamurti, un autentico grande maestro Dzogchen che ribadisce la
necessità di spogliarsi da ogni falsità, dice: -Lascia
andare ogni pensiero, costruzione mentale, semplicemente, osserva-
rimanere naturali nel rigpa, nella propria coscienza, questa è pura
consapevolezza.
Krishnamurti
toglie qualsiasi illusione, falsa gratificazione, annulla
completamente ogni possibile nutrimento dell’ego e dimostra come
tutto ciò che esula dalla scarna essenza è già inganno, lui
presenta il vero Dharma assolutamente spogliato da ogni costruzione
esteriore convenzionale, filosofica, religiosa, culturale.
Non
esiste un unico metodo di realizzazione di sé, ce ne sono milioni,
ma ognuno deve cercare e costruire il proprio cammino seguendo il
maestro interiore, senza sovraccaricare la mente con inutili orpelli
e imparare a procedere nella naturalezza della strada verso la
visione consapevole della Chiara Luce, della mente primordiale e in
questo percorso le pratiche preliminare sono un aiuto, un sostegno,
ma non il fine.
Tutti
riconosciamo senza fatica la mente di base, quella concettuale,
grossolana, ma la natura della mente primordiale, rigpa, richiede il
personale cammino nella consapevolezza e la spiegazione dello
Dzogchen trova, nella visione della mente sottile primordiale un
approfondimento nel Kālacakra tantra che è un fondamento della
dottrina Mantrayāna.
La
mente primordiale emerge alla coscienza nell’assenza di pensieri
concettuali, percepisce la natura dei fenomeni nella loro essenza
autentica, senza preconcetti né giudizi, osserva la vacuità, la
realtà ultima dei fenomeni. Questa mente innata di Chiara Luce è
dai tempi senza inizio e quando è liberata da ogni illusione diventa
mente di Dharmakāya, la mente di vajra.
La
mente primordiale non subisce alcuna influenza negativa o positiva
dall’esterno, ha la purezza dell’oro che non si ossida mai e
dunque la sua natura resta sempre pulita, incontaminata e nella
consapevolezza abbiamo coscienza di convivere con la mente
primordiale da tempo senza inizio e, al contempo, con la mente
grossolana, confusa. Entrambe le due condizioni devono essere
presenti, sono distinte, ma camminano insieme. La qualità della
mente primordiale è inattaccabile, salda, mentre quella della mente
grossolana è in costante movimento, crea ostacoli e deve essere
purificata, ma come purificarla?
Attraverso
la pratica yoga del Kālacakra si purificano tutti i canali con
l’energia della Bodhicitta e della saggezza, il Kālacakra pulisce
completamente il livello grossolano e lascia spazio alla beatitudine
della vacuità, realizza l’illuminazione nella forma di vacuità e
corrisponde a quello che nello Dzogchen è il corpo di arcobaleno.
È
tutto abbastanza complicato, ma non ce ne dobbiamo preoccupare, non
dobbiamo né possiamo raggiungere in un istante il livello di
illuminazione, è invece essenziale procedere a piccoli passi, con
serena tranquillità, muoverci come se fossimo in un campo di gioco,
per alleggerire il samsāra e migliorare la nostra esistenza fisica,
mentale e spirituale. Questo è il valore della vita umana, infatti
il nostro scopo immediato è di rendere la nostra vita spontanea,
naturale, pura e quello a più lungo termine, è convivere
consapevolmente con la mente primordiale.
Rigpa
Ieri
è stata una giornata di lavoro molto significativa in cui abbiamo
condiviso concetti fondamentali nel tentativo di comprendere
al’essenza della mente primordiale, la sua natura e le sue
caratteristiche con particolare attenzione alle tre principali:
quella naturale, quella pura e quella compassionevole.
Queste
tre qualità non sono esclusive della mente primordiale, bensì di
qualsiasi natura primordiale, del corpo primordiale.
La
mente primordiale, nel linguaggio Dzogchen “Rigpa” ha la capacità
di osservazione senza osservatore, percezione senza percettore, è
semplicemente essenza di mente pura presente nell’esistenza umana,
concetto che nel linguaggio della filosofia buddhista si chiama
“natura di Buddha” che porta alla vacuità della mente, la realtà
ultima della mente.
La
vacuità della mente grossolana, sottile, primordiale è la stessa
natura della mente primordiale e costituisce l’essenza della nostra
esistenza che alla fine si dissolve in questo spazio.
Come
detto ieri la porta di entrata indispensabile per tutto questo è la
consapevolezza e non può esserci consapevolezza senza equilibrio,
tranquillità, a cominciare dal livello grossolano nel corpo, nel
pensiero, nel respiro, nella mente e per raggiungere questo
equilibrio è necessario purificare tutte le energie negative e
creare spazio alle energie positive che sono già parte della nostra
natura.
Dobbiamo
purificarci dalle energie negative a livello fisico, mentale e
spirituale e questo può essere fatto in molti modi, il metodo
essenzialmente utilizzato nello Dzogchen consiste nella pratica dei
nove giri di respiro, quello strumento che riporta la calma, il
contatto diretto con la propria natura profonda, come lo specchio
d’acqua limpida di un lago, non intorbidita da alcuna brezza o
vento.
Il
metodo meditativo dei nove respiri è molto semplice, eppure
potentissimo, rientra nella pratica Mantrayāna che non ha bisogno di
campane, musica, danze, tanto frastuono, al contrario necessita solo
di silenzio e tranquillità, è la più silenziosa, la meno
apparente, infatti è detta anche il segreto del Mantrayāna,
inconoscibile, perché nulla appare all’esterno e il vento sottile
attraverso corpo e mente purifica corpo e mente grossolani.
Per
iniziare la pratica dei neve respiri dobbiamo innanzitutto
visualizzare il canale centrale e i due laterali uno a destra e
l’altro a sinistra, poi con la mano chiudere alternativamente una
narice. Cominciamo inspirando profondamente dalla narice destra e
quando il respiro giunge al fondo espiriamo dal canale di sinistra e
lo facciamo per tre volte, poi alterniamo l’ordine e per altre tre
volte inspiriamo dalla narice sinistra ed espiriamo dalla narice
destra; infine per tre volte inspiriamo da entrambi i canali laterali
ed espiriamo da quello centrale. In questo modo il vento sottile di
purificazione ha aperto e liberato tutti i canali del corpo dalle
loro impurità.
Questo
esercizio ci rende consapevoli dei tre canali del nostro corpo
sottile, sediamoci dunque nella corretta postura come un vecchio
albero ben radicato, con la schiena diritta in modo che il flusso
energetico possa fluire senza intoppi, ma sempre senza alcuna
forzatura, con il corpo rilassato naturalmente, stabile, come fossimo
una montagna e concentriamo l’attenzione sul corpo sottile
visualizzando i canali: sinistro bianco, centrale blu e destro rosso
e cominciamo la respirazione come appena descritto ricordando che
nell’inspirazione si immette energia positiva ed espirando si
espelle quella negativa.
(segue
pratica)
Ora
siamo rilassati in questo corpo sottile purificato consapevoli della
sua naturale essenza di compassione e attraverso questa
consapevolezza troveremo la libertà della mente, naturalmente
protetta da ogni influenza negativa, riconoscendo con gioia profonda
che in questa pratica abbiamo potuto godere di un piccolo momento di
perfezione.
Lo
Dzogchen è tradotto in italiano con “Grande Perfezione”, cioè
una perfezione completa che è esclusivamente nella vacuità, che non
significa vuoto o nulla, bensì spazio infinito in cui c’è
perfezione, qualità, opportunità, libertà e noi lo realizziamo
trasformando la nostra mente nello spazio infinito.
Invece
noi generalmente tendiamo a fare l’esatto contrario, rinchiudiamo
la nostra mente in uno sgabuzzino buio, angusto e in cui manca
l’aria, ci rendiamo schiavi nella nostra ristretta quotidianità,
oppressi da preoccupazioni e pensieri, incapaci di guardare al di là
dell’apparenza immediata e nella nostra ottusità non capiamo che
soltanto realizzando la qualità ultima della mente possiamo essere
realmente liberi.
Per
rendere la propria mente spazio infinito dobbiamo liberare la mente
dalla mente, lo Dzogchen, la pratica di Mahāmudrā, Mantrayāna, non
ha bisogno di iniziazioni né di nessun rituale esteriore, è
naturale, libera, segreta, è la più semplice e l’unico strumento
necessario per realizzarla è la stessa mente.
Il
più grande praticante di Dharma in Tibet è stato Milarepa, vissuto
nella stessa epoca di san Francesco d’Assisi, è l’unico
praticante, oltre al Buddha naturalmente, che ha raggiunto
l’illuminazione in quella stessa vita, una vita umilissima,
semplice, in cui si nutriva solo ortiche che cucinava in un coccio
che un giorno cadendo si ruppe, ma lo strato di ortiche ormai
consolidato divenne a sua volta una pentola.
Milarepa
si spostava continuamente per non essere distratto dall’afflusso di
gente che insistentemente veniva a cercarlo, ma aveva una sorella che
voleva prendersi cura di lui e si preoccupava per la sua condizione
misera e per il suo corpo nudo o ricoperto solo da qualche straccio,
così un giorno gli portò un bel taglio di stoffa affinché ne
facesse un abito e lui promise che avrebbe provveduto, ma quando la
sorella ritornò dopo un po’ di tempo trovò la sua stoffa tagliata
tutta in piccole strisce assolutamente inutili e di fronte allo
sconcerto della sorella lui rispose cantando con un meraviglioso
insegnamento che quello era il suo abito.
La
sorella non riusciva a capire che tipo di Dharma lui praticasse e gli
chiese perché i Lama importanti in Tibet erano ben nutriti e con
tutte le comodità possibili, attorniati da attendenti e servitori e
circondati dai ricchi doni dei discepoli, mentre lui era l’esatto
opposto, l’ultimo dei pezzenti e a questa domanda Milarepa rispose
che la sua pratica di Dharma era raggiungere l’illuminazione nella
stessa vita e non aveva bisogno di null’altro, aveva tutto il
necessario nella realizzazione della Bodhicitta e della vacuità
ultima della mente.
Questa
è la pratica diretta, umile, silenziosa, nascosta e io consiglio
davvero di studiare e meditare l’insegnamento di questo grande
maestro e di leggere la “Vita di Milarepa” e “I centomila Canti
di Milarepa” che in realtà non sono centomila, bensì indicano la
collezione completa di tutti i suoi poemi spirituali. Una traduzione
dei canti più recente è stata fatta a Torino dalla professoressa,
tibetologa, Carla Gianotti.
I
nove yāna dello Dzogchen
Nella
tradizione tibetana vi sono molteplici correnti di pensiero e ogni
scuola ha un proprio lignaggio con modalità differenti nelle forme
per esprimere il Dharma: la scuola più antica è quella dei
Nyingmapa, importata dall’India, così come quella che segue, la
scuola Kagyüpa fondata sulla trasmissione orale, poi la scuola
Sākyapa nata in Tibet e infine la scuola Gelugpa, degli studiosi.
In
realtà la scuola fondamentale alla base di tutte quelle appena
elencate, anche se non è mai stata istituzionalizzata, è quella
degli antichi maestri Kadampa, nata dalla pratica di Atīśa e basata
unicamente sulla naturalezza dell’addestramento mentale, il Lo
Jong, il cui centro è la pratica di Bodhicitta, la Compassione, e si
articola in sette punti che sono il cuore del Dharma, fondamento in
tutte le diversificazioni interpretative degli gli insegnamenti.
Il
buddhismo tibetano, in tutte le interpretazioni e correnti affonda
comunque le proprie radici nell’antica religione Bön
che poi è stata assorbita passando attraverso varie fasi di
modificazioni reciproche e integrazioni per cui le differenze sono
più formali che sostanziali e lo Dzogchen è di fatto presente in
tutte le tradizioni, anche se ciò che ne identifica nello specifico
la pratica è la presentazione attraverso nove yāna, veicoli o
percorsi spirituali.
La
base è l’insegnamento del Buddha storico contenuto in tre veicoli:
del sūtra, del tantra esteriore e del tantra interiore.
I
praticanti di Dharma a loro volta praticano su diversi yāna, quelli
del primo gruppo sono quello degli uditori che ricercano il nirvāna
solo per liberare se stessi rinunciano al samsara, ascoltano gli
insegnamenti, li condividono, ma l’unica motivazione, il loro
obiettivo, è raggiungere il nirvāna tramite la concentrazione nella
meditazione sul singolo punto, Shiné, permanendo nella calma
dimorante, la saggezza della realizzazione della vacuità del sé.
Il
secondo veicolo è quello dei Buddha solitari e il terzo quello dei
Bodhisattva e tutti sono compresi nello Dzogchen che è la pratica al
più alto livello.
E’
importante comprendere che lo Dzogchen si fonda sui nove veicoli che
racchiudono l’intero insegnamento del Buddha. Il primo gruppo di
tre comprende quello degli uditori, dei Buddha solitari e dei
Bodhisattva, poi seguono altri sei che appartengono al veicolo
Mantrayāna suddiviso in due categorie, Mantrayāna estero e
Mantrayāna interno. Nel Mantrayāna esterno abbiamo il gruppo di
tre, il kriyātantra, caryātantra e yogatantra, nel Mantrayāna
interiore troviamo i tre yoga, mahayoga, anuyoga e atiyoga e
quest’ultimo è lo yoga supremo l’essenza del più puro Dzogchen.
La
pratica dello Dzogchen presenta due vantaggi, nel primo si giunge
all’obiettivo senza dover fare un lungo percorso e nel secondo si
arriva ancora in modo ancora più diretto saltando spontaneamente
tutte le tappe, perché la nostra mente è pura sin dall’origine e
quindi è semplicemente necessario riconoscere questa purezza.
Non
è necessario per noi dover realizzare tutti i nove veicoli, già il
primo, quello degli uditori, è più che sufficiente, ognuno deve
calibrare il proprio interesse a ciò che è adeguato alla propria
capacità e maturazione, senza voler raggiungere forzatamente
obiettivi non consoni.
In
qualsiasi livello di pratica ci sono tre aspetti fondamentali di cui
tener conto, sempre sul fondamento della compassione e dell’amore:
la pratica del comportamento etico verso se stessi e verso gli altri,
la pratica della concentrazione meditativa per aprire la mente alla
chiara visione e la pratica della saggezza che è la conoscenza della
realtà ultima che non si ferma alla superficie dell’apparenza, ma
va oltre e giunge all’essenza delle cose.
Già
solo diventare uditori significa avere la motivazione della rinuncia
al samsāra tramite il percorso dei cinque sentieri:
dell’accumulazione, della preparazione, della visione, della
meditazione, del non ritorno.
La
rinuncia al samsāra implica fondamentalmente la rinuncia
dell’attaccamento più forte, l’attaccamento al sé, e l’unica
possibilità di lavorare su questo punto preponderante è tramite la
conoscenza dell’io e la sua consapevolezza.
Consapevolezza
e saggezza insieme rendono tutto possibile e ogni ostacolo può
essere superato.
Abbiamo
lavorato molto in questi due giorni e qui vi ho potuto dare solo un
accenno a questa pratica così completa nel buddhismo tibetano e
articolata in mille sfaccettature, ma l’essenziale è vederne la
sua grande, semplice naturalezza ed è ciò a cui ci siamo impegnati.
Per
concludere dunque dedichiamo tutti i meriti a beneficio degli esseri
senzienti.
Grazie
a tutti.
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