Friday, 22 November 2013

LE QUATTRO NOBILI VERITA’





LE QUATTRO NOBILI VERITA’





Geshe Gedun Tharchin
2002 Torino













***







Prologo
Attitudine all’Equanimità
Una verità: la Via di Mezzo
Le Quattro Nobili Verità
Motivazione: la Compassione
Prima Nobile Verità
Seconda Nobile Verità
Terza Nobile Verità
Quarta Nobile Verità
Vacuità, Nirvana e Illuminazione














****









Prologo


Desidero ringraziarvi per il vostro interesse verso lo studio e la pratica del Dharma e, in particolare, ringraziare gli organizzatori di questo incontro, è la seconda volta che sono, con voi, a Torino e mi rallegro nel constatare che avete dedizione alla pratica e auspico che ciò possa essere di beneficio ad altri.
E’ un bene che vi sia una comunità di Dharma che favorisca l’incontro di persone desiderose di conoscere, di discutere, di scambiarsi esperienze ed idee, di confrontare la quotidianità della vita con il Dharma, ed è positivo anche per me che ho così la possibilità di condividere con voi le mie opinioni ed esperienze, perché vivere insieme il significato del Dharma è un grande aiuto reciproco.
Si diviene consapevoli di come non esista un'unica realtà in grado di appagare tutti, ma come invece siano necessarie più condizioni per poter soddisfare le diversità che costituiscono la vita degli esseri senzienti.
Il Buddhismo tibetano è una delle condizioni che può portare nella vita interiore delle persone una soddisfazione vera e profonda.
Spesso incontro persone che, volendo essere felici, inseguono un obiettivo particolare, credendo che il suo possesso appagherà ogni loro desiderio, ma questo è falso, è un’illusione, un errore.
Ogni tradizione spirituale possiede tutti gli elementi e le capacità per aiutare l’individuo a realizzare pienamente la propria vita, indicando il corretto cammino verso la felicità, è però necessario che la persona ne comprenda intelligentemente gli insegnamenti e le qualità, integrandole nell’esistenza quotidiana.
E’ importante saper cogliere ciò che vi è di buono in ogni tradizione spirituale.
Che significa “buono” in questo contesto?
Buono è ciò che ognuno di noi riconosce essere consono al suo modo di essere, alle sua personalità, alla sua crescita; buono è tutto ciò che può essere colto e integrato nell’esistenza per il miglioramento della vita propria e altrui.
Sarebbe un grave errore giudicare le tradizioni religiose dicendo “questa è buona e quest’altra no”, oppure, “questo aspetto è positivo e questo è negativo”, perché non è possibile formulare un giudizio oggettivo.
Noi siamo in grado soltanto di esprimere un’opinione soggettiva, sapendo che cosa è buono per noi, quale tradizione ci è più vicina, quale percorso possiamo seguire per arricchire le qualità interiori.
Un determinato cibo, ad esempio, non è di per sé né buono né cattivo, questa informazione può essere rilevata soltanto se messa in relazione con l’individuo che lo mangia, si vedrà allora che lo stesso cibo risulterà essere ottimo per uno, pessimo per l’altro e indifferente per un terzo.






Attitudine all’ Equanimità


Nei confronti di ogni tradizione religiosa è fondamentale mantenere un’attitudine equilibrata ed equanime, priva di errati giudizi, così da poter valutare ciò che è meglio per noi e per il nostro cammino.
Attitudine all’equanimità significa comprendere che le cose non sono in sé né buone né cattive, ma diventano buone o cattive in rapporto al proprio modo di pensare, di recepire, alla propria personalità. Bisogna sviluppare l’attitudine a non giudicare come realtà oggettiva ciò che ci appare, ma imparare ad osservare ogni situazione in modo neutrale ed equanime.
Questo modo di percepire la realtà fa sì che possiamo restare calmi e indisturbati di fronte ad ogni evento esterno, avvenimento o accadimento, siamo in grado di mantenere quel distacco equilibrato che ci permette di controllare emozioni quali l’attaccamento o l’avversione e ci tiene lontani dal desiderio di afferrare, di essere indifferenti od ostili. Gli impulsi che ci inducono a provare repulsione per ciò che non ci piace o desiderio per ciò che ci piace, sono fortemente disturbanti e ci costringono nel circolo vizioso di disagio e infelicità del Samsara, senza lasciaci intravedere via d’uscita.
La realtà è neutra, né negativa né positiva, né bianca né nera, è dunque essenziale imparare a percepire gli avvenimenti in modo neutrale senza lasciarsi condizionare dalla comune tendenza di voler definire, inquadrare tutto ad ogni costo, assorbiti nella totale incapacità di comprendere e utilizzare la neutralità dei fenomeni.
Se imparassimo ad osservare le cose nella loro naturale realtà, neutrali, automaticamente non proveremmo più né attaccamento né repulsione, ed è indispensabile che un praticante sviluppi quest’attitudine all’equanimità.
Nell’insegnamento del Buddha sono indicati “quattro pensieri o attitudini incommensurabili”:
1. Compassione senza limite
2. Amorevole Gentilezza senza limite
3. Gioia senza limite
  1. Equanimità senza limite
L’equanimità, cioè il vedere la realtà così com’è, neutrale, è l’ultima in quanto risultato dell’esercizio all’attitudine nei primi tre pensieri, compassione, amorevole gentilezza, gioia e, in questo senso, l’equanimità può essere considerata la verità ultima, la verità definitiva. Per mia esperienza la pratica dell’equanimità è il metodo più efficace per allontanarsi dal Samsara, almeno per un poco.
A Roma, durante un incontro in cui si affrontava lo stesso argomento, le persone ad un certo punto erano completamente confuse perché non riuscivano a decidere quale direzione prendere, le cose apparivano nebulosamente positive o negative e una qualsiasi scelta appariva giustamente ingannevole. L’atteggiamento corretto sarebbe stato quello di vederle come neutrali, tutto è uguale.
Nel Buddhismo si dice che persino Samsara e Nirvana siano uguali, e allora sorge spontanea l’obiezione: “Come possono essere uguali se, per definizione, sono opposti?” A prima vista sembrerebbe così ma, all’attenta osservazione di chi ha maturato una profonda esperienza spirituale, Samsara e Nirvana appaiono nella loro realtà, sono uguali. Questa visione deve essere applicata sempre nella vita quotidiana, è necessario esercitarsi ed imparare ad osservare ogni fenomeno nella sua essenza uguale. Nel linguaggio filosofico Buddhista questo principio si chiama Madhyamaka, la Via di Mezzo, la Visione della Via di Mezzo.
Nel Buddhismo si enfatizza il valore della Meditazione sulla Via di Mezzo, che né rifiuta il Samsara, né afferra il Nirvana, perché percepisce le cose come neutre, né positive né negative. Mi sto soffermando questo concetto perché è assolutamente fondamentale.
Siamo qui riuniti per parlare delle “Quattro Nobili Verità” ma per affrontare questo principio dobbiamo prima analizzare altre due verità, e prima ancora l’unica verità: la Madhyamaka, la Verità della Via di Mezzo, perché nulla esiste di assolutamente negativo o di assolutamente positivo ma tutto esiste in modo neutro.
Percepire la realtà in modo neutro è la verità ultima.
Riuscite a vedere le cose in questo modo? ad abbandonare gli opposti?
Domanda: E’ difficile, di fronte alle realtà orribili che ci presenta il mondo, non dividere in negativo o positivo, come possiamo considerare neutre azioni tanto distruttive?
Lama: In questo caso è bene procedere all’ analisi profonda delle due verità; la prima è la verità convenzionale, o relativa, e la seconda la verità ultima, definitiva, o verità assoluta.
Ogni realtà esistente presenta questi due aspetti. Da un punto di vista relativo la guerra è negativa, ma poniamoci la domanda: “è negativa in assoluto?” anche la guerra ha delle qualità. La rabbia è considerata negativa, ma la collera è assolutamente negativa? A questi assoluti possiamo rispondere: “No”.
Dobbiamo comprendere profondamente la realtà delle cose; la guerra è transitoria, non esiste in maniera assoluta, finisce, cambia; questa qualità o caratteristica della guerra, la sua transitorietà, è positiva, quindi non possiamo dire che in assoluto la guerra sia negativa.
Tutti abbiamo problemi e spesso siamo tristi, depressi, ma il saper vedere le qualità positive dei problemi e la loro reale natura, cioè che sono transitori e impermanenti, ci ridona fiducia rallegrandoci.
Secondo un punto di vista convenzionale, relativo, senz’altro possiamo dire che un evento è negativo, ma dobbiamo anche andare oltre e valutare la sua verità assoluta e allora vediamo che, in assoluto, non è negativo. Persino di fronte a tragedie come la guerra dobbiamo saper mantenere la nostra capacità di osservare la realtà così com’è, in modo neutrale.
Possiamo cambiare quello che succede nel mondo? No
Possiamo affermare che questa o quella guerra sono state causate da queste o quelle persone? No, perché quanto succede nel mondo, anche le guerre, è la risultanza della connessione ed evoluzione di diverse condizioni, è una realtà che con i nostri sforzi non possiamo cambiare.
Ad esempio nell’attuale questione “Israeliana – Palestinese” un Palestinese uccide in un attentato suicida 1, 5, 10 persone, ciò è tragico e crea molta sofferenza, gli israeliani rispondono con una rappresaglia pesante che produce altra sofferenza. Oppure, un altro caso un aereo precipita e muoiono 150 persone. Un terremoto tremendo devasta un’intera regione ….a chi diamo la colpa? Quando qualcuno muore a causa di un attentato si attribuisce in modo semplicistico la colpa all’attentatore materiale, ma di fronte ad eventi naturali chi si può incolpare? Nessuno. Questi esempi ci mostrano che, in ogni realtà non esiste un vero colpevole, la percezione errata è nell’osservatore confuso e agitato che non vede i colori e le sfumature, sa distinguere solamente il bianco o il nero.
Anche le guerre sono un evento naturale in quanto accadono a causa del concatenarsi di più condizioni che producono questo effetto.
Quindi vedete quale immensa differenza c’è tra la realtà nella sua essenza e la realtà manipolata dalla percezione dei vari soggetti.
Domanda: Allora, se nella Via di Mezzo una persona comprende questi due piani, assoluto e relativo e li applica alla realtà esterna, come si pone di fronte alla guerra, non interviene? Io ho sempre avuto questa difficoltà con il Buddhismo, mi è difficile equilibrare i due aspetti, sapere che esiste un altro modo di percepire la realtà, diversa da come appare; e poi c’è il karma e l’impegno affinché queste cose non avvengano. Cosa devo fare, stare ferma e osservare? La via di mezzo significa non partecipare all’evento e non prendere posizione? Mi riesce veramente difficile da accettare, perché oggi sono migliaia le situazioni che ci sollecitano a prendere posizione. La via di mezzo ci suggerisce di starcene buoni, dolci, e tranquilli perché c’è un altro modo di vedere la realtà? oppure ci invita a partecipare all’evento in qualche modo? Sto pensando a Gino Strada e ad altre persone, a due monache tibetane attualmente in Italia, intervistate da Amnesty International hanno testimoniato le tremende torture subite, non odiano i loro aguzzini, ma si danno molto da fare per cambiare una situazione drammatica, tengono conferenze, danno una testimonianza. Vorrei sapere: da questo punto di vista la Via di mezzo che cos’è?
Lama: E’ giusta la tua inquietudine, ma esaminiamo ad esempio un problema reale attuale, il conflitto tra Palestinesi e Israeliani; nel mio gruppo di meditazione ci sono un figlio e un padre, il primo è schierato con i palestinesi e il secondo con gli israeliani entrambi sono così convinti nelle loro posizioni che litigano continuamente e non si rivolgono più la parola. Una situazione assurda e senza senso che ha prodotto unicamente una seria frattura nella famiglia, fondata su informazioni già filtrate dai mezzi di comunicazione, giornali e televisione, e quindi non di prima mano. E’ davvero sciocco creare emozioni così disturbanti, che oltrettutto non sono certamente di aiuto né ai Palestinesi né agli Israeliani. Questa non e la via di mezzo.
La via di mezzo si ha quando, mantenendo una visione neutrale del conflitto tra le parti, si interviene cercando di influenzare positivamente e di aiutare entrambi. Le due monache tibetane che testimoniano gli orrori subiti agiscono correttamente parlandone ad Amnesty International, una organizzazione che ha il compito di far conoscere queste situazioni al mondo intero. Ma, guardando ancora più in profondità, possiamo vedere che anche la drammatica situazione descritta non è in assoluto negativa, e in questo senso dobbiamo mantenere la neutralità, noi non possiamo sapere come nel profondo essa abbia influito, magari positivamente, nella vita delle interessate. Non si può trovare un assoluto negativo, quindi in questo caso il punto di vista della via di mezzo è quello di non lasciarsi travolgere emotivamente dal dramma vissuto dalle due monache così come da tutto un popolo, ma saper andare al di là di ogni forte coinvolgimento emotivo e comprendere che la realtà assoluta è più completa, formata da tanti aspetti non solo negativi e non solo positivi. Questa è la via di mezzo.
Un proverbio tibetano dice “se guardate una persona che piange vi mettete a piangere anche voi” indicando l’aspetto emotivo, la natura delle emozioni, ma le emozioni non devono essere assecondate, è pericolosissimo farsene condizionare. Spesso gli altri tentano di influenzarci, di controllarci, attraverso le emozioni, e ciò è l’esatto opposto alla via di mezzo. La via di mezzo sa riconoscere la pericolosità delle emozioni, fondamentalmente basate sull’illusione.
Domanda: Però anche l’amore è un’emozione
Lama: Questa è un’ottima domanda. Nel Buddhismo con il termine amore intendiamo la compassione, il pensiero della Bodhicitta, in tibetano “Nying-Je”, rivolto a tutti gli esseri viventi senza discriminazione, con equanimità. Un buon esempio di questo amore è trattare ogni essere vivente come se fosse il proprio figlio, con pura equanimità e autentica, genuina compassione. Una compassione parziale, destinata solo ad alcune persone non è vera compassione, è solo espressione di uno stato emotivo. La vera compassione è la via di mezzo.
Questo concetto è fondamentale e deve essere compreso chiaramente perché tutte le difficoltà, i problemi della vita quotidiana derivano proprio dalla mancanza di chiarezza e noi siamo qui apposta per trovare soluzioni alla confusione quotidiana, altrimenti rischiamo di parlare molto, di trastullarci con tanta filosofia che poi nel concreto non ci potrà servire a nulla se lasciata su un piano puramente teorico e superficiale.
Domanda: Credo ci sia un altro fattore che noi occidentali non consideriamo mai e che invece è importantissimo, ed è quello della nostra responsabilità personale. In ogni realtà mondiale, nelle guerre e in tutte le situazioni frutto di un concatenarsi di fattori, noi tutti siamo responsabili, anche nel conflitto tra Israele e Palestina nessuno è innocente.
Lama: Si, oggi si tende a pensare che la nostra responsabilità sia limitata alla necessità di prendere una posizione e che solo così sia possibile giungere ad una soluzione, in realtà proprio con questo atteggiamento si aggravano i problemi e si contribuisce a creare ed aumentare la sofferenza.
Domanda: Questo è dunque un altro elemento determinato dall’interdipendenza delle cause?
Lama: Naturalmente, poiché esiste l’interdipendenza esistono le soluzioni ai problemi, e poiché esistono l’interdipendenza e le soluzioni possibili ad ogni problema, ciascuno può influire sulla concatenazione nella ricerca delle soluzioni stesse. Ma dov’è realmente il problema per noi?
Di fronte a un problema ci sentiamo responsabili e dobbiamo trovare una soluzione, e fin qui tutto va bene, ma immediatamente nasce l’errore nella valutazione, nel giudizio, che ci induce a prendere posizione considerando la verità relativa come se fosse assoluta. Tale attitudine errata aggrava la situazione e ci rende ancora più confusi, allontanandoci dall’insegnamento del Buddha Shakyamuni che, invece, ha indicato chiaramente che per trovare soluzioni occorre mantenere il distacco emotivo, la neutralità in cui, mancando il giudizio, non c’è né positivo né negativo assoluti, non c’è prendere posizione, c’è davvero la possibilità di trovare la soluzione.
Domanda: Quindi, se non ho capito male, la “discriminazione” è una qualità che bisogna sviluppare per vedere i fenomeni nella loro interdipendenza, ma poi è necessario non lasciarsi intrappolare nella tentazione di esprimere giudizio scambiando, sotto una forte spinta emotiva, la realtà relativa per quella assoluta, e quindi creando ulteriori problemi?
Lama: Si, sono d’accordo.
Domanda: Una persona che ha sbagliato ad affrontare una situazione problematica perché vi è entrata con forte giudizio provocando solo guai, si accorge dell’errore e tenta con ogni mezzo di cambiare atteggiamento senza però riuscirvi perché ormai ha perso ogni credibilità, come può rimediare?
Lama: Meditazione, solo con la meditazione. Prima si medita per cambiare la situazione e poi nell’equanimità. Non si possono soddisfare tutti, ci sarà sempre qualcuno scontento, ciò che possiamo e dobbiamo fare è mantenere sempre un atteggiamento equanime.
Domanda: Nel caso in cui noi stessi siamo gli attori di una controversia in una divergenza di opinioni e le due volontà sono in contrasto, come dobbiamo comportarci? difendere la nostra opinione per il nostro bene o lasciare prevalere l’opinione dell’altro per il suo bene?
Lama: E’ molto semplice: fare il bene degli altri è il miglior modo per fare il bene a se stessi, e si ottiene un doppio beneficio, quello di beneficare gli altri e se stessi. Quando si vuole imporre la propria opinione si sbaglia comunque, se invece si rispetta l’opinione degli altri si rispetta anche la propria e ciò porta il massimo beneficio.
Perché siamo nati nell’esistenza umana? Per portare beneficio agli altri, è la naturale condizione dell’essere umano, e se si vien meno alla naturale capacità di fare il bene degli altri allora si arreca danno anche a se stessi perché si agisce in modo contrario alla natura stessa dell’esistenza umana.
Domanda: Forse questa è la causa della guerra tra Israeliani e Palestinesi?
Lama: Forse, ma le cause sono misteriose, insondabili, stanno al di là della realtà percepita, relativa, sono il risultato di cause e condizioni che noi stessi abbiamo posto e che possono essere molto diverse da come le vediamo. Nella vita di ognuno si presentano spesso situazioni complesse e bisogna imparare ad osservare gli eventi chiedendosi sempre “quella cosa era davvero così? È vera o no?” è necessario sforzarsi di comprendere una realtà più profonda, al di là degli eventi stessi, perché le apparenze esteriori sono le cause principali dell’illusione.
Ogni giorno al telegiornale vediamo scene terribili di guerra, ne piangiamo, diventiamo tristi e depressi, e attrarre la nostra attenzione emotiva è il ruolo dell’informazione, ma se osserviamo più attentamente quelle immagini, ad esempio i disordini in Nepal, vediamo che sono sempre riproposte le stesse scene per giorni e giorni, anche a distanza di mesi. Se cerchiamo in internet notizie sul conflitto tra India e Pakistan vediamo che la BBC ne parla esattamente come dieci anni fa riproponendo le stesse fotografie. Dunque qualcosa non va, l’opinione che noi possiamo ricavare da questo tipo di informazione è totalmente sbagliata, manipolata, indotta, non reale, è totalmente illusoria.
Quella vecchia immagine, sempre la stessa, crea immediatamente un’errata percezione, perché noi pensiamo che essa sia riferita al presente, ma in realtà non è così e il problema nasce dall’attaccamento all’immagine che crea un’illusione. Per questo è essenziale, fondamentale, analizzare sempre la realtà sulla base delle due verità: senza negare la realtà convenzionale imparare a vedere la realtà ultima.
Io ricordo sempre ai miei amici che con grandissimo rispetto verso la fede cristiana è possibile praticare il Buddhismo, ma senza tale rispetto in Italia ciò sarebbe impossibile perché implicherebbe la negazione della verità degli italiani di essere nati in una cultura integrata nella formazione cattolica. Se si nega la cultura delle proprie radici, si entra in contraddizione con la propria natura.
Vi porto un esempio: il matrimonio Buddhista non esiste, non è mai esistito, e allora perché chi è nato in Italia e secondo la sua naturale cultura desidera un matrimonio religioso, anche se pratica il Buddhismo, non si sposa tranquillamente nella chiesa cattolica nel rispetto delle sue regole, invece di crearsi complicazioni e illusioni nella ricerca di un Lama disposto a celebrare un matrimonio con un rito inesistente? Situazioni come questa sono davvero sciocche e nascono dall’incapacità di osservare le due verità, quella relativa e quella assoluta, verità che non solo non sono contraddittorie tra loro ma, al contrario, complementari.
Ora meditiamo insieme per qualche minuto, vi ricordo che in generale meditazione significa mantenere l’unione del corpo con la mente tramite la respirazione. Un primo passo meditativo è quello di respirare consapevolmente, mantenere la consapevolezza del respiro, sentirne il fluire naturale, poi ci si siede in modo comodo, confortevole e rilassato, avendo l’avvertenza di mantenere la colonna vertebrale eretta. La schiena dritta è importante mentre gli altri aspetti della postura sono secondari.




Una Verità: “La Via di Mezzo”


La Via di Mezzo, “Madhyamaka”, può essere intesa anche come definizione di Dharma; in termini buddhisti significa un modo di vita, non è una realtà da relegare soltanto nella spiritualità, al contrario permea ogni aspetto della vita, giorno dopo giorno.
Con unavisione ampia si può percepire tutto come “La Via di Mezzo” e questa percezione è il Dharma. Anche il nirvana o stato di Buddhità è via di mezzo; la compassione, la bodhicitta, la rinuncia, la saggezza, sono tutti aspetti della via di mezzo, sono Dharma.
Il concetto di Dharma è più complesso, mentre è più facile comprendere la Via di mezzo, dobbiamo imparare a focalizzarci nel punto centrale rimanendo fermi nel mezzo, ci troveremo così in una posizione infallibile, in ciò che ha insegnato il Buddha.
Nella filosofia Buddhista, non c’è coercizione, non esiste il dovere di praticare il Buddhismo, il dovere di mettere in pratica il Dharma, ma solo la possibilità, offerta a tutti, di scegliere e praticare, o meno, questo percorso. Ognuno è assolutamente libero di intraprendere la via a lui più consona, di valutare ciò che ritiene maggiormente rispondente al suo modo di essere. Chi pensa che il Buddhismo gli sia di beneficio lo pratica, in caso contrario no, nessuno può obbligarlo.
Questa è una delle vie, uno dei modi per raggiungere la felicità, la pace, ma non è l’unica strada. Persino all’interno del Buddhismo ci sono tre percorsi, Hinayana, Mahayana, Vajrayana, che volendo esemplificare potrebbero essere così rappresentati:
Hinayana è il piccolo mezzo, potrebbe essere paragonabile alla bicicletta;
Mahayana è un mezzo più potente, come ad esempio il treno;
Vajrayana è ancora più potente, diciamo l’aereo.
La scelta di quale mezzo utilizzare dipende da più fattori: in primo luogo dalle necessità di ognuno, poi dalle capacità, dalle possibilità economiche, dalla disponibilità a correre rischi. Tutti i tre mezzi sono idonei. Certamente l’aereo è più veloce, ma non è alla portata di tutti, possono esserci impedimenti di vario tipo, malattie, problemi economici, e oltretutto se l’aereo precipita si muore non arrivando a destinazione. Con il treno si viaggia abbastanza velocemente, ma sussistono sempre, anche se in forma minore, i problemi dell’aereo e può verificarsi un deragliamento con gravi conseguenze. Con la bicicletta invece, si impiega più tempo, ma non c’è il costo del biglietto e se si cade, pur ammaccati, ci si rialza e si è in grado di proseguire raggiungendo la meta. Ognuno deve valutare attentamente i rischi e i benefici del viaggio e scegliere il mezzo più consono alle sue possibilità ed esigenze.
Nella vita spirituale accade esattamente la stessa cosa, c’è un prezzo da pagare, quale? Il prezzo è la dedizione, è necessario conoscere quanta dedizione si è disposti ad impegnare, quali rischi si è pronti a correre. Questo è l’insegnamento del Buddha.
Buddha non ha mai detto “quello è il sentiero migliore, lo dovete seguire”, ha raccomandato invece: “Ci sono diversi sentieri, ciascuno scelga quello che corrisponde alle sue esigenze. Il sentiero migliore è il più adatto ad ognuno, è quello che ognuno sceglie per sé”.
Si commette un grossolano errore pensando: “Vajrayana è la via migliore, è il massimo, Mahayana è una buona via, va bene, Hinayana è una via inferiore”. Il Buddha ha insegnato che tutti i Dharma sono uguali, non c’è un Dharma superiore e uno inferiore, sono tutti ugualmente buoni perché hanno in sé la capacità di condurre allo stesso risultato.
Cristianesimo, Buddhismo, Islamismo e tutte le religioni sono ugualmente valide, è assolutamente sorretto pensare. “questa è migliore di quella, una è buona e l’altra no”, tutte indistintamente portano alla realizzazione dello stesso obiettivo.
E’ importante mantenere una visione pluralista e aperta, rispettare profondamente ogni percorso spirituale e seguire seriamente quello a noi più consono. Qualsiasi sentiero decidiamo di intraprendere incontreremo difficoltà e dovremo dedicarvi un profondo impegno personale.
Scegliere il proprio sentiero non implica affatto la negazione e l’esclusione degli altri, ma significa scegliere quello più adatto a sé nel rispetto di tutti gli altri. Questo è il modo corretto di percorrere la propria via spirituale.




Le Quattro Nobili Verità


Nel Buddhismo, qualsiasi sentiero si scelga, Hinayana, Mahayana o Vajrayana, lo si può praticare solo nelle quattro nobili verità, il primo insegnamento del Buddha Shakyamuni dopo la sua illuminazione, e da esse nasce il nome del Dharma. Comprendere le quattro nobili verità significa comprendere l’intero sentiero buddhista, mentre al di fuor di esse è impossibile qualsiasi approccio ai tre sentieri Hinayana, Mahayana, Vajrayana.
In nessuno dei tre “Yana” o mezzi spirituali, troviamo insegnamenti che non siano inclusi nelle quattro nobili verità, solo al loro interno possiamo praticare Hinayana, Mahayana e Vajrayana. Dunque, quali sono le quattro nobili verità?
1. La verità della Sofferenza
2. La verità delle Cause della Sofferenza
3. La verità della Cessazione della Sofferenza
4. La verità del Sentiero che porta alla Cessazione delle Cause della Sofferenza.
Queste quattro caratteristiche del Dharma conducono alla liberazione dal Samsara.
Nella tradizione Buddhista si ricorre spesso ad una analogia: Il Buddha Shakyamuni è il medico, il Dharma è la medicina, il praticante spirituale è il paziente. La conoscenza delle quattro nobili verità è la medicina necessaria alla cura di noi stessi e degli altri.
La prima tappa consiste nel riconoscere la malattia, la verità della sofferenza; è necessario individuare le cause della malattia, le cause della sofferenza, così da poter affrontare la cura che le eliminerà.
La malattia può essere prodotta da più fattori, ad esempio, dalla droga, dal tabacco, dall’alcool… e, per guarire, per ottenere lo stato della liberazione, si deve essere consapevoli della necessità della loro eliminazione che può avvenire solo attraverso la comprensione dei mezzi da utilizzare e di quale sentiero percorrere per raggiungerne lo scopo.
Tutti i quattro aspetti devono essere conosciuti e praticati al fine di poter guarire se stessi e gli altri.
Il termine “sofferenza” in sanscrito è Dukkha, ma la traduzione che se ne dà nelle lingue occidentali non è proprio esatta.
Dukkha ha tre livelli:
  • Il primo livello, più superficiale, è facilmente individuabile, ad esempio un mal di testa, di stomaco, un raffreddore, sofferenza che si può curare con medicine, senza dover ricorrere alla meditazione;
  • Il secondo livello è un po’ più profondo e sottile e riguarda ciò che a prima vista appare appagante, ad esempio fumare, bere alcool, assumere stupefacenti, tutti elementi che ci appaiono gratificanti, apportatori di felicità, ma sono così dolci che poi procurano grandi carie ai denti. Il senso temporaneo e immediato di godimento è infinitamente inferiore alla sofferenza conseguente. Questa “gioia” è la natura di Dukkha, più difficile da riconoscere.

Del terzo livello parleremo più avanti, per oggi terminiamo qui e concludiamo la giornata meditando e recitando insieme la preghiera di dedica dei meriti per il benessere di tutti gli esseri senzienti.



Motivazione: La Compassione


La radice della pratica del Dharma è la motivazione. Il Dharma dipende dall’intenzione che guida la nostra azione; la motivazione è determinante nella possibilità di trasformazione di ogni azione della vita in Dharma.
Alla domanda relativa a ciò che è motivazione del Dharma e ciò che non lo è la risposta è davvero semplice: ogni azione altruistica è una motivazione dharmica, mentre ogni attitudine egoistica non lo è.
La mente altruistica è articolata su tre livelli:
1. il primo è la Compassione e la Gentilezza Amorevole;
2. il secondo è la Compassione Illimitata e la Gentilezza Amorevole Illimitata;
3. il terzo è la Grande Compassione e la Grande Gentilezza Amorevole.
Tre livelli di mente altruistica che ci portano ad azioni positive.
Il primo livello, <della compassione e della gentilezza amorevole>, è innato in ogni essere senziente, è parte naturale e fonte di speranza e incoraggiamento. Tutti, anche i più piccoli, possiedono in sé questa qualità naturale, è dunque doveroso avere sempre grande rispetto, senza distinzioni, per ogni essere. E’ importante essere consapevoli dell’esistenza di questa qualità in noi perché solo avendone coscienza siamo in grado di scegliere se utilizzarla o meno, essa esiste in noi comunque ed è essenziale riconoscerla.
Se ignoriamo la presenza in noi della naturale capacità di compassione e di gentilezza amorevole e non la sviluppiamo, ci arrechiamo un grave danno perché questa qualità è la fonte della nostra felicità, nel presente e nel futuro.
Quando ci sentiamo felici soffermiamoci ad osservare se abbiamo consapevolezza della presenza della compassione e, in caso affermativo, siamo in pace con noi stessi, completamente rilassati, perché è necessario alcuno sforzo per ottenerla essa è insita nella natura di ognuno, è il nostro tesoro più vero, e possiamo rivolgerla a chiunque.
Il secondo livello, <della compassione illimitata e della gentilezza amorevole illimitata>, richiede invece uno sforzo, un impegno da parte nostra. In essa sono inclusi anche i nostri nemici, accoglie tutti gli esseri che possiamo percepire e questo è anche il suo limite, perché coloro di cui non abbiamo conoscenza ne sono esclusi. E’ realmente una compassione illimitata, con un limite, perché non è ancora assoluta, non è ancora la grande compassione.
Il terzo livello, <della grande compassione>, include tutti gli esseri, senza eccezioni, ed è causa immediata di Bodhicitta, risveglia automaticamente il Bodhicitta.
La consapevolezza dei tre livelli di compassione permette che essi siano trasfusi nella quotidianità della vita.
La compassione si distingue ancora in tre categorie:
1. la compassione rivolta agli esseri senzienti;
2. la compassione rivolta alla natura impermanente degli esseri senzienti;
  1. la compassione rivolta alla natura vuota degli esseri senzienti.
I tre livelli di compassione visti prima, “naturale, illimitata e grande”, appartengono alla prima categoria, quella rivolta agli esseri senzienti.
La seconda categoria, la compassione rivolta alla natura impermanente degli esseri senzienti, ci mostra chiaramente la natura impermanente degli esseri e scende più in profondità.
La terza categoria, la compassione che ci rende consapevoli della natura vuota degli esseri senzienti, raggiunge la profondità massima.
Questo potrebbe già di per sé essere un percorso completo che conduce all’illuminazione, i passi del sentiero sono la meditazione, la pratica e la visualizzare prima della compassione innata, poi della compassione illimitata rivolta a una, due, cento, mille o più persone, e, infine, quando tale capacità è completamente sviluppata , si può affrontare l’ultimo passaggio nella contemplazione e pratica della grande compassione.
Il cammino nella compassione che ci rende consapevoli della natura impermanente degli esseri senzienti è un punto davvero fondamentale, perché se nutriamo compassione nei loro confronti ma li vediamo come esseri permanenti, la nostra compassione non è pura né completa, solo attraverso la consapevolezza della loro impermanenza essa sarà autentica.
Infine, per raggiungere la completezza e la purezza della compassione dobbiamo sviluppare la consapevolezza della natura vuota degli esseri. La tradizione Buddhista distingue tra compassione contaminata e compassione incontaminata, e solo la compassione consapevole della natura vuota degli esseri è incontaminata.
La compassione incontaminata può essere il nodo che unisce metodo e saggezza ed è necessario praticarla per raggiungere l’illuminazione.
Il concetto di Compassione nel Buddhismo non è affatto semplice, è articolato in molti aspetti e rappresenta di per sé un sentiero che può essere praticato senza bisogno di altro. Compassione non significa solo essere gentili e amorevoli, ma in essa è compresa la saggezza, la consapevolezza dell’impermanenza e della natura vuota degli esseri.
Nel Vajrayana tutti i rituali e le pratiche iniziano con la consapevolezza della Vacuità. La compassione emerge all’interno della Vacuità, la compassione emerge all’interno della realtà impermanente.
Se siamo persone sensibili, gentili e compassionevoli, ma osserviamo noi stessi e gli altri come esseri permanenti, la nostra compassione non è pura e può ingenerare grande confusione fondata su una visione erronea della realtà, sarebbe come voler prendere un treno diretto a Roma e salire su un convoglio che va nella direzione opposta, a Milano.
E’ molto importante, fondamentale, comprendere bene e con grande chiarezza come la realizzazione della compassione pura e completa passi attraverso la consapevolezza della natura impermanente e vacua della realtà.
Parliamo spesso di compassione, ognuno ha la sua idea in proposito, ma è indispensabile abbandonare ogni preconcetto e conoscere in modo approfondito le sue categorie e i suoi livelli in modo da poterla praticare realmente sviluppandola completamente.
Per conoscere la motivazione delle nostre azioni è necessario percorrere, uno dopo l’altro, gli stadi della compassione così da acquisire la consapevolezza e il criterio essenziali alla corretta scelta di ogni atto nel Dharma. Diviene così possibile ad esempio verificare che, rispetto ad una specifica situazione, ne abbiamo una visione distorta perché la percepiamo come permanente e dunque sappiamo quali strumenti attivare per correggere l’errore, evitando ulteriori complicazioni e confusione.




Prima Nobile Verità


Ieri abbiamo affrontato le quattro nobili verità approfondendo i primi due aspetti della prima nobile verità (Dukkha) suddivisa in tre livelli:
1. Il primo è la sofferenza della sofferenza;
2. il secondo è la sofferenza del cambiamento;
  1. il terzo è la sofferenza del condizionamento.
Il primo livello, la sofferenza della sofferenza, è facilmente riconoscibile (il mal di testa, il raffreddore, ecc). Dukkha si traduce anche con i termini “dolore” o “non soddisfazione”. La non soddisfazione è presente in tutti i tre i livelli.
Il secondo livello è più difficilmente riconoscibile perché ad un primo impatto si presenta come temporanea felicità.
Lama: Tu che hai praticato per una settimana il “chülen” (una forma di digiuno) come consideri questa esperienza? in che categoria di Dukkha la collocheresti, sofferenza della sofferenza, sofferenza del cambiamento o sofferenza del condizionamento?
Risposta: Non saprei….in nessuna credo, perché non c’era sofferenza.
Lama: Non c’era Dukkha? Allora era Nirvana, no?
Risposta: Ma no, non certamente Nirvana, forse all’inizio c’era un po’ di sofferenza, ma poi è subentrata una sensazione di benessere, un assoluto distacco dal cibo. Forse si potrebbe dire che il primo giorno era sofferenza di primo livello, il secondo giorno sofferenza di secondo livello, e il terzo giorno sofferenza di terzo livello, ma sinceramente io mi sentivo in uno stato di non sofferenza.
Lama: E’ difficile, molto difficile definire queste situazioni, specificare a quale categoria possa appartenere questo tipo di esperienza, forse potremmo catalogarla come sofferenza del condizionamento, o sofferenza del cambiamento.
Ecco perché affrontando la prima nobile verità, della sofferenza, Dukkha, non dobbiamo pensare in termini limitativi, riferendoci ad esempio solo al dolore del corpo, ma dobbiamo pensare ad ogni risultato maturato attraverso il Karma e attraverso le emozioni conflittuali. Solo in una condizione non causata né dal karma, né dalle emozioni conflittuali possiamo dire di essere in una realtà al di fuori della sofferenza, altrimenti qualsiasi circostanza frutto di karma e di emozioni conflittuali appartiene alla prima nobile verità, anche se a volte è veramente difficile distinguere il livello attinente alle diverse situazioni.
Il Dukkha è parte dell’esistenza e per questo il Buddha disse che la prima Nobile Verità si realizza e ha scelto di mostrarci il Dharma, il metodo per eliminare la sofferenza.
Sono moltissime le situazioni della nostra vita che non riconosciamo come sofferenza e che invece lo sono; ci sono momenti in cui ci sentiamo completamente felici, ma in realtà non è così, sono sofferenza, anche se è difficile individuarla immediatamente. Il Dharma ci offre il metodo per eliminare il livello più sottile di sofferenza, il terzo livello: la sofferenza del condizionamento.
Ogni elemento che causa altra sofferenza è chiamato sofferenza del condizionamento, per questo il nostro karma e le emozioni conflittuali appartengono a questa categoria. Anche un apparente stato di felicità è sofferenza.
Domanda: E’ sofferenza in quanto ogni felicità è impermanente, destinata a finire? E’ difficile comprendere questo concetto, perché nel momento in cui io vivo la felicità sono davvero felice, o c’è altro?
Lama: Si, in parte il motivo è l’impermanenza, ma non solo, anche quando meditiamo e ci troviamo in uno stato mentale molto gioioso, siamo nella sofferenza.
Domanda: Allora non c’è scampo alla sofferenza?
Lama: In questo mondo non c’è; al tempo di Buddha vi erano maggiori possibilità, più porte aperte, oggi è tutto complicato e arduo perché ci troviamo in un periodo di degenerazione. Una volta a Torino era facile trovare lavoro alla FIAT, adesso è difficilissimo, eppure la FIAT c’è ancora quindi, teoricamente, le possibilità sussistono. Questa è impermanenza. L’impero romano, quello britannico, apparentemente invincibili, hanno mostrato chiaramente la loro impermanenza, così come il potere tedesco del terzo reich. Anche il potere più radicato o le fortezze inespugnabili sono impermanenti, pensate al Pentagono, indistruttibile dicevano, eppure i fatti hanno dimostrato il contrario.
Tutto è transitorio, impermanente. Il terzo livello del Dukkha è molto sottile; il nome che gli viene dato “sofferenza del condizionamento” deriva dai cinque aggregati che costituiscono il nostro stato di esseri viventi, il nostro corpo e le sensazioni del nostro corpo. A questo livello di sofferenza non c’è scampo.
Come soluzione potremmo sviluppare il “corpo di arcobaleno”. Questa, che potrebbe apparire a prima vista come una descrizione del tutto fantastica, è invece concretamente reale. Attraverso la pratica e una meditazione molto profonda si può trasformare il proprio corpo di sofferenza in un “corpo di arcobaleno” o “corpo di chiara luce”.
Un’altra soluzione è data dal non attaccamento al nostro corpo; se non abbiamo alcun attaccamento al corpo, né ad alcun oggetto esterno, nulla ci può causare sofferenza.
Queste sono alcune vie che il Buddhismo indica per uscire dalla sofferenza.
Esiste un’ulteriore possibilità che consiste nell’usare il proprio corpo per portare beneficio agli altri; dedicare completamente il proprio corpo per il bene di tutti gli esseri.
I tre mezzi che ci permettono di uscire dal Dukkha:
1. Hinayana;
2. Mahayana;
  1. Vajrayana.
L’attitudine del sentiero Hinayana consiste nel non avere attaccamento al proprio corpo concentrandosi sulla pratica meditativa, privi di ogni preoccupazione per il proprio corpo e attaccamento ad esso.
Nel sentiero Mahayana si dedica completamente il proprio corpo agli altri; prendendolo in considerazione, ma non in modo egoistico, bensì con la motivazione profonda di essere di beneficio agli altri esseri. Ad esempio in una preghiera della pratica del Bodhisattva ci si auspica di essere come pesci in modo da poter sfamare gli altri, dedicandosi completamente a ogni essere. Questa è la pratica del Bodhisattva.
Domanda: Ieri hai detto che siamo nati per essere di beneficio agli altri, vorrei capire meglio cosa intendevi esattamente. Gli esseri senzienti sono nati tutti con questo scopo, e poi nel cammino ne perdono la consapevolezza?
Lama: Si, siamo nati con questo scopo che è inscindibilmente legato all’obiettivo ultimo di raggiungere l’illuminazione. L’essere nati in una condizione umana ci dà le maggiori possibilità per ottenere l’illuminazione che, a sua volta, è realizzabile solo attraverso una mente altruistica. Per questo l’essere nati nella condizione umana significa dedicarsi agli altri, essere loro di beneficio, praticare il Dharma, per questo ieri ho detto: noi siamo nati per servire gli altri.
Il Bodhisattva ha un cuore grande che offre completamente agli esseri senzienti e questa è una via per uscire dalla sofferenza. Il nostro corpo è sofferenza, ma percorrendo questo sentiero abbiamo la possibilità di uscire dal terzo livello di sofferenza.
Un’altra via d’uscita è offerta dal Vajrayana, che ci porta alla trasformazione del corpo di sofferenza in un corpo di arcobaleno.
Sono tre sentieri distinti, affatto in contraddizione tra loro, sono stadi di un unico percorso: per poter dedicare completamente il proprio corpo agli altri è necessario non avere alcun attaccamento ad esso e dunque, con il distacco e la sua offerta agli altri si realizza il Bodhicitta. Il dedicare completamente il proprio corpo a tutti gli esseri con una pura mente altruistica porta alla trasformazione del corpo di sofferenza in un corpo di arcobaleno.
Perché il corpo di arcobaleno è buono? Perché con il corpo fisico si possono servire gli esseri in modo limitato, secondo i limiti della materia, ma per poter essere di beneficio illimitatamente a tutti gli esseri senzienti, il corpo fisico deve trasformarsi in corpo di arcobaleno, corpo di chiara luce.
Nel buddhismo sono presenti i quattro Kaya, i quattro corpi del Buddha:
1. Sambhogakaya
2. Nirmanakaya
3. Dharmakaya
  1. Svabhavikakaya
Con i quattro corpi del Buddha è possibile porsi al servizio di tutti gli esseri senzienti. Attraverso la pratica della consapevolezza e la realizzazione della Vacuità si può trasformare il proprio corpo in un corpo di arcobaleno, raggiungendo l’illuminazione in questa stessa vita.
Ma anche se non otteniamo l’illuminazione in questa vita possiamo dedicare, come Bodhisattva, il nostro corpo agli altri. E se non riusciamo a raggiungere questo livello di pura mente altruistica, possiamo comunque sviluppare l’attitudine di non attaccamento al corpo concentrandoci nella pratica spirituale. Queste sono le tre vie per uscire dalla sofferenza, anche dal terzo livello di Dukkha, la sofferenza del condizionamento, che pare così inscindibile dalla nostra realtà fisica.
Non si deve mai dimenticare che:
  • quando meditiamo e stiamo particolarmente bene, non è felicità;
  • quando ci sentiamo in pace, rilassati e sereni, non è felicità;
  • quando abbiamo la sensazione di essere molto forti, sani e potenti, non è felicità.
Si tratta di semplici emozioni e quindi cause di sofferenza, da cui possiamo essere liberati soltanto dal Dharma. Buddha ha avuto bisogno di sei anni per realizzare le quattro nobili verità e ciò dimostra come il cammino verso tale obiettivo non sia assolutamente facile.
Meditazione non è avvertire emozioni, essere gratificati, sentirsi bene, meditazione è l’osservazione della realtà al fine di uscire dallo stato di sofferenza. Riferendoci al terzo livello della sofferenza, la sofferenza del condizionamento, potremmo semplicemente dire che: “questo tipo di sofferenza è il nostro corpo”.
Ciò non significa che il nostro corpo sia negativo, perché la prima nobile verità, la sofferenza, non è soltanto negativa e ha in sé altre qualità positive.
Se non ci fosse la prima nobile verità non potrebbero nemmeno esserci la seconda, la terza e la quarta.
Se non ci fosse la prima nobile verità non potrebbero esserci nemmeno il sentiero, la realizzazione, l’illuminazione.
La prima nobile verità è tanto importante quanto lo è l’illuminazione.
La sofferenza deve essere osservata da diverse prospettive, non da una sola; se ad esempio abbiamo dolore in una parte del corpo e fissiamo questa sofferenza con un’unica ottica, ci sentiamo depressi e impotenti, ma se analizziamo lo stesso dolore da più punti di vista il nostro atteggiamento mentale non potrà essere completamente negativo. La sofferenza ha aspetti positivi, il nostro corpo ha aspetti più positivi che negativi: l’aspetto supremo è che il nostro corpo può essere trasformato in un corpo di arcobaleno; il nostro corpo ha la qualità inestimabile di poter essere di grande beneficio agli altri esseri. Il nostro prezioso corpo è la condizione migliore per praticare il Dharma. Queste sono le grandissime qualità del nostro corpo, ma dobbiamo essere sempre in ogni momento consapevoli di trovarci nella condizione della sofferenza e, quando ne avvertiamo tutto il peso, dobbiamo altrettanto essere consapevoli delle qualità del nostro corpo.
Sono due realtà e devono essere tenute in evidenza entrambe e, con questa riflessione, concludiamo l’analisi dei tre tipi di sofferenza.
Gli incontri sul buddhismo non devono essere intesi come lezioni, sarebbe sbagliato pensare “bene, oggi ho ascoltato, domani metterò in pratica”; è importante porsi in atteggiamento contemplativo e, già nell’ascolto, dovrebbe avvenire qualche realizzazione; è fondamentale aprire la mente a questa dimensione. Per questo motivo la spiegazione è stata così dettagliata, con concetti ripetuti e accompagnati da esempi concreti.
Domanda: Non mi è chiaro il concetto di compassione, perché non riesco a collegare la compassione con la Vacuità, in italiano “compassione” significa “soffrire insieme” e quindi, come si può provare sofferenza e nel contempo Vacuità che, credo, voglia dire assenza di qualsiasi tipo di sentimento.
Lama: In tibetano la parola “compassione” deriva dal termine sanscrito “Karuna” ed ha un significato completamente diverso rispetto le lingue occidentali. Nella filosofia buddhista la Vacuità indica la realtà ultima di tutti i fenomeni ed è il livello ultimo della compassione. La Vacuità indica la realtà ultima di noi stessi e degli altri e se non la si percepisce non può esserci compassione, non c’è Karuna.
Domanda: Posso chiederti di spiegare cos’è Karuna?
Lama: Non è facile tradurre la parola Karuna, ma potremmo definirla con “prendersi cura degli altri”, non inteso come “preoccuparsi” ma come “accogliere la realtà degli altri occupandosi di loro con mente altruistica”. E’ molto importante anche non essere invadenti, non disturbare, non essere di ostacolo agli altri. Bisogna saper stare accanto agli altri con consapevolezza e questo può essere realizzato solo attraverso la Vacuità.
Domanda: io avevo capito ancora in modo diverso, cioè che la domanda iniziale non fosse tanto riferita alla Vacuità in se stessa, quanto all’aver compassione della Vacuità dell’altro, cioè della natura vuota degli esseri.
Lama: La compassione è legata alla realizzazione della Vacuità, di me, dell’altro e addirittura della Vacuità della compassione stessa.
Domanda: A questo proposito vorrei raccontarvi che cosa è successo durante un seminario sul tema “La morte e l’aiuto ai morenti”. Abbiamo discusso l’argomento della compassione ed è emerso che non significa condividere le esperienze negative assorbendole. Se una persona malata è depressa non ci si deve deprimere con lei, perché in questo modo aumenteremmo la sua sofferenza. L’atteggiamento corretto di fronte ad una persona che soffre non è la fuga ma il saper rimanere nella presenza della sofferenza dell’altro. Per mantenere questa presenza, però, bisogna davvero avere il senso della Vacuità, altrimenti ci si lascia trascinare nel vortice del dolore aggravandolo e si è più di danno che di beneficio. Per questo credo di aver capito che la sofferenza ha sempre un po’ di Vacuità.
Lama: E’ molto importante mantenere la propria stabilità per aiutare gli altri.
Domanda: Quali sono le pratiche per mantenere la stabilità?
Lama: Meditazione! Meditazione è “Ana-Pana” “Shiné” cioè meditazione nella consapevolezza del respiro. Nella scuola Theravada questa è la pratica fondamentale, molto bella, semplice ed estremamente efficace. Respirare con consapevolezza. Verificate quanti respiri fate in consapevolezza, non sono tanti. Tutta la pratica Theravada passa attraverso la pratica del respiro consapevole, riconoscendovi una fondamentale importanza. In Thailandia i monaci non lavorano, sono nutriti dalla gente, il loro unico compito è quello di dedicare tutto il tempo alla meditazione continuata, in piena consapevolezza del loro respiro, nell’immobilità come nel movimento.



Seconda Nobile Verità


Questa mattina abbiamo esaminato dettagliatamente i tre tipi di Dukkha, della prima nobile verità, e ora invece affronteremo le seguenti tre nobili verità:
  • la Causa della sofferenza;
  • la Cessazione della Sofferenza;
  • il Sentiero che conduce alla Cessazione della Sofferenza.
Tutto ciò che produce sofferenza è parte della seconda nobile verità: “la causa della sofferenza”, del Dukkha, dunque tra la prima e la seconda nobile verità non vi è una grande differenza e la si trova solo nella modalità di osservazione della sofferenza: nel primo modo descriviamo la sofferenza così com’è, nel secondo guardiamo alla sofferenza vedendone le cause.
Esistono fenomeni che rientrano nella prima nobile verità, ma non nella seconda, che possono essere considerati sofferenza, ma non causa di sofferenza. Un esempio è dato dalle “terre pure” così spesso rappresentate nel buddhismo; presupponiamo di credere nella loro esistenza e vediamo che appartengono alla dimensione della prima nobile verità, la sofferenza, ma non aderiscono alla seconda nobile verità, non sono causa di sofferenza. Le terre pure sono nella dimensione del Samsara, quindi se anche le raggiungiamo, ci troviamo ancora nella prima nobile verità della sofferenza, siamo nel Samsara, non nel Nirvana.
La terra pura si trova nella prima nobile verità, ma non è un luogo che produce sofferenza, mancando dunque le condizioni di essere causa di sofferenza, non è nella seconda nobile verità. Si è nella condizione di Dukkha, ma non nella condizione di causa di Dukkha. A volte la spiegazione delle Terre Pure assomiglia a quella del Paradiso cristiano, nel senso che quando si è raggiunto questo luogo non si regredisce.
Un altro esempio di fenomeno che rientra nel Dukkha, ma non è causa di Dukkha, è lo stato di “ultima rinascita”, dell’ultimo corpo che si ha prima di raggiungere il Nirvana, prima dell’ottenimento dell’illuminazione. Questo corpo appartiene alla prima nobile verità, ma non alla seconda, perché non produrrà più nessuna causa di Dukkha e non dovrà più rinascere.
Sono pochi i fenomeni che appartengono alla prima nobile verità ma non alla seconda, mentre possiamo affermare con sicurezza che tutto ciò che è parte della seconda nobile verità è anche parte della prima.
Osservando queste due nobili verità vediamo che vi sono tre possibili combinazioni:
1) Fenomeni che appartengono alla prima nobile verità, Dukkha;
2) Fenomeni che appartengono ad entrambe le due nobili verità, Dukkha e causa di Dukkha;
  1. Fenomeni che non appartengono a nessuna delle due nobili verità, non sono né Dukkha né causa di Dukkha.
Sintetizzando potremmo affermare che la prima e la seconda nobile verità sono due diversi aspetti di uno stesso fenomeno, il Dukkha, la sofferenza.
Credo però opportuno aprire una parentesi e soffermarci sulla questione delle “Terre pure” perché c’è molta confusione in proposito.
Nelle scritture Buddhiste si descrivono molte terre pure: la Terra pura di Avalokiteshvara, la Terra pura di Amitabha, la Terra pura di Tara, la Terra pura di Maitreya e così via. Anche noi praticanti, nel futuro, avremo la nostra Terra pura, ma allora che cos’è questa Terra Pura? Un tempo il Tibet era la Terra pura di Avalokiteshavara, infatti il termine “Potala” significa “la Terra pura di Avalokiteshvara” e probabilmente in origine il Potala era localizzato in territorio indiano. C’è poi la Terra pura del Buddha Amitabha, che è Sukhavati, e la Terra pura del Buddha Avalokiteshvara che è Tushita, e la Terra pura di Kalachacra, che è la notissima Shambala. E la Terra pura di Tara come si chiama? Qualcuno conosce il suo nome? E’ la stessa Terra pura di Avalokiteshvara, sono insieme nel Potala.
E’ difficile spiegare questi concetti, generalmente le persone pensano che la Terra pura sia “...un qualche cosa in un altro posto....” che, appena raggiunto, rappresenta la salvezza. Alcuni ritengono che morendo in combattimento nella guerra di Shambala, si sarà salvi. La guerra di Shambala sarebbe l’ultima guerra, così come prima ci sono state le guerre sante cristiane, islamiche ora tocca ai Buddhisti, no? Queste descrizioni sembrano davvero fantascienza e non devono assolutamente essere recepite letteralmente, sono leggende che appartengono ad una determinata cultura e letteratura ma possono generare una grande confusione nelle persone.
Abbiamo poi la Terra pura di Maitreya “Tushita” che in alcune spiegazioni viene descritta come un edificio, un monastero, circondato da una città che ha lo stesso nome, Tushita, rappresenta quindi due luoghi distinti e solo entrando nel monastero si è salvi.
Questi esempi servono a far comprendere come sia possibile creare le descrizioni più fantasiose, ma le Terre pure non sono altro che la purezza della mente.
Avalokiteshvara rappresenta la compassione, Maitreya l’amorevole gentilezza, Amitabha la benevolenza, Tara l’azione del Buddha. Queste Divinità protettrici, le immagini illuminate, sono la raffigurazione simbolica delle qualità intrinseche allo stato dell’illuminazione. La Terra pura significa la Mente pura, la Terra è la Mente.
Tentare di spiegare la terra pura è davvero difficile, è un argomento a cui è bene accostarsi con prudenza, da approfondire con calma, riflessione attenta e cautela. Troppe persone iniziano a praticare visualizzando la Terra pura, e poi si confondono e si perdono perché non è affatto chiaro in quale direzione si diriga la loro pratica.
Riprendendo la spiegazione della seconda nobile verità, la causa di Dukkha, dobbiamo osservare ciò che ha la potenzialità di produrre sofferenza, riconoscere ciò che ne ha la capacità. La causa della sofferenza è normalmente individuata nel karma e nelle emozioni conflittuali.
Con “karma” si intende un’azione derivante da un atto volontario che produce effetti; principalmente si tratta di un’azione mentale che genera un’azione verbale che, a sua volta, determina un’azione fisica.
L’azione mentale, l’attività mentale è distinta in tre tipi:
  • azione positiva (da cui scaturisce felicità);
  • azione negativa (da cui deriva sofferenza);
  • azione neutra (che determina uno stato neutro, né di felicità, né di sofferenza).
Queste tre azioni appartengono contemporaneamente alla prima e alla seconda nobile verità, sono Dukkha e causa di Dukkha e sono provocate dalle emozioni conflittuali, individuabili principalmente in:
1. IGNORANZA
2. ATTACCAMENTO
  1. ODIO
L’ignoranza è fondamentale, indicata nel Buddhismo come causa prima del Samsara, il suo creatore. Dall’ignoranza derivano attaccamento e odio.
L’ignoranza di per sé non è né positiva né negativa, appartiene ad uno stato neutro, ma se a causa dell’ignoranza noi percepiamo una realtà come piacevole nasce l’attaccamento e se, viceversa, la percepiamo come repulsiva nasce l’odio. L’ignoranza è paragonabile ad una mente sonnolenta, assopita, non è in grado di emettere giudizi di per sé, ma ciò che scaturisce da essa crea i condizionamenti del giudizio che distingue ciò che piace e ciò che non piace. Gli oggetti che attraggono provocano attaccamento e quelli che respingono generano l’odio.
Così si crea la sofferenza, articolata nelle tre modalità conosciute:
  • La sofferenza della sofferenza;
  • La sofferenza del cambiamento;
  • La sofferenza del condizionamento
Questa è la seconda nobile verità, la causa della sofferenza. Quando una realtà appare piacevole, buona, positiva, immediatamente in noi sorge l’attaccamento che causa sofferenza, è esso stesso sofferenza, e quando un’altra realtà presenta aspetti spiacevoli brutti, cattivi, negativi in noi nasce avversione, che è causa di sofferenza, è sofferenza. In entrambe le situazioni siamo immersi nella dimensione della sofferenza ed è davvero difficile venirne fuori perché non sappiamo riconoscerle come sofferenza e causa di sofferenza. Solo gli esseri nobili, esseri che hanno raggiunto un’elevata realizzazione spirituale, gli Arya, sono in grado di individuare e comprendere le due verità e per questo esse vengono chiamate “nobili verità”, o nobili realtà.
E’ necessario, al fine di poter comprendere le cause della sofferenza, conoscere e riflettere sulla concatenazione dei “Dodici anelli dell’origine interdipendente”. Al primo posto troviamo il nostro dio, l’ignoranza, il creatore del samsara; dall’ignoranza sorgono le azioni volitive che determinano degli effetti, cioè karma.
Come si determina questo processo?
All’ignoranza le cose appaiono piacevoli o spiacevoli, se piacevoli sorge l’attaccamento che produce l’azione del volere, se spiacevoli nasce l’avversione, che determina l’azione del respingere. Questa è l’azione volitiva, o karma, che scaturisce dall’ignoranza e che lascia l’impronta nel nostro continuum mentale determinando il terzo anello, quello della coscienza.
Le impronte lasciate nella coscienza mentale matureranno solo quando incontreranno le circostanze e le condizioni favorevoli per il loro sviluppo, condizioni favorevoli che si trovano nell’ottavo e nel nono anello e sono rispettivamente l’avere desiderio - bramosia e attaccamento - voler afferrare. Queste due condizioni danno molta energia al terzo anello, quello della coscienza.
Dall’incontro dell’impronta depositata nella coscienza con le condizioni favorevoli, al loro maturare cioè il desiderio e l’attaccamento, nasce il decimo anello, quello del divenire. Anche il divenire è un’azione volitiva, ma assai più potente di quella prodotta nel secondo anello, il karma, e ingenera un risultato immediato, è la causa diretta che da origine alla rinascita.
Gli altri anelli della catena sono: il quarto - nome e forma; il quinto - sorgente dei sensi; il sesto - contatto sensoriale; il settimo - prodursi di sensazioni.
Il quarto, nome e forma, indica semplicemente che si è entrati nella vita successiva; con la rinascita si entra automaticamente nel quinto anello, quello della sorgente dei sensi che, maturando, diventa contatto, (sesto anello) e il contatto causa sensazioni, (settimo anello).
Osservando la nostra intera vita vediamo che essa oscilla costantemente tra queste due realtà: contatto sensoriale e sensazione che deriva dal contatto. Perché una cosa ci piace e l’altra no? Produciamo ogni sensazione di attaccamento o repulsione perché possiamo toccare, vedere, gustare, sentire una determinata cosa. Contatto - sensazione rappresentano il nostro muoverci nel Samsara.
Possiamo comprendere perché sia così importante saper rimanere in uno stato mentale neutro perché solo in questo modo possiamo evitare di diventare schiavi del meccanismo di contatto - sensazione. Anche di fronte alle cose più insignificanti noi ci lasciamo intrappolare dai giudizi: “questo vestito mi piace, quest’altro non mi piace” oppure “questo tessuto mi da sensazioni gradevoli, quest’altro sgradevoli”.
Contatto e Sensazioni sono causa costante di sofferenza, un’altalena che produce ininterrottamente sofferenza fino a quando giungiamo all’undicesimo anello, quello della vecchiaia e della morte. Vecchiaia e morte sono intrinsecamente legate a nome e forma, il quarto anello, che determina la nascita. Possono realizzarsi vecchiaia e morte solo se vi è nascita.
Perché vecchiaia e morte sono collocate in un unico anello? L’undicesimo anello è nascita (ka), il dodicesimo è morte (schi), ma non c’è un anello apposito per la vecchiaia, perché?
Le scritture indicano chiaramente la risposta che, se riflettete un attimo, è evidente: chi nasce certamente muore, ma non sempre invecchia, può morire giovane. La stessa cosa vale per il quarto anello indicato con nome e forma, perché esistono esseri che hanno un nome, ma non hanno forma.
E’ fondamentale conoscere la concatenazione degli eventi dimostrata dai dodici anelli di origine interdipendente. Riassumendo, rileviamo che ci sono due azioni, tre emozioni conflittuali e i restanti sette anelli che sono Dukkha, sofferenza. Ovviamente tutti i dodici anelli sono Dukkha, ma questi sette sono particolarmente espressione di sofferenza.
Soffermandoci a riflettere sulla concatenazione dei dodici anelli si comprende come si crea il Samsara e come si rimane prigionieri in esso.
I due anelli che costituiscono le azioni volitive sono il secondo - il karma, e il decimo - il divenire. I tre anelli delle emozioni conflittuali, causa delle azioni volitive, sono: il primo - l’ignoranza; l’ottavo - il desiderio e la bramosia; il nono - l’attaccamento e l’afferrare.
Questi cinque anelli si riferiscono alla seconda nobile verità: la causa di Sofferenza, Dukkha. Gli altri sette sono relativi alla prima nobile verità: sono Sofferenza, Dukkha.
Domanda: Puoi ripetere per favore, mi sto confondendo.
Lama: Karma e Divenire (secondo e decimo anello) determinano le azioni volitive;
Ignoranza, Desiderio e Attaccamento (primo, ottavo e nono anello) determinano le emozioni conflittuali.
Tutti e cinque appartengono alla seconda nobile verità e sono causa di sofferenza.
L’ anello, nome e forma, si produce nel momento della rinascita che con il crescere determina l’anello della sorgente dei sensi, entrambi sono sofferenza. Dall’incontro delle facoltà sensoriali con l’oggetto scaturisce il contatto che diviene Dukkha. La sensazione che sorge dal contatto è Dukkha. Ad esempio: “ho meditato, mi sento particolarmente bene, rilassato, appagato, sono pervaso da una sensazione piacevole”, che è comunque Dukkha. La nascita è Dukkha esattamente come la morte e la vecchiaia.
Per queste ragioni il Buddha ha insistito sulla necessità di conoscere la sofferenza, aggiungendo che bisogna abbandonare la causa della sofferenza, ma solo conoscendo i sette anelli che sono Dukkha possiamo abbandonare gli altri cinque che sono causa di Dukkha, cioè le azioni volitive e le emozioni conflittuali. Soltanto così possiamo liberarci dal Samsara, uscire dalla catena dei dodici anelli dell’origine interdipendente.
Come dobbiamo meditare sui dodici anelli? Osserviamo che:
1. Alla base del Samsara vi è l’ignoranza;
2. a causa dell’ignoranza sorgono le azioni volitive;
3. a causa delle azioni volitive sorge la coscienza;
4. a causa della coscienza sorgono nome e forma;
5. a causa di nome e forma sorgono le sorgenti sensoriali;
6. a causa delle sorgenti sensoriali sorge il contatto;
7. a causa del contatto sorge la sensazione;
8. a causa della sensazione sorge il desiderio, la bramosia;
9. a causa della bramosia sorge l’attaccamento, l’afferrare;
10. a causa dell’afferrare sorge il divenire;
11. a causa del divenire sorge la nascita;
  1. a causa della nascita sorgono la vecchiaia e la morte.
E poi ripetiamo il percorso invertendo il punto di osservazione:
1. Alla base del Samsara vi è l’ignoranza, quindi:
  1. eliminando l’ignoranza cessano le azioni volitive;
  2. eliminandole azioni volitive cessa la coscienza;
  3. eliminando la coscienza cessano nome e forma;
  4. eliminando nome e forma cessa la facoltà sensoriale;
  5. eliminando la facoltà sensoriale cessa il contatto;
  6. eliminando il contatto cessa la sensazione;
  7. eliminando la sensazione cessa il desiderio, la bramosia;
  8. eliminando la bramosia cessa l’attaccamento, l’afferrare;
10. eliminando l’afferrare cessa il divenire;
11. eliminando il divenire cessa la nascita;
12. eliminando la nascita cessano vecchiaia e morte.
Questo è il metodo con cui meditare sulle quattro nobili verità. Analizzando in modo conseguente i frutti dell’ignoranza, medito sulle prime due nobili verità, la Sofferenza e la Causa della Sofferenza e osservando tutto ciò che consegue all’eliminazione dell’ignoranza, medito sulla terza e quarta nobile verità, sulla Cessazione della Sofferenza e sulla Via che conduce alla Cessazione della Sofferenza.
Si ha così la visione di come si entra nel Samsara e di come sia invece possibile liberarsi dalla schiavitù di questa ruota senza fine. Una meditazione avulsa dalla conoscenza dei dodici anelli dell’origine interdipendente ci fa permanere statici nel Samsara, senza indicarci come vi siamo giunti e soprattutto, come potremmo uscirne.
Oggi ho cercato di darvi spiegazioni molto pratiche sulle quattro nobili verità.
Domanda: Perché l’attaccamento, anche quello più naturale come l’attaccamento e la dipendenza del neonato alla madre, che è motivo stesso di vita, rientra nella sofferenza?
Lama: L’attaccamento con cui viviamo tutta la nostra vita crea il reame del desiderio ed è proprio questo vivere nel desiderio e nell’attaccamento che ci fa essere nel samsara, mentre ciò a cui aneliamo è essere liberati, uscire dal samsara e non rivivere continuamente in esso. Dobbiamo distinguere tra attaccamento e compassione. I Bodhisattva ritornano volontariamente nel samsara con la motivazione della compassione, noi invece vi ritorniamo a causa dell’attaccamento; entrambi viviamo nel samsara, ma con differenti motivazioni che portano ovviamente a risultati diversi, a conseguenze diverse. I Bodhisattva sono nel samsara con lo scopo di beneficare gli altri esseri senzienti, mentre il nostro fine è di beneficare noi stessi o, al massimo, quei pochi che amiamo. Per questa ragione soffriamo di timori, di paure, di ansietà e incontriamo continuamente difficoltà e problemi, mentre i Bodhisattva sono liberi da tutto questo. Quindi il fatto di vivere nel samsara non è di per sé negativo, ma è il modo con cui lo si vive che ne determina la sostanziale differenza.




Terza Nobile Verità


La terza nobile verità: “la cessazione della sofferenza” presenta quattro caratteristiche:
1. Gopa o fine della sofferenza;
2. Shiva che significa pace, stato di pacificazione;
3. stato di piena soddisfazione;
4. stato di completo abbandono della sofferenza, abbandono del Dukkha.
Queste quattro caratteristiche della terza nobile verità permettono la realizzazione del Nirvana, ciò a cui tutti aneliamo.
Una temporanea cessazione di sofferenza, un temporaneo stato di pace, un temporaneo stato di soddisfazione e un temporaneo stato di abbandono della sofferenza non possono essere considerati la verità della cessazione della sofferenza, della terza nobile verità. Soltanto quando vi è una completa e totale cessazione, una completa e totale pacificazione, una completa e totale soddisfazione o beatitudine, e un completo e totale abbandono della sofferenza, solo allora si potrà dire che questa è la verità della cessazione della sofferenza, la realizzazione della terza nobile verità che può avvenire solo con la liberazione dal Samsara, con l’esserne usciti, al di fuori dei dodici anelli dell’origine interdipendente, il vero stato a cui tutti aspiriamo.




Quarta Nobile Verità

Lo stato di cessazione della sofferenza deve essere realizzato, non può esserci dato da altri, non lo possiamo avere come premio di gare e competizioni, né comperarlo al supermercato, l’unico modo per ottenerlo è realizzarlo in noi stessi, ma come? Seguendo il sentiero indicato nella quarta nobile verità, la via che conduce alla liberazione dal Samsara.
La via che porta alla cessazione della sofferenza può essere seguita con modalità differenti: un primo modo è rappresentato dall’ottuplice sentiero, un secondo è l’esercizio dei tre addestramenti superiori, un altro consiste nei tre principi del sentiero, un altro ancora è relativo alle sei Paramita, e, infine, quello dei cinque sentieri. Esaminiamoli uno alla volta.
Il Nobile Ottuplice Sentiero, importantissimo e fondamentale, comprende:
1. Retta Visione
2. Retta Percezione
3. Retta Parola
4. Retta Azione
5. Retto modo di Sussistenza
6. Retto Sforzo
7. Retta Consapevolezza
  1. Retta Concentrazione
I primi due punti: “retta visione” e “retta percezione” sono parte della Saggezza; le altre tre: “retta parola”, “retta azione” e “retta sussistenza”, aderiscono all’ Etica o Moralità; le ultime tre, “retto sforzo”, “retta consapevolezza” e “retta concentrazione” appartengono alla Concentrazione.
Questi tre aspetti: SAGGEZZA, ETICA - MORALITA’ e CONCENTRAZIONE sono i Tre Addestramenti Superiori.
I Tre Principi del Sentiero sono: RINUNCIA, COMPASSIONE o BODHICITTA, e SAGGEZZA o REALIZZAZIONE DELLA VACUITA’.
Le Sei Paramita sono:
1. Generosità
2. Etica - Moralità
3. Pazienza
4. Perseveranza
5. Concentrazione
  1. Saggezza

I Cinque Sentieri sono:
1. Il Sentiero dell’Accumulazione
2. Il Sentiero della Preparazione
3. Il Sentiero della Visione o Verità
4. Il Sentiero della Meditazione o Familiarità
  1. Il Sentiero del Non più apprendimento.
Dei cinque Sentieri si tratta nel Sutra del Cuore e il mantra così recita:
«Om Gaté Gaté Paragaté Parasamgaté Bodhi Soha»
Il primo Gaté si riferisce al primo sentiero, dell’accumulazione; il secondo Gaté al sentiero della preparazione; Paragaté al sentiero della visione; Parasamgaté al sentiero della meditazione; Bodhi Soha al sentiero del non più apprendimento.
Penso che questo mantra sia particolarmente importante, il migliore, e ne consiglio sempre la pratica. E’ il mantra del cammino di colui che è andato oltre e ha raggiunto l’illuminazione.
Questi sono i possibili percorsi proposti dal Buddhismo e ciascuno può scegliere quello che gli è più consono, da dove partire. Ogni sentiero è valido e conduce all’obiettivo finale. Così, come in Italia si dice che tutte le strade portano a Roma, tutte queste vie portano all’illuminazione, alla Buddhità.
Domanda: Che differenza c’è tra un sentiero e l’altro? Molti aspetti si intersecano, ad esempio la moralità è anche una parte delle sei Paramita
Lama: Queste sono le intersezioni principali, se si vuole andare da Milano a Roma, obbligatoriamente bisogna attraversare determinati crocevia, così se si vuole raggiungere l’illuminazione, necessariamente si deve passare dagli incroci strategici essenziali.
Domanda: Ma in sostanza ogni percorso è la stessa cosa?
Lama: Certamente, qualsiasi cibo serve per nutrire, i sapori possono essere diversi, può essere cucinato in molti modi, ma la sua capacità nutrizionale rimane la stessa. Non è necessario dividere, incasellare in modo rigido le varie possibilità di percorso.
E’ invece importante ricordare almeno il nome e il numero dei differenti sentieri che portano all’illuminazione, trasferendoli in ogni momento della vita, è necessario praticarli sempre. L’ottuplice sentiero e le sei paramita sono basilari, non sono una bella teoria da studiare, su cui filosofeggiare, ma devono essere vissuti in ogni atto, parola e pensiero, in ogni istante, a casa, in ufficio, al supermercato, ovunque e in qualsiasi circostanza. Praticando in questo modo si raggiunge la terza nobile verità, la cessazione della sofferenza.ù



Vacuità, Nirvana e Illuminazione


Cessazione della sofferenza, Nirvana, Illuminazione, altro non sono che VACUITA’, quindi l’obiettivo ultimo è la realizzazione di quella Vacuità. Ogni Vacuità ha la stessa natura: la mia Vacuità, la vostra, la Vacuità della bottiglia, della casa, dell’elefante, sono tutte Vacuità, ma qualcuna può essere più importante e qualcuna meno. La Vacuità dell’illuminazione è più importante della Vacuità dell’elefante, ma entrambe hanno la stessa natura.
Ai fini dell’Illuminazione non è sufficiente una conoscenza puramente intellettuale, filosofica, una comprensione esclusivamente teorica della Vacuità, ma è indispensabile realizzarla, percepirla direttamente. La distinzione è fondamentale: conoscere la Vacuità a livello intellettuale non porta alla realizzazione dell’illuminazione.
Realizzare la Vacuità significa sentirla, percepirla, sperimentarla e applicarne l’esperienza alla vita quotidiana. Soltanto in questo modo si ottiene la cessazione della sofferenza.
Oggi gli scienziati sono in grado di avere una conoscenza intellettuale dettagliata della Vacuità, e possono anche essere gratificati dal livello acquisito, ma questo tipo di nozionismo, assolutamente teorico, non porterà nessun beneficio alla loro vita né a quella degli altri, rimarrà una cognizione sterile e soltanto se sapranno trasferirla nell’esperienza della vita, se la realizzeranno in loro stessi, potrà portare all’illuminazione.
Analizzare la Vacuità, sviscerare il ragionamento in modo da fornirne una descrizione corretta aiuterà ad una buona comprensione teorica, ma sarà assolutamente inutile alla sua realizzazione se la stessa non si trasforma in esperienza diretta e personale.
E’ necessario realizzare direttamente la Vacuità dell’IO e la Vacuità del MIO.
Realizzare la Vacuità del libro, non porta alcun cambiamento, ciò si determina soltanto quando si è in grado di realizzare la Vacuità in se stessi. Realizzare la Vacuità del sé significa uscire dall’ignoranza. La causa del Dukkha, del samsara è l’ignoranza che concepisce il sé e lo afferra. Fino a quando si genera il sé e lo si afferra sarà impossibile abbandonare la sofferenza. Realizzare la Vacuità per ottenere la completa cessazione della sofferenza significa realizzare la Vacuità del sé, eliminando completamente l’attitudine ad afferrarlo.
Realizzare la “Non-differenza” tra il sé e la Vacuità del sé porta alla completa cessazione della sofferenza. La forma è vacua e la Vacuità non è differente dalla forma. Così è scritto nel Sutra del Cuore.
L’io è vacuo e quella Vacuità non è differente dall’io.
L’ignoranza è l’attitudine che afferra un sé, che concepisce un sé, ma ignora, non vede, la Vacuità del sé.
La cessazione della sofferenza realizza la non differenza tra la Vacuità e il sé. Il sé è vacuo, la Vacuità non è differente dal sé.
La realizzazione della Vacuità del sé è il sentiero che conduce alla cessazione della sofferenza. La purezza ultima del sé è quella definita Vacuità non differente dal sé e che è realizzata dall’assenza del sé, dalla realizzazione dell’assenza del sé.
E’ veramente arduo approfondire questo concetto perché è quasi impossibile spiegare la Vacuità, non la si può esprimere a parole ed è al di là della percezione, la si deve sperimentare.
La verità della cessazione della sofferenza va al di là delle parole, al di là delle percezioni ordinarie, è per noi distante come la luna.
Tentando di spiegare la Vacuità mi sembra di essere un bambino che gioca con i modellini della Ferrari, ma chi guida veramente le Ferrari sono Schumacher e Barrichello, a me è proprio impossibile!
Posso tentare di dirvi che questo è il mio sentiero, il mio tentativo, ma ognuno deve percorrere il proprio sentiero, porre in atto il proprio tentativo per giungere alla realizzazione.
E’ un errore credere che ricevendo iniziazioni, trasmissioni, benedizioni, tutto si realizzi facilmente e automaticamente, è invece necessario lavorare incessantemente su se stessi. Ognuno è totalmente responsabile di sé e delle realizzazioni che ottiene, nessun altro può sostituirsi a lui.
Praticando in questo modo si può facilmente intravedere un baleno, avere un’intuizione, una breve visione superficiale della Vacuità della realtà esterna, ma questa non è ancora realizzazione della Vacuità, la realizzazione della Vacuità avviene solo nella realizzazione della Vacuità dell’io.
Domanda: In quali occasioni è consigliato praticare il Sutra del Cuore?
Lama: Sempre, in qualsiasi momento, non esistono occasioni particolari né tanto meno è necessario aver ricevuto iniziazioni, trasmissioni e benedizioni, chiunque può praticarlo. Sarebbe un errore porre limiti, bisogna evitare che iniziazioni, trasmissioni e benedizioni diventino un mezzo di potere da esercitare sugli altri, il Buddha non le ha mai ricevute, si è realizzato da se stesso. Il Dharma è già in noi, ciò che a noi resta da fare è realizzarlo. Il Dharma è di tutti e nessuno ha autorità sul Dharma. Il Dharma è la qualità interiore di ogni essere ed è la sorgente della speranza della liberazione, dell’illuminazione.
Bisogna anche essere vigili per non incorrere in facili fraintendimenti, a volte ci sono persone che dicono: “se non seguo le parole del Buddha finirò negli inferi”, ma questo è scorretto, è un grossolano errore, il Buddha è mosso dalla compassione, non manda nessuno all’inferno e nemmeno punisce nessuno. Dobbiamo praticare il Dharma per il bene nostro e di tutti gli esseri, non per infondate e assurde paure. Il Dharma è in noi, nella nostra mente e abbiamo ogni possibilità per praticarlo.