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Prologo
Attitudine
all’Equanimità
Una
verità: la Via di Mezzo
Le
Quattro Nobili Verità
Motivazione:
la Compassione
Prima
Nobile Verità
Seconda
Nobile Verità
Terza
Nobile Verità
Quarta
Nobile Verità
Vacuità,
Nirvana e Illuminazione
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Prologo
Desidero
ringraziarvi per il vostro interesse verso lo studio e la pratica del
Dharma
e, in particolare, ringraziare gli organizzatori di questo incontro,
è la seconda volta che sono, con voi, a Torino e mi rallegro nel
constatare che avete dedizione alla pratica e auspico che ciò possa
essere di beneficio ad altri.
E’ un bene che vi sia
una comunità di Dharma che favorisca l’incontro di persone
desiderose di conoscere, di discutere, di scambiarsi esperienze ed
idee, di confrontare la quotidianità della vita con il Dharma, ed è
positivo anche per me che ho così la possibilità di condividere con
voi le mie opinioni ed esperienze, perché vivere insieme il
significato del Dharma è un grande aiuto reciproco.
Si diviene consapevoli
di come non esista un'unica realtà in grado di appagare tutti, ma
come invece siano necessarie più condizioni per poter soddisfare le
diversità che costituiscono la vita degli esseri senzienti.
Il
Buddhismo
tibetano
è una delle condizioni che può portare nella vita interiore delle
persone una soddisfazione vera e profonda.
Spesso incontro persone
che, volendo essere felici, inseguono un obiettivo particolare,
credendo che il suo possesso appagherà ogni loro desiderio, ma
questo è falso, è un’illusione, un errore.
Ogni tradizione
spirituale possiede tutti gli elementi e le capacità per aiutare
l’individuo a realizzare pienamente la propria vita, indicando il
corretto cammino verso la felicità, è però necessario che la
persona ne comprenda intelligentemente gli insegnamenti e le qualità,
integrandole nell’esistenza quotidiana.
E’ importante saper
cogliere ciò che vi è di buono in ogni tradizione spirituale.
Che significa “buono”
in questo contesto?
Buono è ciò che
ognuno di noi riconosce essere consono al suo modo di essere, alle
sua personalità, alla sua crescita; buono è tutto ciò che può
essere colto e integrato nell’esistenza per il miglioramento della
vita propria e altrui.
Sarebbe un grave errore
giudicare le tradizioni religiose dicendo “questa è buona e
quest’altra no”, oppure, “questo aspetto è positivo e questo è
negativo”, perché non è possibile formulare un giudizio
oggettivo.
Noi siamo in grado
soltanto di esprimere un’opinione soggettiva, sapendo che cosa è
buono per noi, quale tradizione ci è più vicina, quale percorso
possiamo seguire per arricchire le qualità interiori.
Un determinato cibo, ad
esempio, non è di per sé né buono né cattivo, questa informazione
può essere rilevata soltanto se messa in relazione con l’individuo
che lo mangia, si vedrà allora che lo stesso cibo risulterà essere
ottimo per uno, pessimo per l’altro e indifferente per un terzo.
Attitudine all’ Equanimità
Nei confronti di ogni
tradizione religiosa è fondamentale mantenere un’attitudine
equilibrata ed equanime, priva di errati giudizi, così da poter
valutare ciò che è meglio per noi e per il nostro cammino.
Attitudine
all’equanimità
significa comprendere che le cose non sono in sé né buone né
cattive, ma diventano buone o cattive in rapporto al proprio modo di
pensare, di recepire, alla propria personalità. Bisogna sviluppare
l’attitudine a non giudicare come realtà oggettiva ciò che ci
appare, ma imparare ad osservare ogni situazione in modo neutrale ed
equanime.
Questo modo di
percepire la realtà fa sì che possiamo restare calmi e indisturbati
di fronte ad ogni evento esterno, avvenimento o accadimento, siamo in
grado di mantenere quel distacco equilibrato che ci permette di
controllare emozioni quali l’attaccamento o l’avversione e ci
tiene lontani dal desiderio di afferrare, di essere indifferenti od
ostili. Gli impulsi che ci inducono a provare repulsione per ciò che
non ci piace o desiderio per ciò che ci piace, sono fortemente
disturbanti e ci costringono nel circolo vizioso di disagio e
infelicità del Samsara, senza lasciaci intravedere via d’uscita.
La realtà è neutra,
né negativa né positiva, né bianca né nera, è dunque essenziale
imparare a percepire gli avvenimenti in modo neutrale senza lasciarsi
condizionare dalla comune tendenza di voler definire, inquadrare
tutto ad ogni costo, assorbiti nella totale incapacità di
comprendere e utilizzare la neutralità dei fenomeni.
Se imparassimo ad
osservare le cose nella loro naturale realtà, neutrali,
automaticamente non proveremmo più né attaccamento né repulsione,
ed è indispensabile che un praticante sviluppi quest’attitudine
all’equanimità.
Nell’insegnamento
del Buddha sono indicati “quattro
pensieri o attitudini incommensurabili”:
1. Compassione
senza limite
2. Amorevole
Gentilezza senza limite
3. Gioia senza
limite
- Equanimità senza limite
L’equanimità,
cioè il vedere la realtà così com’è, neutrale, è l’ultima in
quanto risultato dell’esercizio all’attitudine nei primi tre
pensieri, compassione, amorevole gentilezza, gioia e, in questo
senso, l’equanimità può essere considerata la verità ultima, la
verità definitiva. Per mia esperienza la pratica dell’equanimità
è il metodo più efficace per allontanarsi dal Samsara,
almeno per un poco.
A
Roma, durante un incontro in cui si affrontava lo stesso argomento,
le persone ad un certo punto erano completamente confuse perché non
riuscivano a decidere quale direzione prendere, le cose apparivano
nebulosamente positive o negative e una qualsiasi scelta appariva
giustamente ingannevole. L’atteggiamento corretto sarebbe stato
quello di vederle come neutrali, tutto è uguale.
Nel
Buddhismo
si
dice che persino Samsara
e Nirvana
siano uguali, e allora sorge spontanea l’obiezione: “Come possono
essere uguali se, per definizione, sono opposti?” A prima vista
sembrerebbe così ma, all’attenta osservazione di chi ha maturato
una profonda esperienza spirituale, Samsara e Nirvana appaiono nella
loro realtà, sono uguali. Questa visione deve essere applicata
sempre nella vita quotidiana, è necessario esercitarsi ed imparare
ad osservare ogni fenomeno nella sua essenza uguale. Nel linguaggio
filosofico
Buddhista
questo principio si chiama Madhyamaka,
la
Via di Mezzo,
la Visione della Via
di Mezzo.
Nel Buddhismo si
enfatizza il valore della Meditazione sulla Via di Mezzo, che né
rifiuta il Samsara, né afferra il Nirvana, perché percepisce le
cose come neutre, né positive né negative. Mi sto soffermando
questo concetto perché è assolutamente fondamentale.
Siamo qui riuniti per
parlare delle “Quattro Nobili Verità” ma per affrontare questo
principio dobbiamo prima analizzare altre due verità, e prima ancora
l’unica verità: la Madhyamaka, la Verità della Via di Mezzo,
perché nulla esiste di assolutamente negativo o di assolutamente
positivo ma tutto esiste in modo neutro.
Percepire la realtà in
modo neutro è la verità ultima.
Riuscite a vedere le
cose in questo modo? ad abbandonare gli opposti?
Domanda:
E’
difficile, di fronte alle realtà orribili che ci presenta il mondo,
non dividere in negativo o positivo, come possiamo considerare neutre
azioni tanto distruttive?
Lama:
In
questo caso è bene procedere all’ analisi profonda delle due
verità; la prima è la verità convenzionale, o relativa, e la
seconda la verità ultima, definitiva, o verità assoluta.
Ogni realtà esistente
presenta questi due aspetti. Da un punto di vista relativo la guerra
è negativa, ma poniamoci la domanda: “è negativa in assoluto?”
anche la guerra ha delle qualità. La rabbia è considerata negativa,
ma la collera è assolutamente negativa? A questi assoluti possiamo
rispondere: “No”.
Dobbiamo comprendere
profondamente la realtà delle cose; la guerra è transitoria, non
esiste in maniera assoluta, finisce, cambia; questa qualità o
caratteristica della guerra, la sua transitorietà, è positiva,
quindi non possiamo dire che in assoluto la guerra sia negativa.
Tutti abbiamo problemi
e spesso siamo tristi, depressi, ma il saper vedere le qualità
positive dei problemi e la loro reale natura, cioè che sono
transitori e impermanenti, ci ridona fiducia rallegrandoci.
Secondo un punto di
vista convenzionale, relativo, senz’altro possiamo dire che un
evento è negativo, ma dobbiamo anche andare oltre e valutare la sua
verità assoluta e allora vediamo che, in assoluto, non è negativo.
Persino di fronte a tragedie come la guerra dobbiamo saper mantenere
la nostra capacità di osservare la realtà così com’è, in modo
neutrale.
Possiamo cambiare
quello che succede nel mondo? No
Possiamo affermare che
questa o quella guerra sono state causate da queste o quelle persone?
No, perché quanto succede nel mondo, anche le guerre, è la
risultanza della connessione ed evoluzione di diverse condizioni, è
una realtà che con i nostri sforzi non possiamo cambiare.
Ad esempio nell’attuale
questione “Israeliana – Palestinese” un Palestinese uccide in
un attentato suicida 1, 5, 10 persone, ciò è tragico e crea molta
sofferenza, gli israeliani rispondono con una rappresaglia pesante
che produce altra sofferenza. Oppure, un altro caso un aereo
precipita e muoiono 150 persone. Un terremoto tremendo devasta
un’intera regione ….a chi diamo la colpa? Quando qualcuno muore a
causa di un attentato si attribuisce in modo semplicistico la colpa
all’attentatore materiale, ma di fronte ad eventi naturali chi si
può incolpare? Nessuno. Questi esempi ci mostrano che, in ogni
realtà non esiste un vero colpevole, la percezione errata è
nell’osservatore confuso e agitato che non vede i colori e le
sfumature, sa distinguere solamente il bianco o il nero.
Anche le guerre sono un
evento naturale in quanto accadono a causa del concatenarsi di più
condizioni che producono questo effetto.
Quindi vedete quale
immensa differenza c’è tra la realtà nella sua essenza e la
realtà manipolata dalla percezione dei vari soggetti.
Domanda:
Allora,
se nella Via di Mezzo una persona comprende questi due piani,
assoluto e relativo e li applica alla realtà esterna, come si pone
di fronte alla guerra, non interviene? Io ho sempre avuto questa
difficoltà con il Buddhismo, mi è difficile equilibrare i due
aspetti, sapere che esiste un altro modo di percepire la realtà,
diversa da come appare; e poi c’è il karma e l’impegno affinché
queste cose non avvengano. Cosa devo fare, stare ferma e osservare?
La via di mezzo significa non partecipare all’evento e non prendere
posizione? Mi riesce veramente difficile da accettare, perché oggi
sono migliaia le situazioni che ci sollecitano a prendere posizione.
La via di mezzo ci suggerisce di starcene buoni, dolci, e tranquilli
perché c’è un altro modo di vedere la realtà? oppure ci invita a
partecipare all’evento in qualche modo? Sto pensando a Gino Strada
e ad altre persone, a due monache tibetane attualmente in Italia,
intervistate da Amnesty International hanno testimoniato le tremende
torture subite, non odiano i loro aguzzini, ma si danno molto da fare
per cambiare una situazione drammatica, tengono conferenze, danno una
testimonianza. Vorrei sapere: da questo punto di vista la Via di
mezzo che cos’è?
Lama:
E’ giusta la tua inquietudine, ma esaminiamo ad esempio un problema
reale attuale, il conflitto tra Palestinesi e Israeliani; nel mio
gruppo di meditazione ci sono un figlio e un padre, il primo è
schierato con i palestinesi e il secondo con gli israeliani entrambi
sono così convinti nelle loro posizioni che litigano continuamente e
non si rivolgono più la parola. Una situazione assurda e senza senso
che ha prodotto unicamente una seria frattura nella famiglia, fondata
su informazioni già filtrate dai mezzi di comunicazione, giornali e
televisione, e quindi non di prima mano. E’ davvero sciocco creare
emozioni così disturbanti, che oltrettutto non sono certamente di
aiuto né ai Palestinesi né agli Israeliani. Questa non e la via di
mezzo.
La via di mezzo si ha
quando, mantenendo una visione neutrale del conflitto tra le parti,
si interviene cercando di influenzare positivamente e di aiutare
entrambi. Le due monache tibetane che testimoniano gli orrori subiti
agiscono correttamente parlandone ad Amnesty International, una
organizzazione che ha il compito di far conoscere queste situazioni
al mondo intero. Ma, guardando ancora più in profondità, possiamo
vedere che anche la drammatica situazione descritta non è in
assoluto negativa, e in questo senso dobbiamo mantenere la
neutralità, noi non possiamo sapere come nel profondo essa abbia
influito, magari positivamente, nella vita delle interessate. Non si
può trovare un assoluto negativo, quindi in questo caso il punto di
vista della via di mezzo è quello di non lasciarsi travolgere
emotivamente dal dramma vissuto dalle due monache così come da tutto
un popolo, ma saper andare al di là di ogni forte coinvolgimento
emotivo e comprendere che la realtà assoluta è più completa,
formata da tanti aspetti non solo negativi e non solo positivi.
Questa è la via di mezzo.
Un
proverbio tibetano dice
“se guardate una persona che piange vi mettete a piangere anche
voi”
indicando l’aspetto emotivo, la natura delle emozioni, ma le
emozioni non devono essere assecondate, è pericolosissimo farsene
condizionare. Spesso gli altri tentano di influenzarci, di
controllarci, attraverso le emozioni, e ciò è l’esatto opposto
alla via di mezzo. La via di mezzo sa riconoscere la pericolosità
delle emozioni, fondamentalmente basate sull’illusione.
Domanda:
Però anche l’amore è un’emozione
Lama:
Questa
è un’ottima domanda. Nel Buddhismo con il termine amore intendiamo
la compassione, il pensiero della Bodhicitta, in tibetano “Nying-Je”,
rivolto a tutti gli esseri viventi senza discriminazione, con
equanimità. Un buon esempio di questo amore è trattare ogni essere
vivente come se fosse il proprio figlio, con pura equanimità e
autentica, genuina compassione. Una compassione parziale, destinata
solo ad alcune persone non è vera compassione, è solo espressione
di uno stato emotivo. La vera compassione è la via di mezzo.
Questo concetto è
fondamentale e deve essere compreso chiaramente perché tutte le
difficoltà, i problemi della vita quotidiana derivano proprio dalla
mancanza di chiarezza e noi siamo qui apposta per trovare soluzioni
alla confusione quotidiana, altrimenti rischiamo di parlare molto, di
trastullarci con tanta filosofia che poi nel concreto non ci potrà
servire a nulla se lasciata su un piano puramente teorico e
superficiale.
Domanda:
Credo
ci sia un altro fattore che noi occidentali non consideriamo mai e
che invece è importantissimo, ed è quello della nostra
responsabilità personale. In ogni realtà mondiale, nelle guerre e
in tutte le situazioni frutto di un concatenarsi di fattori, noi
tutti siamo responsabili, anche nel conflitto tra Israele e Palestina
nessuno è innocente.
Lama:
Si, oggi si tende a pensare che la nostra responsabilità sia
limitata alla necessità di prendere una posizione e che solo così
sia possibile giungere ad una soluzione, in realtà proprio con
questo atteggiamento si aggravano i problemi e si contribuisce a
creare ed aumentare la sofferenza.
Domanda:
Questo è dunque un altro elemento determinato dall’interdipendenza
delle cause?
Lama:
Naturalmente,
poiché esiste l’interdipendenza esistono le soluzioni ai problemi,
e poiché esistono l’interdipendenza e le soluzioni possibili ad
ogni problema, ciascuno può influire sulla concatenazione nella
ricerca delle soluzioni stesse. Ma dov’è realmente il problema per
noi?
Di fronte a un problema
ci sentiamo responsabili e dobbiamo trovare una soluzione, e fin qui
tutto va bene, ma immediatamente nasce l’errore nella valutazione,
nel giudizio, che ci induce a prendere posizione considerando la
verità relativa come se fosse assoluta. Tale attitudine errata
aggrava la situazione e ci rende ancora più confusi, allontanandoci
dall’insegnamento del Buddha Shakyamuni che, invece, ha indicato
chiaramente che per trovare soluzioni occorre mantenere il distacco
emotivo, la neutralità in cui, mancando il giudizio, non c’è né
positivo né negativo assoluti, non c’è prendere posizione, c’è
davvero la possibilità di trovare la soluzione.
Domanda:
Quindi, se non ho capito male, la “discriminazione” è una
qualità che bisogna sviluppare per vedere i fenomeni nella loro
interdipendenza, ma poi è necessario non lasciarsi intrappolare
nella tentazione di esprimere giudizio scambiando, sotto una forte
spinta emotiva, la realtà relativa per quella assoluta, e quindi
creando ulteriori problemi?
Lama:
Si, sono d’accordo.
Domanda:
Una persona che ha sbagliato ad affrontare una situazione
problematica perché vi è entrata con forte giudizio provocando solo
guai, si accorge dell’errore e tenta con ogni mezzo di cambiare
atteggiamento senza però riuscirvi perché ormai ha perso ogni
credibilità, come può rimediare?
Lama:
Meditazione,
solo con la meditazione. Prima si medita per cambiare la situazione e
poi nell’equanimità. Non si possono soddisfare tutti, ci sarà
sempre qualcuno scontento, ciò che possiamo e dobbiamo fare è
mantenere sempre un atteggiamento equanime.
Domanda:
Nel caso in cui noi stessi siamo gli attori di una controversia in
una divergenza di opinioni e le due volontà sono in contrasto, come
dobbiamo comportarci? difendere la nostra opinione per il nostro bene
o lasciare prevalere l’opinione dell’altro per il suo bene?
Lama:
E’ molto semplice: fare il bene degli altri è il miglior modo
per fare il bene a se stessi, e si ottiene un doppio beneficio,
quello di beneficare gli altri e se stessi. Quando si vuole imporre
la propria opinione si sbaglia comunque, se invece si rispetta
l’opinione degli altri si rispetta anche la propria e ciò porta il
massimo beneficio.
Perché siamo nati
nell’esistenza umana? Per portare beneficio agli altri, è la
naturale condizione dell’essere umano, e se si vien meno alla
naturale capacità di fare il bene degli altri allora si arreca danno
anche a se stessi perché si agisce in modo contrario alla natura
stessa dell’esistenza umana.
Domanda:
Forse questa è la causa della guerra tra Israeliani e Palestinesi?
Lama:
Forse, ma le cause sono misteriose, insondabili, stanno al di là
della realtà percepita, relativa, sono il risultato di cause e
condizioni che noi stessi abbiamo posto e che possono essere molto
diverse da come le vediamo. Nella vita di ognuno si presentano spesso
situazioni complesse e bisogna imparare ad osservare gli eventi
chiedendosi sempre “quella cosa era davvero così? È vera o no?”
è necessario sforzarsi di comprendere una realtà più profonda, al
di là degli eventi stessi, perché le apparenze esteriori sono le
cause principali dell’illusione.
Ogni giorno al
telegiornale vediamo scene terribili di guerra, ne piangiamo,
diventiamo tristi e depressi, e attrarre la nostra attenzione emotiva
è il ruolo dell’informazione, ma se osserviamo più attentamente
quelle immagini, ad esempio i disordini in Nepal, vediamo che sono
sempre riproposte le stesse scene per giorni e giorni, anche a
distanza di mesi. Se cerchiamo in internet notizie sul conflitto tra
India e Pakistan vediamo che la BBC ne parla esattamente come dieci
anni fa riproponendo le stesse fotografie. Dunque qualcosa non va,
l’opinione che noi possiamo ricavare da questo tipo di informazione
è totalmente sbagliata, manipolata, indotta, non reale, è
totalmente illusoria.
Quella vecchia
immagine, sempre la stessa, crea immediatamente un’errata
percezione, perché noi pensiamo che essa sia riferita al presente,
ma in realtà non è così e il problema nasce dall’attaccamento
all’immagine che crea un’illusione. Per questo è essenziale,
fondamentale, analizzare sempre la realtà sulla base delle due
verità: senza negare la realtà convenzionale imparare a vedere la
realtà ultima.
Io ricordo sempre ai
miei amici che con grandissimo rispetto verso la fede cristiana è
possibile praticare il Buddhismo, ma senza tale rispetto in Italia
ciò sarebbe impossibile perché implicherebbe la negazione della
verità degli italiani di essere nati in una cultura integrata nella
formazione cattolica. Se si nega la cultura delle proprie radici, si
entra in contraddizione con la propria natura.
Vi
porto un esempio: il matrimonio Buddhista non esiste, non è mai
esistito, e allora perché chi è nato in Italia e secondo la sua
naturale cultura desidera un matrimonio religioso, anche se pratica
il Buddhismo, non si sposa tranquillamente nella chiesa cattolica nel
rispetto delle sue regole, invece di crearsi complicazioni e
illusioni nella ricerca di un Lama disposto a celebrare un matrimonio
con un rito inesistente? Situazioni come questa sono davvero sciocche
e nascono dall’incapacità di osservare le due verità, quella
relativa e quella assoluta, verità che non solo non sono
contraddittorie tra loro ma, al contrario, complementari.
Ora meditiamo insieme
per qualche minuto, vi ricordo che in generale meditazione significa
mantenere l’unione del corpo con la mente tramite la respirazione.
Un primo passo meditativo è quello di respirare consapevolmente,
mantenere la consapevolezza del respiro, sentirne il fluire naturale,
poi ci si siede in modo comodo, confortevole e rilassato, avendo
l’avvertenza di mantenere la colonna vertebrale eretta. La schiena
dritta è importante mentre gli altri aspetti della postura sono
secondari.
Una Verità: “La Via di Mezzo”
La
Via di Mezzo, “Madhyamaka”,
può essere intesa anche come definizione di Dharma; in termini
buddhisti significa un modo di vita, non è una realtà da relegare
soltanto nella spiritualità, al contrario permea ogni aspetto della
vita, giorno dopo giorno.
Con
unavisione ampia si può percepire tutto come “La Via di Mezzo” e
questa percezione è il Dharma. Anche il nirvana o stato di Buddhità
è via di mezzo; la compassione, la bodhicitta, la rinuncia, la
saggezza, sono tutti aspetti della via di mezzo, sono Dharma.
Il concetto di Dharma è
più complesso, mentre è più facile comprendere la Via di mezzo,
dobbiamo imparare a focalizzarci nel punto centrale rimanendo fermi
nel mezzo, ci troveremo così in una posizione infallibile, in ciò
che ha insegnato il Buddha.
Nella filosofia
Buddhista, non c’è coercizione, non esiste il dovere di praticare
il Buddhismo, il dovere di mettere in pratica il Dharma, ma solo la
possibilità, offerta a tutti, di scegliere e praticare, o meno,
questo percorso. Ognuno è assolutamente libero di intraprendere la
via a lui più consona, di valutare ciò che ritiene maggiormente
rispondente al suo modo di essere. Chi pensa che il Buddhismo gli sia
di beneficio lo pratica, in caso contrario no, nessuno può
obbligarlo.
Questa è una delle
vie, uno dei modi per raggiungere la felicità, la pace, ma non è
l’unica strada. Persino all’interno del Buddhismo ci sono tre
percorsi, Hinayana, Mahayana, Vajrayana, che volendo esemplificare
potrebbero essere così rappresentati:
Hinayana
è
il piccolo mezzo, potrebbe essere paragonabile alla bicicletta;
Mahayana
è un mezzo più potente, come ad esempio il treno;
Vajrayana
è
ancora più potente, diciamo l’aereo.
La scelta di quale
mezzo utilizzare dipende da più fattori: in primo luogo dalle
necessità di ognuno, poi dalle capacità, dalle possibilità
economiche, dalla disponibilità a correre rischi. Tutti i tre mezzi
sono idonei. Certamente l’aereo è più veloce, ma non è alla
portata di tutti, possono esserci impedimenti di vario tipo,
malattie, problemi economici, e oltretutto se l’aereo precipita si
muore non arrivando a destinazione. Con il treno si viaggia
abbastanza velocemente, ma sussistono sempre, anche se in forma
minore, i problemi dell’aereo e può verificarsi un deragliamento
con gravi conseguenze. Con la bicicletta invece, si impiega più
tempo, ma non c’è il costo del biglietto e se si cade, pur
ammaccati, ci si rialza e si è in grado di proseguire raggiungendo
la meta. Ognuno deve valutare attentamente i rischi e i benefici del
viaggio e scegliere il mezzo più consono alle sue possibilità ed
esigenze.
Nella vita spirituale
accade esattamente la stessa cosa, c’è un prezzo da pagare, quale?
Il prezzo è la dedizione, è necessario conoscere quanta dedizione
si è disposti ad impegnare, quali rischi si è pronti a correre.
Questo è l’insegnamento del Buddha.
Buddha
non ha mai detto “quello
è il sentiero migliore, lo dovete seguire”, ha
raccomandato invece: “Ci
sono diversi sentieri, ciascuno scelga quello che corrisponde alle
sue esigenze. Il sentiero migliore è il più adatto ad ognuno, è
quello che ognuno sceglie per sé”.
Si commette un
grossolano errore pensando: “Vajrayana è la via migliore, è il
massimo, Mahayana è una buona via, va bene, Hinayana è una via
inferiore”. Il Buddha ha insegnato che tutti i Dharma sono uguali,
non c’è un Dharma superiore e uno inferiore, sono tutti ugualmente
buoni perché hanno in sé la capacità di condurre allo stesso
risultato.
Cristianesimo,
Buddhismo, Islamismo e tutte le religioni sono ugualmente valide, è
assolutamente sorretto pensare. “questa è migliore di quella, una
è buona e l’altra no”, tutte indistintamente portano alla
realizzazione dello stesso obiettivo.
E’ importante
mantenere una visione pluralista e aperta, rispettare profondamente
ogni percorso spirituale e seguire seriamente quello a noi più
consono. Qualsiasi sentiero decidiamo di intraprendere incontreremo
difficoltà e dovremo dedicarvi un profondo impegno personale.
Scegliere il proprio
sentiero non implica affatto la negazione e l’esclusione degli
altri, ma significa scegliere quello più adatto a sé nel rispetto
di tutti gli altri. Questo è il modo corretto di percorrere la
propria via spirituale.
Le Quattro Nobili Verità
Nel
Buddhismo, qualsiasi sentiero si scelga, Hinayana, Mahayana o
Vajrayana, lo si può praticare solo nelle quattro nobili verità, il
primo insegnamento del Buddha Shakyamuni dopo la sua illuminazione, e
da esse nasce il nome del Dharma. Comprendere le quattro nobili
verità significa comprendere l’intero sentiero buddhista, mentre
al di fuor di esse è impossibile qualsiasi approccio ai tre sentieri
Hinayana, Mahayana, Vajrayana.
In nessuno dei tre
“Yana” o mezzi spirituali, troviamo insegnamenti che non siano
inclusi nelle quattro nobili verità, solo al loro interno possiamo
praticare Hinayana, Mahayana e Vajrayana. Dunque, quali sono le
quattro nobili verità?
1. La verità della
Sofferenza
2. La
verità delle Cause della Sofferenza
3. La verità della
Cessazione della Sofferenza
4. La verità del
Sentiero che porta alla Cessazione delle Cause della Sofferenza.
Queste quattro
caratteristiche del Dharma conducono alla liberazione dal Samsara.
Nella tradizione
Buddhista si ricorre spesso ad una analogia: Il Buddha Shakyamuni è
il medico, il Dharma è la medicina, il praticante spirituale è il
paziente. La conoscenza delle quattro nobili verità è la medicina
necessaria alla cura di noi stessi e degli altri.
La prima tappa consiste
nel riconoscere la malattia, la verità della sofferenza; è
necessario individuare le cause della malattia, le cause della
sofferenza, così da poter affrontare la cura che le eliminerà.
La malattia può essere
prodotta da più fattori, ad esempio, dalla droga, dal tabacco,
dall’alcool… e, per guarire, per ottenere lo stato della
liberazione, si deve essere consapevoli della necessità della loro
eliminazione che può avvenire solo attraverso la comprensione dei
mezzi da utilizzare e di quale sentiero percorrere per raggiungerne
lo scopo.
Tutti i quattro aspetti
devono essere conosciuti e praticati al fine di poter guarire se
stessi e gli altri.
Il
termine “sofferenza” in sanscrito è Dukkha,
ma la traduzione che se ne dà nelle lingue occidentali non è
proprio esatta.
Dukkha
ha tre livelli:
- Il primo livello, più superficiale, è facilmente individuabile, ad esempio un mal di testa, di stomaco, un raffreddore, sofferenza che si può curare con medicine, senza dover ricorrere alla meditazione;
- Il secondo livello è un po’ più profondo e sottile e riguarda ciò che a prima vista appare appagante, ad esempio fumare, bere alcool, assumere stupefacenti, tutti elementi che ci appaiono gratificanti, apportatori di felicità, ma sono così dolci che poi procurano grandi carie ai denti. Il senso temporaneo e immediato di godimento è infinitamente inferiore alla sofferenza conseguente. Questa “gioia” è la natura di Dukkha, più difficile da riconoscere.
Del
terzo livello parleremo più avanti, per oggi terminiamo qui e
concludiamo la giornata meditando e recitando insieme la preghiera di
dedica dei meriti per il benessere di tutti gli esseri senzienti.
Motivazione: La Compassione
La
radice della pratica del Dharma è la motivazione. Il Dharma dipende
dall’intenzione che guida la nostra azione; la motivazione è
determinante nella possibilità di trasformazione di ogni azione
della vita in Dharma.
Alla
domanda relativa a ciò che è motivazione del Dharma e ciò che non
lo è la risposta è davvero semplice: ogni azione altruistica è una
motivazione dharmica, mentre ogni attitudine egoistica non lo è.
La
mente altruistica è articolata su tre livelli:
1. il
primo è la Compassione e la Gentilezza Amorevole;
2. il secondo è la
Compassione Illimitata e la Gentilezza Amorevole Illimitata;
3. il
terzo è la Grande Compassione e la Grande Gentilezza Amorevole.
Tre
livelli di mente altruistica che ci portano ad azioni positive.
Il
primo livello,
<della
compassione e della gentilezza amorevole>,
è innato in ogni essere senziente, è parte naturale e fonte di
speranza e incoraggiamento. Tutti, anche i più piccoli, possiedono
in sé questa qualità naturale, è dunque doveroso avere sempre
grande rispetto, senza distinzioni, per ogni essere. E’ importante
essere consapevoli dell’esistenza di questa qualità in noi perché
solo avendone coscienza siamo in grado di scegliere se utilizzarla o
meno, essa esiste in noi comunque ed è essenziale riconoscerla.
Se ignoriamo la
presenza in noi della naturale capacità di compassione e di
gentilezza amorevole e non la sviluppiamo, ci arrechiamo un grave
danno perché questa qualità è la fonte della nostra felicità, nel
presente e nel futuro.
Quando ci sentiamo
felici soffermiamoci ad osservare se abbiamo consapevolezza della
presenza della compassione e, in caso affermativo, siamo in pace con
noi stessi, completamente rilassati, perché è necessario alcuno
sforzo per ottenerla essa è insita nella natura di ognuno, è il
nostro tesoro più vero, e possiamo rivolgerla a chiunque.
Il
secondo livello, <della
compassione illimitata e della gentilezza amorevole illimitata>,
richiede invece uno sforzo, un impegno da parte nostra. In essa sono
inclusi anche i nostri nemici, accoglie tutti gli esseri che possiamo
percepire e questo è anche il suo limite, perché coloro di cui non
abbiamo conoscenza ne sono esclusi. E’ realmente una compassione
illimitata, con un limite, perché non è ancora assoluta, non è
ancora la grande compassione.
Il
terzo livello, <della
grande compassione>,
include tutti gli esseri, senza eccezioni, ed è causa immediata di
Bodhicitta, risveglia automaticamente il Bodhicitta.
La consapevolezza dei
tre livelli di compassione permette che essi siano trasfusi nella
quotidianità della vita.
La
compassione si distingue ancora in tre categorie:
1. la compassione
rivolta agli esseri senzienti;
2. la compassione
rivolta alla natura impermanente degli esseri senzienti;
- la compassione rivolta alla natura vuota degli esseri senzienti.
I
tre livelli di compassione visti prima,
“naturale, illimitata e grande”,
appartengono alla prima categoria, quella rivolta agli esseri
senzienti.
La
seconda categoria, la compassione rivolta alla natura impermanente
degli esseri senzienti, ci mostra chiaramente la natura impermanente
degli esseri e scende più in profondità.
La
terza categoria, la compassione che ci rende consapevoli della natura
vuota degli esseri senzienti, raggiunge la profondità massima.
Questo
potrebbe già di per sé essere un percorso completo che conduce
all’illuminazione, i passi del sentiero sono la meditazione, la
pratica e la visualizzare prima della compassione innata, poi della
compassione illimitata rivolta a una, due, cento, mille o più
persone, e, infine, quando tale capacità è completamente sviluppata
, si può affrontare l’ultimo passaggio nella contemplazione e
pratica della grande compassione.
Il
cammino nella compassione che ci rende consapevoli della natura
impermanente degli esseri senzienti è un punto davvero fondamentale,
perché se nutriamo compassione nei loro confronti ma li vediamo come
esseri permanenti, la nostra compassione non è pura né completa,
solo attraverso la consapevolezza della loro impermanenza essa sarà
autentica.
Infine,
per raggiungere la completezza e la purezza della compassione
dobbiamo sviluppare la consapevolezza della natura vuota degli
esseri. La tradizione Buddhista distingue tra compassione
contaminata e compassione incontaminata, e solo la compassione
consapevole della natura vuota degli esseri è incontaminata.
La compassione
incontaminata può essere il nodo che unisce metodo e saggezza ed è
necessario praticarla per raggiungere l’illuminazione.
Il
concetto di Compassione nel Buddhismo non è affatto semplice, è
articolato in molti aspetti e rappresenta di per sé un sentiero che
può essere praticato senza bisogno di altro. Compassione non
significa solo essere gentili e amorevoli, ma in essa è compresa la
saggezza, la consapevolezza dell’impermanenza e della natura vuota
degli esseri.
Nel Vajrayana tutti i
rituali e le pratiche iniziano con la consapevolezza della Vacuità.
La compassione emerge all’interno della Vacuità, la compassione
emerge all’interno della realtà impermanente.
Se siamo persone
sensibili, gentili e compassionevoli, ma osserviamo noi stessi e gli
altri come esseri permanenti, la nostra compassione non è pura e può
ingenerare grande confusione fondata su una visione erronea della
realtà, sarebbe come voler prendere un treno diretto a Roma e salire
su un convoglio che va nella direzione opposta, a Milano.
E’
molto importante, fondamentale, comprendere bene e con grande
chiarezza come la realizzazione della compassione pura e completa
passi attraverso la consapevolezza della natura impermanente e vacua
della realtà.
Parliamo
spesso di compassione, ognuno ha la sua idea in proposito, ma è
indispensabile abbandonare ogni preconcetto e conoscere in modo
approfondito le sue categorie e i suoi livelli in modo da poterla
praticare realmente sviluppandola completamente.
Per conoscere la
motivazione delle nostre azioni è necessario percorrere, uno dopo
l’altro, gli stadi della compassione così da acquisire la
consapevolezza e il criterio essenziali alla corretta scelta di ogni
atto nel Dharma. Diviene così possibile ad esempio verificare che,
rispetto ad una specifica situazione, ne abbiamo una visione distorta
perché la percepiamo come permanente e dunque sappiamo quali
strumenti attivare per correggere l’errore, evitando ulteriori
complicazioni e confusione.
Prima Nobile Verità
Ieri
abbiamo affrontato le quattro nobili verità approfondendo i primi
due aspetti della prima nobile verità (Dukkha) suddivisa in tre
livelli:
1. Il
primo è la sofferenza della sofferenza;
2. il secondo è la
sofferenza del cambiamento;
- il terzo è la sofferenza del condizionamento.
Il
primo livello, la sofferenza della sofferenza, è facilmente
riconoscibile (il mal di testa, il raffreddore, ecc). Dukkha si
traduce anche con i termini “dolore” o “non soddisfazione”.
La non soddisfazione è presente in tutti i tre i livelli.
Il secondo livello è
più difficilmente riconoscibile perché ad un primo impatto si
presenta come temporanea felicità.
Lama:
Tu che hai praticato per una settimana il “chülen”
(una
forma di digiuno)
come consideri questa esperienza? in che categoria di Dukkha la
collocheresti, sofferenza della sofferenza, sofferenza del
cambiamento o sofferenza del condizionamento?
Risposta:
Non saprei….in nessuna credo, perché non c’era sofferenza.
Lama:
Non c’era Dukkha? Allora era Nirvana, no?
Risposta:
Ma no, non certamente Nirvana, forse all’inizio c’era un po’ di
sofferenza, ma poi è subentrata una sensazione di benessere, un
assoluto distacco dal cibo. Forse si potrebbe dire che il primo
giorno era sofferenza di primo livello, il secondo giorno sofferenza
di secondo livello, e il terzo giorno sofferenza di terzo livello, ma
sinceramente io mi sentivo in uno stato di non sofferenza.
Lama:
E’ difficile, molto difficile definire queste situazioni,
specificare a quale categoria possa appartenere questo tipo di
esperienza, forse potremmo catalogarla come sofferenza del
condizionamento, o sofferenza del cambiamento.
Ecco
perché affrontando la prima nobile verità, della sofferenza,
Dukkha,
non
dobbiamo pensare in termini limitativi, riferendoci ad esempio solo
al dolore del corpo, ma dobbiamo pensare ad ogni risultato maturato
attraverso il Karma e attraverso le emozioni conflittuali. Solo in
una condizione non causata né dal karma, né dalle emozioni
conflittuali possiamo dire di essere in una realtà al di fuori
della sofferenza, altrimenti qualsiasi circostanza frutto di karma e
di emozioni conflittuali appartiene alla prima nobile verità, anche
se a volte è veramente difficile distinguere il livello attinente
alle diverse situazioni.
Il Dukkha è parte
dell’esistenza e per questo il Buddha disse che la prima Nobile
Verità si realizza e ha scelto di mostrarci il Dharma, il metodo per
eliminare la sofferenza.
Sono
moltissime le situazioni della nostra vita che non riconosciamo come
sofferenza e che invece lo sono; ci sono momenti in cui ci sentiamo
completamente felici, ma in realtà non è così, sono sofferenza,
anche se è difficile individuarla immediatamente. Il Dharma ci offre
il metodo per eliminare il livello più sottile di sofferenza, il
terzo livello: la sofferenza del condizionamento.
Ogni elemento che causa
altra sofferenza è chiamato sofferenza del condizionamento, per
questo il nostro karma e le emozioni conflittuali appartengono a
questa categoria. Anche un apparente stato di felicità è
sofferenza.
Domanda:
E’ sofferenza in quanto ogni felicità è impermanente, destinata a
finire? E’ difficile comprendere questo concetto, perché nel
momento in cui io vivo la felicità sono davvero felice, o c’è
altro?
Lama:
Si, in parte il motivo è l’impermanenza, ma non solo, anche
quando meditiamo e ci troviamo in uno stato mentale molto gioioso,
siamo nella sofferenza.
Domanda:
Allora non c’è scampo alla sofferenza?
Lama:
In questo mondo non c’è; al tempo di Buddha vi erano maggiori
possibilità, più porte aperte, oggi è tutto complicato e arduo
perché ci troviamo in un periodo di degenerazione. Una volta a
Torino era facile trovare lavoro alla FIAT, adesso è difficilissimo,
eppure la FIAT c’è ancora quindi, teoricamente, le possibilità
sussistono. Questa è impermanenza. L’impero romano, quello
britannico, apparentemente invincibili, hanno mostrato chiaramente la
loro impermanenza, così come il potere tedesco del terzo reich.
Anche il potere più radicato o le fortezze inespugnabili sono
impermanenti, pensate al Pentagono, indistruttibile dicevano, eppure
i fatti hanno dimostrato il contrario.
Tutto
è transitorio, impermanente. Il terzo livello del Dukkha è molto
sottile; il nome che gli viene dato “sofferenza
del condizionamento”
deriva dai cinque aggregati che costituiscono il nostro stato di
esseri viventi, il nostro corpo e le sensazioni del nostro corpo. A
questo livello di sofferenza non c’è scampo.
Come soluzione potremmo
sviluppare il “corpo di arcobaleno”. Questa, che potrebbe
apparire a prima vista come una descrizione del tutto fantastica, è
invece concretamente reale. Attraverso la pratica e una meditazione
molto profonda si può trasformare il proprio corpo di sofferenza in
un “corpo di arcobaleno” o “corpo di chiara luce”.
Un’altra soluzione è
data dal non attaccamento al nostro corpo; se non abbiamo alcun
attaccamento al corpo, né ad alcun oggetto esterno, nulla ci può
causare sofferenza.
Queste sono alcune vie
che il Buddhismo indica per uscire dalla sofferenza.
Esiste
un’ulteriore possibilità che consiste nell’usare il proprio
corpo per portare beneficio agli altri; dedicare completamente il
proprio corpo per il bene di tutti gli esseri.
I
tre mezzi che ci permettono di uscire dal Dukkha:
1. Hinayana;
2. Mahayana;
- Vajrayana.
L’attitudine
del sentiero Hinayana
consiste nel non avere attaccamento al proprio corpo concentrandosi
sulla pratica meditativa, privi di ogni preoccupazione per il proprio
corpo e attaccamento ad esso.
Nel
sentiero Mahayana
si dedica completamente il proprio corpo agli altri; prendendolo in
considerazione, ma non in modo egoistico, bensì con la motivazione
profonda di essere di beneficio agli altri esseri. Ad esempio in una
preghiera della pratica del Bodhisattva ci si auspica di essere come
pesci in modo da poter sfamare gli altri, dedicandosi completamente a
ogni essere. Questa è la pratica del Bodhisattva.
Domanda:
Ieri hai detto che siamo nati per essere di beneficio agli altri,
vorrei capire meglio cosa intendevi esattamente. Gli esseri senzienti
sono nati tutti con questo scopo, e poi nel cammino ne perdono la
consapevolezza?
Lama:
Si, siamo nati con questo scopo che è inscindibilmente legato
all’obiettivo ultimo di raggiungere l’illuminazione. L’essere
nati in una condizione umana ci dà le maggiori possibilità per
ottenere l’illuminazione che, a sua volta, è realizzabile solo
attraverso una mente altruistica. Per questo l’essere nati nella
condizione umana significa dedicarsi agli altri, essere loro di
beneficio, praticare il Dharma, per questo ieri ho detto: noi siamo
nati per servire gli altri.
Il Bodhisattva ha un
cuore grande che offre completamente agli esseri senzienti e questa è
una via per uscire dalla sofferenza. Il nostro corpo è sofferenza,
ma percorrendo questo sentiero abbiamo la possibilità di uscire dal
terzo livello di sofferenza.
Un’altra
via d’uscita è offerta dal Vajrayana,
che ci porta alla trasformazione del corpo di sofferenza in un corpo
di arcobaleno.
Sono
tre sentieri distinti, affatto in contraddizione tra loro, sono stadi
di un unico percorso: per poter dedicare completamente il proprio
corpo agli altri è necessario non avere alcun attaccamento ad esso e
dunque, con il distacco e la sua offerta agli altri si realizza il
Bodhicitta. Il dedicare completamente il proprio corpo a tutti gli
esseri con una pura mente altruistica porta alla trasformazione del
corpo di sofferenza in un corpo di arcobaleno.
Perché il corpo di
arcobaleno è buono? Perché con il corpo fisico si possono servire
gli esseri in modo limitato, secondo i limiti della materia, ma per
poter essere di beneficio illimitatamente a tutti gli esseri
senzienti, il corpo fisico deve trasformarsi in corpo di arcobaleno,
corpo di chiara luce.
Nel
buddhismo sono presenti i quattro Kaya,
i quattro corpi del Buddha:
1. Sambhogakaya
2. Nirmanakaya
3. Dharmakaya
- Svabhavikakaya
Con
i quattro corpi del Buddha è possibile porsi al servizio di tutti
gli esseri senzienti. Attraverso la pratica della consapevolezza e la
realizzazione della Vacuità si può trasformare il proprio corpo in
un corpo di arcobaleno, raggiungendo l’illuminazione in questa
stessa vita.
Ma anche se non
otteniamo l’illuminazione in questa vita possiamo dedicare, come
Bodhisattva, il nostro corpo agli altri. E se non riusciamo a
raggiungere questo livello di pura mente altruistica, possiamo
comunque sviluppare l’attitudine di non attaccamento al corpo
concentrandoci nella pratica spirituale. Queste sono le tre vie per
uscire dalla sofferenza, anche dal terzo livello di Dukkha, la
sofferenza del condizionamento, che pare così inscindibile dalla
nostra realtà fisica.
Non
si deve mai dimenticare che:
- quando meditiamo e stiamo particolarmente bene, non è felicità;
- quando ci sentiamo in pace, rilassati e sereni, non è felicità;
- quando abbiamo la sensazione di essere molto forti, sani e potenti, non è felicità.
Si
tratta di semplici emozioni e quindi cause di sofferenza, da cui
possiamo essere liberati soltanto dal Dharma. Buddha ha avuto bisogno
di sei anni per realizzare le quattro nobili verità e ciò dimostra
come il cammino verso tale obiettivo non sia assolutamente facile.
Meditazione non è
avvertire emozioni, essere gratificati, sentirsi bene, meditazione è
l’osservazione della realtà al fine di uscire dallo stato di
sofferenza. Riferendoci al terzo livello della sofferenza, la
sofferenza del condizionamento, potremmo semplicemente dire che:
“questo tipo di sofferenza è il nostro corpo”.
Ciò
non significa che il nostro corpo sia negativo, perché la prima
nobile verità, la sofferenza, non è soltanto negativa e ha in sé
altre qualità positive.
Se non ci fosse la
prima nobile verità non potrebbero nemmeno esserci la seconda, la
terza e la quarta.
Se non ci fosse la
prima nobile verità non potrebbero esserci nemmeno il sentiero, la
realizzazione, l’illuminazione.
La prima nobile verità
è tanto importante quanto lo è l’illuminazione.
La
sofferenza deve essere osservata da diverse prospettive, non da una
sola; se ad esempio abbiamo dolore in una parte del corpo e fissiamo
questa sofferenza con un’unica ottica, ci sentiamo depressi e
impotenti, ma se analizziamo lo stesso dolore da più punti di vista
il nostro atteggiamento mentale non potrà essere completamente
negativo. La sofferenza ha aspetti positivi, il nostro corpo ha
aspetti più positivi che negativi: l’aspetto supremo è che il
nostro corpo può essere trasformato in un corpo di arcobaleno; il
nostro corpo ha la qualità inestimabile di poter essere di grande
beneficio agli altri esseri. Il nostro prezioso corpo è la
condizione migliore per praticare il Dharma. Queste sono le
grandissime qualità del nostro corpo, ma dobbiamo essere sempre in
ogni momento consapevoli di trovarci nella condizione della
sofferenza e, quando ne avvertiamo tutto il peso, dobbiamo
altrettanto essere consapevoli delle qualità del nostro corpo.
Sono
due realtà e devono essere tenute in evidenza entrambe e, con questa
riflessione, concludiamo l’analisi dei tre tipi di sofferenza.
Gli
incontri sul buddhismo non devono essere intesi come lezioni,
sarebbe sbagliato pensare “bene,
oggi ho ascoltato, domani metterò in pratica”;
è importante porsi in atteggiamento contemplativo e, già
nell’ascolto, dovrebbe avvenire qualche realizzazione; è
fondamentale aprire la mente a questa dimensione. Per questo motivo
la spiegazione è stata così dettagliata, con concetti ripetuti e
accompagnati da esempi concreti.
Domanda:
Non
mi è chiaro il concetto di compassione, perché non riesco a
collegare la compassione con la Vacuità, in italiano “compassione”
significa “soffrire insieme” e quindi, come si può provare
sofferenza e nel contempo Vacuità che, credo, voglia dire assenza di
qualsiasi tipo di sentimento.
Lama:
In
tibetano la parola “compassione” deriva dal termine sanscrito
“Karuna” ed ha un significato completamente diverso rispetto le
lingue occidentali. Nella filosofia buddhista la Vacuità indica la
realtà ultima di tutti i fenomeni ed è il livello ultimo della
compassione. La Vacuità indica la realtà ultima di noi stessi e
degli altri e se non la si percepisce non può esserci compassione,
non c’è Karuna.
Domanda:
Posso chiederti di spiegare cos’è Karuna?
Lama:
Non
è facile tradurre la parola Karuna, ma potremmo definirla con
“prendersi cura degli altri”, non inteso come “preoccuparsi”
ma come “accogliere la realtà degli altri occupandosi di loro con
mente altruistica”. E’ molto importante anche non essere
invadenti, non disturbare, non essere di ostacolo agli altri. Bisogna
saper stare accanto agli altri con consapevolezza e questo può
essere realizzato solo attraverso la Vacuità.
Domanda:
io avevo capito ancora in modo diverso, cioè che la domanda iniziale
non fosse tanto riferita alla Vacuità in se stessa, quanto all’aver
compassione della Vacuità dell’altro, cioè della natura vuota
degli esseri.
Lama:
La
compassione è legata alla realizzazione della Vacuità, di me,
dell’altro e addirittura della Vacuità della compassione stessa.
Domanda:
A
questo proposito vorrei
raccontarvi
che cosa è
successo
durante un seminario sul tema “La morte e l’aiuto ai morenti”.
Abbiamo discusso l’argomento della compassione ed è emerso che non
significa condividere le esperienze negative assorbendole. Se una
persona malata è depressa non ci si deve deprimere con lei, perché
in questo modo aumenteremmo la sua sofferenza. L’atteggiamento
corretto di fronte ad una persona che soffre non è la fuga ma il
saper rimanere nella presenza della sofferenza dell’altro. Per
mantenere questa presenza, però, bisogna davvero avere il senso
della Vacuità, altrimenti ci si lascia trascinare nel vortice del
dolore aggravandolo e si è più di danno che di beneficio. Per
questo credo di aver capito che la sofferenza ha sempre un po’ di
Vacuità.
Lama:
E’
molto importante mantenere la propria stabilità per aiutare gli
altri.
Domanda:
Quali sono le pratiche per mantenere la stabilità?
Lama:
Meditazione!
Meditazione
è “Ana-Pana” “Shiné” cioè meditazione nella consapevolezza
del respiro. Nella scuola Theravada questa è la pratica
fondamentale, molto bella, semplice ed estremamente efficace.
Respirare con consapevolezza. Verificate quanti respiri fate in
consapevolezza, non sono tanti. Tutta la pratica Theravada passa
attraverso la pratica del respiro consapevole, riconoscendovi una
fondamentale importanza. In Thailandia i monaci non lavorano, sono
nutriti dalla gente, il loro unico compito è quello di dedicare
tutto il tempo alla meditazione continuata, in piena consapevolezza
del loro respiro, nell’immobilità come nel movimento.
Seconda Nobile Verità
Questa
mattina abbiamo esaminato dettagliatamente i tre tipi di Dukkha,
della prima nobile verità, e ora invece affronteremo le seguenti tre
nobili verità:
- la Causa della sofferenza;
- la Cessazione della Sofferenza;
- il Sentiero che conduce alla Cessazione della Sofferenza.
Tutto
ciò che produce sofferenza è parte della seconda nobile verità:
“la causa della sofferenza”, del Dukkha, dunque tra la prima e la
seconda nobile verità non vi è una grande differenza e la si trova
solo nella modalità di osservazione della sofferenza: nel primo modo
descriviamo la sofferenza così com’è, nel secondo guardiamo alla
sofferenza vedendone le cause.
Esistono
fenomeni che rientrano nella prima nobile verità, ma non nella
seconda, che possono essere considerati sofferenza, ma non causa di
sofferenza. Un esempio è dato dalle “terre pure” così spesso
rappresentate nel buddhismo; presupponiamo di credere nella loro
esistenza e vediamo che appartengono alla dimensione della prima
nobile verità, la sofferenza, ma non aderiscono alla seconda nobile
verità, non sono causa di sofferenza. Le terre pure sono nella
dimensione del Samsara, quindi se anche le raggiungiamo, ci troviamo
ancora nella prima nobile verità della sofferenza, siamo nel
Samsara, non nel Nirvana.
La terra pura si trova
nella prima nobile verità, ma non è un luogo che produce
sofferenza, mancando dunque le condizioni di essere causa di
sofferenza, non è nella seconda nobile verità. Si è nella
condizione di Dukkha, ma non nella condizione di causa di Dukkha. A
volte la spiegazione delle Terre Pure assomiglia a quella del
Paradiso cristiano, nel senso che quando si è raggiunto questo luogo
non si regredisce.
Un altro esempio di
fenomeno che rientra nel Dukkha, ma non è causa di Dukkha, è lo
stato di “ultima rinascita”, dell’ultimo corpo che si ha prima
di raggiungere il Nirvana, prima dell’ottenimento
dell’illuminazione. Questo corpo appartiene alla prima nobile
verità, ma non alla seconda, perché non produrrà più nessuna
causa di Dukkha e non dovrà più rinascere.
Sono
pochi i fenomeni che appartengono alla prima nobile verità ma non
alla seconda, mentre possiamo affermare con sicurezza che tutto ciò
che è parte della seconda nobile verità è anche parte della prima.
Osservando queste due
nobili verità vediamo che vi sono tre possibili combinazioni:
1) Fenomeni che
appartengono alla prima nobile verità, Dukkha;
2) Fenomeni che
appartengono ad entrambe le due nobili verità, Dukkha e causa di
Dukkha;
- Fenomeni che non appartengono a nessuna delle due nobili verità, non sono né Dukkha né causa di Dukkha.
Sintetizzando
potremmo affermare che la prima e la seconda nobile verità sono due
diversi aspetti di uno stesso fenomeno, il Dukkha, la sofferenza.
Credo però opportuno
aprire una parentesi e soffermarci sulla questione delle “Terre
pure” perché c’è molta confusione in proposito.
Nelle scritture
Buddhiste si descrivono molte terre pure: la Terra pura di
Avalokiteshvara, la Terra pura di Amitabha, la Terra pura di Tara, la
Terra pura di Maitreya e così via. Anche noi praticanti, nel futuro,
avremo la nostra Terra pura, ma allora che cos’è questa Terra
Pura? Un tempo il Tibet era la Terra pura di Avalokiteshavara,
infatti il termine “Potala” significa “la Terra pura di
Avalokiteshvara” e probabilmente in origine il Potala era
localizzato in territorio indiano. C’è poi la Terra pura del
Buddha Amitabha, che è Sukhavati, e la Terra pura del Buddha
Avalokiteshvara che è Tushita, e la Terra pura di Kalachacra, che è
la notissima Shambala. E la Terra pura di Tara come si chiama?
Qualcuno conosce il suo nome? E’ la stessa Terra pura di
Avalokiteshvara, sono insieme nel Potala.
E’
difficile spiegare questi concetti, generalmente le persone pensano
che la Terra pura sia “...un
qualche cosa in un altro posto....”
che, appena raggiunto, rappresenta la salvezza. Alcuni ritengono che
morendo in combattimento nella guerra di Shambala, si sarà salvi. La
guerra di Shambala sarebbe l’ultima guerra, così come prima ci
sono state le guerre sante cristiane, islamiche ora tocca ai
Buddhisti, no? Queste descrizioni sembrano davvero fantascienza e non
devono assolutamente essere recepite letteralmente, sono leggende che
appartengono ad una determinata cultura e letteratura ma possono
generare una grande confusione nelle persone.
Abbiamo poi la Terra
pura di Maitreya “Tushita” che in alcune spiegazioni viene
descritta come un edificio, un monastero, circondato da una città
che ha lo stesso nome, Tushita, rappresenta quindi due luoghi
distinti e solo entrando nel monastero si è salvi.
Questi
esempi servono a far comprendere come sia possibile creare le
descrizioni più fantasiose, ma le
Terre pure non sono altro che la purezza della mente.
Avalokiteshvara
rappresenta la compassione, Maitreya l’amorevole gentilezza,
Amitabha la benevolenza, Tara l’azione del Buddha. Queste Divinità
protettrici, le immagini illuminate, sono la raffigurazione simbolica
delle qualità intrinseche allo stato dell’illuminazione. La Terra
pura significa la Mente pura, la Terra è la Mente.
Tentare
di spiegare la terra pura è davvero difficile, è un argomento a cui
è bene accostarsi con prudenza, da approfondire con calma,
riflessione attenta e cautela. Troppe persone iniziano a praticare
visualizzando la Terra pura, e poi si confondono e si perdono perché
non è affatto chiaro in quale direzione si diriga la loro pratica.
Riprendendo
la spiegazione della seconda nobile verità, la causa di Dukkha,
dobbiamo osservare ciò che ha la potenzialità di produrre
sofferenza, riconoscere ciò che ne ha la capacità. La causa della
sofferenza è normalmente individuata nel karma e nelle emozioni
conflittuali.
Con
“karma” si intende un’azione derivante da un atto volontario
che produce effetti; principalmente si tratta di un’azione mentale
che genera un’azione verbale che, a sua volta, determina un’azione
fisica.
L’azione mentale,
l’attività mentale è distinta in tre tipi:
- azione positiva (da cui scaturisce felicità);
- azione negativa (da cui deriva sofferenza);
- azione neutra (che determina uno stato neutro, né di felicità, né di sofferenza).
Queste tre azioni
appartengono contemporaneamente alla prima e alla seconda nobile
verità, sono Dukkha e causa di Dukkha e sono provocate dalle
emozioni conflittuali, individuabili principalmente in:
1. IGNORANZA
2. ATTACCAMENTO
- ODIO
L’ignoranza
è fondamentale, indicata nel Buddhismo come causa prima del Samsara,
il suo creatore. Dall’ignoranza derivano attaccamento e odio.
L’ignoranza di per sé
non è né positiva né negativa, appartiene ad uno stato neutro, ma
se a causa dell’ignoranza noi percepiamo una realtà come piacevole
nasce l’attaccamento e se, viceversa, la percepiamo come repulsiva
nasce l’odio. L’ignoranza è paragonabile ad una mente
sonnolenta, assopita, non è in grado di emettere giudizi di per sé,
ma ciò che scaturisce da essa crea i condizionamenti del giudizio
che distingue ciò che piace e ciò che non piace. Gli oggetti che
attraggono provocano attaccamento e quelli che respingono generano
l’odio.
Così
si crea la sofferenza, articolata nelle tre modalità conosciute:
- La sofferenza della sofferenza;
- La sofferenza del cambiamento;
- La sofferenza del condizionamento
Questa
è la seconda nobile verità, la causa della sofferenza. Quando una
realtà appare piacevole, buona, positiva, immediatamente in noi
sorge l’attaccamento che causa sofferenza, è esso stesso
sofferenza, e quando un’altra realtà presenta aspetti spiacevoli
brutti, cattivi, negativi in noi nasce avversione, che è causa di
sofferenza, è sofferenza. In entrambe le situazioni siamo immersi
nella dimensione della sofferenza ed è davvero difficile venirne
fuori perché non sappiamo riconoscerle come sofferenza e causa di
sofferenza. Solo gli esseri nobili, esseri che hanno raggiunto
un’elevata realizzazione spirituale, gli Arya, sono in grado di
individuare e comprendere le due verità e per questo esse vengono
chiamate “nobili verità”, o nobili realtà.
E’ necessario, al
fine di poter comprendere le cause della sofferenza, conoscere e
riflettere sulla concatenazione dei “Dodici anelli dell’origine
interdipendente”. Al primo posto troviamo il nostro dio,
l’ignoranza, il creatore del samsara; dall’ignoranza sorgono le
azioni volitive che determinano degli effetti, cioè karma.
Come
si determina questo processo?
All’ignoranza le cose
appaiono piacevoli o spiacevoli, se piacevoli sorge l’attaccamento
che produce l’azione del volere, se spiacevoli nasce l’avversione,
che determina l’azione del respingere. Questa è l’azione
volitiva, o karma, che scaturisce dall’ignoranza e che lascia
l’impronta nel nostro continuum mentale determinando il terzo
anello, quello della coscienza.
Le impronte lasciate
nella coscienza mentale matureranno solo quando incontreranno le
circostanze e le condizioni favorevoli per il loro sviluppo,
condizioni favorevoli che si trovano nell’ottavo e nel nono anello
e sono rispettivamente l’avere desiderio - bramosia e attaccamento
- voler afferrare. Queste due condizioni danno molta energia al terzo
anello, quello della coscienza.
Dall’incontro
dell’impronta depositata nella coscienza con le condizioni
favorevoli, al loro maturare cioè il desiderio e l’attaccamento,
nasce il decimo anello, quello del divenire. Anche il divenire è
un’azione volitiva, ma assai più potente di quella prodotta nel
secondo anello, il karma, e ingenera un risultato immediato, è la
causa diretta che da origine alla rinascita.
Gli
altri anelli della catena sono: il quarto - nome e forma; il quinto -
sorgente dei sensi; il sesto - contatto sensoriale; il settimo -
prodursi di sensazioni.
Il quarto, nome e
forma, indica semplicemente che si è entrati nella vita successiva;
con la rinascita si entra automaticamente nel quinto anello, quello
della sorgente dei sensi che, maturando, diventa contatto, (sesto
anello) e il contatto causa sensazioni, (settimo anello).
Osservando
la nostra intera vita vediamo che essa oscilla costantemente tra
queste due realtà: contatto sensoriale e sensazione che deriva dal
contatto. Perché una cosa ci piace e l’altra no? Produciamo ogni
sensazione di attaccamento o repulsione perché possiamo toccare,
vedere, gustare, sentire una determinata cosa. Contatto - sensazione
rappresentano il nostro muoverci nel Samsara.
Possiamo
comprendere perché sia così importante saper rimanere in uno stato
mentale neutro perché solo in questo modo possiamo evitare di
diventare schiavi del meccanismo di contatto - sensazione. Anche di
fronte alle cose più insignificanti noi ci lasciamo intrappolare dai
giudizi: “questo vestito mi piace, quest’altro non mi piace”
oppure “questo tessuto mi da sensazioni gradevoli, quest’altro
sgradevoli”.
Contatto e Sensazioni
sono causa costante di sofferenza, un’altalena che produce
ininterrottamente sofferenza fino a quando giungiamo all’undicesimo
anello, quello della vecchiaia e della morte. Vecchiaia e morte sono
intrinsecamente legate a nome e forma, il quarto anello, che
determina la nascita. Possono realizzarsi vecchiaia e morte solo se
vi è nascita.
Perché vecchiaia e
morte sono collocate in un unico anello? L’undicesimo anello è
nascita (ka), il dodicesimo è morte (schi), ma non c’è un anello
apposito per la vecchiaia, perché?
Le
scritture indicano chiaramente la risposta che, se riflettete un
attimo, è evidente: chi nasce certamente muore, ma non sempre
invecchia, può morire giovane. La stessa cosa vale per il quarto
anello indicato con nome e forma, perché esistono esseri che hanno
un nome, ma non hanno forma.
E’ fondamentale
conoscere la concatenazione degli eventi dimostrata dai dodici anelli
di origine interdipendente. Riassumendo, rileviamo che ci sono due
azioni, tre emozioni conflittuali e i restanti sette anelli che sono
Dukkha, sofferenza. Ovviamente tutti i dodici anelli sono Dukkha, ma
questi sette sono particolarmente espressione di sofferenza.
Soffermandoci a
riflettere sulla concatenazione dei dodici anelli si comprende come
si crea il Samsara e come si rimane prigionieri in esso.
I due anelli che
costituiscono le azioni volitive sono il secondo - il karma, e il
decimo - il divenire. I tre anelli delle emozioni conflittuali, causa
delle azioni volitive, sono: il primo - l’ignoranza; l’ottavo -
il desiderio e la bramosia; il nono - l’attaccamento e l’afferrare.
Questi
cinque anelli si riferiscono alla seconda nobile verità: la causa di
Sofferenza, Dukkha. Gli altri sette sono relativi alla prima nobile
verità: sono Sofferenza, Dukkha.
Domanda:
Puoi
ripetere per favore, mi sto confondendo.
Lama:
Karma
e Divenire (secondo e decimo anello) determinano le azioni volitive;
Ignoranza, Desiderio e
Attaccamento (primo, ottavo e nono anello) determinano le emozioni
conflittuali.
Tutti e cinque
appartengono alla seconda nobile verità e sono causa di sofferenza.
L’ anello, nome e
forma, si produce nel momento della rinascita che con il crescere
determina l’anello della sorgente dei sensi, entrambi sono
sofferenza. Dall’incontro delle facoltà sensoriali con l’oggetto
scaturisce il contatto che diviene Dukkha. La sensazione che sorge
dal contatto è Dukkha. Ad esempio: “ho meditato, mi sento
particolarmente bene, rilassato, appagato, sono pervaso da una
sensazione piacevole”, che è comunque Dukkha. La nascita è Dukkha
esattamente come la morte e la vecchiaia.
Per queste ragioni il
Buddha ha insistito sulla necessità di conoscere la sofferenza,
aggiungendo che bisogna abbandonare la causa della sofferenza, ma
solo conoscendo i sette anelli che sono Dukkha possiamo abbandonare
gli altri cinque che sono causa di Dukkha, cioè le azioni volitive e
le emozioni conflittuali. Soltanto così possiamo liberarci dal
Samsara, uscire dalla catena dei dodici anelli dell’origine
interdipendente.
Come dobbiamo meditare
sui dodici anelli? Osserviamo che:
1. Alla
base del Samsara vi è l’ignoranza;
2. a causa
dell’ignoranza sorgono le azioni volitive;
3. a causa delle
azioni volitive sorge la coscienza;
4. a causa della
coscienza sorgono nome e forma;
5. a causa di nome e
forma sorgono le sorgenti sensoriali;
6. a causa delle
sorgenti sensoriali sorge il contatto;
7. a causa del
contatto sorge la sensazione;
8. a causa della
sensazione sorge il desiderio, la bramosia;
9. a causa della
bramosia sorge l’attaccamento, l’afferrare;
10. a causa
dell’afferrare sorge il divenire;
11. a causa del
divenire sorge la nascita;
- a causa della nascita sorgono la vecchiaia e la morte.
E poi ripetiamo il
percorso invertendo il punto di osservazione:
1.
Alla
base del Samsara vi è l’ignoranza, quindi:
- eliminando l’ignoranza cessano le azioni volitive;
- eliminandole azioni volitive cessa la coscienza;
- eliminando la coscienza cessano nome e forma;
- eliminando nome e forma cessa la facoltà sensoriale;
- eliminando la facoltà sensoriale cessa il contatto;
- eliminando il contatto cessa la sensazione;
- eliminando la sensazione cessa il desiderio, la bramosia;
- eliminando la bramosia cessa l’attaccamento, l’afferrare;
10. eliminando
l’afferrare cessa il divenire;
11. eliminando il
divenire cessa la nascita;
12. eliminando
la nascita cessano vecchiaia e morte.
Questo è il metodo con
cui meditare sulle quattro nobili verità. Analizzando in modo
conseguente i frutti dell’ignoranza, medito sulle prime due nobili
verità, la Sofferenza e la Causa della Sofferenza e osservando tutto
ciò che consegue all’eliminazione dell’ignoranza, medito sulla
terza e quarta nobile verità, sulla Cessazione della Sofferenza e
sulla Via che conduce alla Cessazione della Sofferenza.
Si
ha così la visione di come si entra nel Samsara e di come sia invece
possibile liberarsi dalla schiavitù di questa ruota senza fine. Una
meditazione avulsa dalla conoscenza dei dodici anelli dell’origine
interdipendente ci fa permanere statici nel Samsara, senza indicarci
come vi siamo giunti e soprattutto, come potremmo uscirne.
Oggi ho cercato di
darvi spiegazioni molto pratiche sulle quattro nobili verità.
Domanda:
Perché l’attaccamento, anche quello più naturale come
l’attaccamento e la dipendenza del neonato alla madre, che è
motivo stesso di vita, rientra nella sofferenza?
Lama:
L’attaccamento
con cui viviamo tutta la nostra vita crea il reame del desiderio ed è
proprio questo vivere nel desiderio e nell’attaccamento che ci fa
essere nel samsara, mentre ciò a cui aneliamo è essere liberati,
uscire dal samsara e non rivivere continuamente in esso. Dobbiamo
distinguere tra attaccamento e compassione. I Bodhisattva ritornano
volontariamente nel samsara con la motivazione della compassione, noi
invece vi ritorniamo a causa dell’attaccamento; entrambi viviamo
nel samsara, ma con differenti motivazioni che portano ovviamente a
risultati diversi, a conseguenze diverse. I Bodhisattva sono nel
samsara con lo scopo di beneficare gli altri esseri senzienti, mentre
il nostro fine è di beneficare noi stessi o, al massimo, quei pochi
che amiamo. Per questa ragione soffriamo di timori, di paure, di
ansietà e incontriamo continuamente difficoltà e problemi, mentre i
Bodhisattva sono liberi da tutto questo. Quindi il fatto di vivere
nel samsara non è di per sé negativo, ma è il modo con cui lo si
vive che ne determina la sostanziale differenza.
Terza Nobile Verità
La
terza nobile verità: “la
cessazione della sofferenza”
presenta quattro caratteristiche:
1.
Gopa
o
fine della sofferenza;
2. Shiva che
significa pace, stato di pacificazione;
3. stato
di piena soddisfazione;
4. stato
di completo abbandono della sofferenza, abbandono del Dukkha.
Queste
quattro caratteristiche della terza nobile verità permettono la
realizzazione del Nirvana,
ciò a cui tutti aneliamo.
Una
temporanea cessazione di sofferenza, un temporaneo stato di pace, un
temporaneo stato di soddisfazione e un temporaneo stato di abbandono
della sofferenza non possono essere considerati la verità della
cessazione della sofferenza, della terza nobile verità. Soltanto
quando vi è una completa e totale cessazione, una completa e totale
pacificazione, una completa e totale soddisfazione o beatitudine, e
un completo e totale abbandono della sofferenza, solo allora si potrà
dire che questa è la verità della cessazione della sofferenza, la
realizzazione della terza nobile verità che può avvenire solo con
la liberazione dal Samsara, con l’esserne usciti, al di fuori dei
dodici anelli dell’origine interdipendente, il vero stato a cui
tutti aspiriamo.
Quarta Nobile Verità
Lo
stato di cessazione della sofferenza deve essere realizzato, non può
esserci dato da altri, non lo possiamo avere come premio di gare e
competizioni, né comperarlo al supermercato, l’unico modo per
ottenerlo è realizzarlo in noi stessi, ma come? Seguendo il sentiero
indicato nella quarta nobile verità, la via che conduce alla
liberazione dal Samsara.
La via che porta alla
cessazione della sofferenza può essere seguita con modalità
differenti: un primo modo è rappresentato dall’ottuplice sentiero,
un secondo è l’esercizio dei tre addestramenti superiori, un altro
consiste nei tre principi del sentiero, un altro ancora è relativo
alle sei Paramita, e, infine, quello dei cinque sentieri.
Esaminiamoli uno alla volta.
Il
Nobile
Ottuplice Sentiero,
importantissimo
e fondamentale, comprende:
1. Retta
Visione
2. Retta Percezione
3. Retta Parola
4. Retta Azione
5. Retto modo di
Sussistenza
6. Retto Sforzo
7. Retta
Consapevolezza
- Retta Concentrazione
I
primi due punti: “retta visione” e “retta percezione” sono
parte della Saggezza; le altre tre: “retta parola”, “retta
azione” e “retta sussistenza”, aderiscono all’ Etica o
Moralità; le ultime tre, “retto sforzo”, “retta
consapevolezza” e “retta concentrazione” appartengono alla
Concentrazione.
Questi
tre aspetti: SAGGEZZA,
ETICA - MORALITA’ e CONCENTRAZIONE
sono i Tre
Addestramenti Superiori.
I
Tre Principi del Sentiero sono:
RINUNCIA,
COMPASSIONE o BODHICITTA, e SAGGEZZA o REALIZZAZIONE DELLA VACUITA’.
Le
Sei
Paramita sono:
1. Generosità
2. Etica - Moralità
3. Pazienza
4. Perseveranza
5. Concentrazione
- Saggezza
I
Cinque
Sentieri sono:
1. Il
Sentiero dell’Accumulazione
2. Il Sentiero della
Preparazione
3. Il Sentiero della
Visione o Verità
4. Il Sentiero della
Meditazione o Familiarità
- Il Sentiero del Non più apprendimento.
Dei
cinque Sentieri si tratta nel Sutra del Cuore e il mantra così
recita:
«Om
Gaté Gaté Paragaté Parasamgaté Bodhi Soha»
Il
primo Gaté
si
riferisce al primo sentiero, dell’accumulazione; il secondo Gaté
al sentiero della preparazione; Paragaté
al
sentiero della visione; Parasamgaté
al sentiero della meditazione; Bodhi Soha al sentiero del non più
apprendimento.
Penso
che questo mantra sia particolarmente importante, il migliore, e ne
consiglio sempre la pratica. E’ il mantra del cammino di colui che
è andato oltre e ha raggiunto l’illuminazione.
Questi sono i possibili
percorsi proposti dal Buddhismo e ciascuno può scegliere quello che
gli è più consono, da dove partire. Ogni sentiero è valido e
conduce all’obiettivo finale. Così, come in Italia si dice che
tutte le strade portano a Roma, tutte queste vie portano
all’illuminazione, alla Buddhità.
Domanda:
Che differenza c’è tra un sentiero e l’altro? Molti aspetti si
intersecano, ad esempio la moralità è anche una parte delle sei
Paramita
Lama:
Queste sono le intersezioni principali, se si vuole andare da
Milano a Roma, obbligatoriamente bisogna attraversare determinati
crocevia, così se si vuole raggiungere l’illuminazione,
necessariamente si deve passare dagli incroci strategici essenziali.
Domanda:
Ma in sostanza ogni percorso è la stessa cosa?
Lama:
Certamente, qualsiasi cibo serve per nutrire, i sapori possono
essere diversi, può essere cucinato in molti modi, ma la sua
capacità nutrizionale rimane la stessa. Non è necessario dividere,
incasellare in modo rigido le varie possibilità di percorso.
E’ invece importante
ricordare almeno il nome e il numero dei differenti sentieri che
portano all’illuminazione, trasferendoli in ogni momento della
vita, è necessario praticarli sempre. L’ottuplice sentiero e le
sei paramita sono basilari, non sono una bella teoria da studiare, su
cui filosofeggiare, ma devono essere vissuti in ogni atto, parola e
pensiero, in ogni istante, a casa, in ufficio, al supermercato,
ovunque e in qualsiasi circostanza. Praticando in questo modo si
raggiunge la terza nobile verità, la cessazione della sofferenza.ù
Vacuità, Nirvana e Illuminazione
Cessazione
della sofferenza, Nirvana, Illuminazione, altro non sono che
VACUITA’, quindi l’obiettivo ultimo è la realizzazione di quella
Vacuità. Ogni Vacuità ha la stessa natura: la mia Vacuità, la
vostra, la Vacuità della bottiglia, della casa, dell’elefante,
sono tutte Vacuità, ma qualcuna può essere più importante e
qualcuna meno. La Vacuità dell’illuminazione è più importante
della Vacuità dell’elefante, ma entrambe hanno la stessa natura.
Ai fini
dell’Illuminazione non è sufficiente una conoscenza puramente
intellettuale, filosofica, una comprensione esclusivamente teorica
della Vacuità, ma è indispensabile realizzarla, percepirla
direttamente. La distinzione è fondamentale: conoscere la Vacuità a
livello intellettuale non porta alla realizzazione
dell’illuminazione.
Realizzare la Vacuità
significa sentirla, percepirla, sperimentarla e applicarne
l’esperienza alla vita quotidiana. Soltanto in questo modo si
ottiene la cessazione della sofferenza.
Oggi gli scienziati
sono in grado di avere una conoscenza intellettuale dettagliata della
Vacuità, e possono anche essere gratificati dal livello acquisito,
ma questo tipo di nozionismo, assolutamente teorico, non porterà
nessun beneficio alla loro vita né a quella degli altri, rimarrà
una cognizione sterile e soltanto se sapranno trasferirla
nell’esperienza della vita, se la realizzeranno in loro stessi,
potrà portare all’illuminazione.
Analizzare la Vacuità,
sviscerare il ragionamento in modo da fornirne una descrizione
corretta aiuterà ad una buona comprensione teorica, ma sarà
assolutamente inutile alla sua realizzazione se la stessa non si
trasforma in esperienza diretta e personale.
E’
necessario realizzare direttamente la Vacuità
dell’IO
e la Vacuità
del MIO.
Realizzare la Vacuità
del libro, non porta alcun cambiamento, ciò si determina soltanto
quando si è in grado di realizzare la Vacuità in se stessi.
Realizzare la Vacuità del sé significa uscire dall’ignoranza. La
causa del Dukkha, del samsara è l’ignoranza che concepisce il sé
e lo afferra. Fino a quando si genera il sé e lo si afferra sarà
impossibile abbandonare la sofferenza. Realizzare la Vacuità per
ottenere la completa cessazione della sofferenza significa realizzare
la Vacuità del sé, eliminando completamente l’attitudine ad
afferrarlo.
Realizzare
la “Non-differenza” tra il sé e la Vacuità del sé porta alla
completa cessazione della sofferenza. La forma è vacua e la Vacuità
non è differente dalla forma. Così è scritto nel Sutra del Cuore.
L’io è vacuo e
quella Vacuità non è differente dall’io.
L’ignoranza
è l’attitudine che afferra un sé, che concepisce un sé, ma
ignora, non vede, la Vacuità del sé.
La cessazione della
sofferenza realizza la non differenza tra la Vacuità e il sé. Il sé
è vacuo, la Vacuità non è differente dal sé.
La realizzazione della
Vacuità del sé è il sentiero che conduce alla cessazione della
sofferenza. La purezza ultima del sé è quella definita Vacuità non
differente dal sé e che è realizzata dall’assenza del sé, dalla
realizzazione dell’assenza del sé.
E’
veramente arduo approfondire questo concetto perché è quasi
impossibile spiegare la Vacuità, non la si può esprimere a parole
ed è al di là della percezione, la si deve sperimentare.
La verità della
cessazione della sofferenza va al di là delle parole, al di là
delle percezioni ordinarie, è per noi distante come la luna.
Tentando di spiegare la
Vacuità mi sembra di essere un bambino che gioca con i modellini
della Ferrari, ma chi guida veramente le Ferrari sono Schumacher e
Barrichello, a me è proprio impossibile!
Posso tentare di dirvi
che questo è il mio sentiero, il mio tentativo, ma ognuno deve
percorrere il proprio sentiero, porre in atto il proprio tentativo
per giungere alla realizzazione.
E’ un errore credere
che ricevendo iniziazioni, trasmissioni, benedizioni, tutto si
realizzi facilmente e automaticamente, è invece necessario lavorare
incessantemente su se stessi. Ognuno è totalmente responsabile di sé
e delle realizzazioni che ottiene, nessun altro può sostituirsi a
lui.
Praticando in questo
modo si può facilmente intravedere un baleno, avere un’intuizione,
una breve visione superficiale della Vacuità della realtà esterna,
ma questa non è ancora realizzazione della Vacuità, la
realizzazione della Vacuità avviene solo nella realizzazione della
Vacuità dell’io.
Domanda:
In
quali
occasioni
è
consigliato praticare il Sutra del Cuore?
Lama:
Sempre, in qualsiasi momento, non esistono occasioni particolari
né tanto meno è necessario aver ricevuto iniziazioni, trasmissioni
e benedizioni, chiunque può praticarlo. Sarebbe un errore porre
limiti, bisogna evitare che iniziazioni, trasmissioni e benedizioni
diventino un mezzo di potere da esercitare sugli altri, il Buddha non
le ha mai ricevute, si è realizzato da se stesso. Il Dharma è già
in noi, ciò che a noi resta da fare è realizzarlo. Il Dharma è di
tutti e nessuno ha autorità sul Dharma. Il Dharma è la qualità
interiore di ogni essere ed è la sorgente della speranza della
liberazione, dell’illuminazione.
Bisogna
anche essere vigili per non incorrere in facili fraintendimenti, a
volte ci sono persone che dicono: “se
non seguo le parole del Buddha finirò negli inferi”,
ma questo è scorretto, è un grossolano errore, il Buddha è mosso
dalla compassione, non manda nessuno all’inferno e nemmeno punisce
nessuno. Dobbiamo praticare il Dharma per il bene nostro e di tutti
gli esseri, non per infondate e assurde paure. Il Dharma è in noi,
nella nostra mente e abbiamo ogni possibilità per praticarlo.