Sunday 24 November 2013

Il CANTO delle QUATTRO CONSAPEVOLEZZA del SETTIMO DALAI LAMA













Commentario di Il CANTO delle QUATTRO CONSAPEVOLEZZA  del SETTIMO DALAI LAMA




Geshe Gedun Tharchin
30 novembre - 1 dicembre 2002
ROME











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Commentario di 
Il CANTO delle QUATTRO CONSAPEVOLEZZA
 del SETTIMO DALAI LAMA
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Ven. Geshe Gedun Tharchin






Sviluppare la Motivazione
La Consapevolezza del Maestro
La Consapevolezza della Compassione
La Consapevolezza della Divinità
La Consapevolezza della Vacuità
Il Canto del Leone
Preghiera e Dedica















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Sviluppare la Motivazione

Apriamo l’incontro con le preghiere di “Rifugio e Generazione della Motivazione del Risveglio” e delle “Quattro Aspirazioni Incommensurabili”, o “Quattro Pensieri Illimitati”.
Come voi ben sapete ogni pratica inizia sempre con le preghiere del Rifugio nei tre Gioielli e della Generazione della Mente Altruistica che genera i pensieri illimitati, senza confini. Sono preghiere brevi ma ricchissime di significato.
Prendere rifugio nei tre Gioielli significa affidarsi al Buddha, al Dharma e al Sangha nella visione profonda.
Il Buddha rappresenta la persona illuminata, ma non si riferisce all’aspetto fisico né ad uno specifico individuo, bensì a tutti coloro che hanno realizzato l’illuminazione. In questo senso il Buddha può trovarsi ovunque, tra i cristiani, tra i musulmani, tra gli induisti, tra gli ebrei, può esistere in qualsiasi contesto culturale e in qualsiasi Paese. E’ molto importante avere piena consapevolezza che il Buddha non è una persona, ma è uno stato dell’essere e come tale può essere ovunque, realizzato da tutti, non occorre essere Buddhisti per diventare un Buddha.
Anche il Dharma è lo stato di realizzazione presente nella mente illuminata. Se, quando si dice Buddha, convenzionalmente ci si riferisce a una persona, il Dharma invece è la realizzazione, la comprensione illuminata, presente nella mente di quell’individuo.
Per Sangha si intende l’insieme dei seguaci dell’insegnamento del Buddha, l’assemblea di coloro che ne praticano la dottrina.
Però riferendosi al Buddha, individuo illuminato, il Buddha stesso rappresenta il più alto livello del Sangha, per cui è necessario riprendere il concetto di Buddha, Dharma e Sangha in una visione più profonda: Se il Buddha come persona è la più alta espressione del Sangha, e il Dharma è la realizzazione, la comprensione ultima nella mente di un illuminato, allora, il Buddha chi è?
In base a questo metodo di osservazione il Buddha diviene un concetto molto sottile che, tradotto in linguaggio occidentale, potrebbe essere: “lo stato di illuminazione”.
Lo stato di illuminazione non è una realizzazione, non è uno stato cosciente e non è nemmeno riferito ad una persona fisica, che cosa intendiamo dunque dicendo Buddha? Potremmo suggerire: “la Purezza della Natura della Mente”. La purezza che deriva dall’aver ripulito tutta la negatività e che presenta due aspetti importanti:
1. la purezza della natura della mente;
2. la purezza risultante dall’aver purificato le negatività.
Prendiamo come esempio l’acqua: se volessimo bere dell’acqua, che però è inquinata, dovremmo prima procedere, fase dopo fase, alla sua purificazione, in questo modo l’acqua così ottenuta presenta due tipi di purezza:
  1. La natura della purezza dell’acqua stessa;
  2. La purezza derivante dal processo di purificazione che ha determinato l’eliminazione di tutte le contaminazioni presenti nell’acqua.
Poiché noi siamo ad un livello ordinario la nostra mente è come l’acqua inquinata, e ottiene lo stato di illuminazione tramite il procedimento della sua purificazione.
Raggiungere lo stato individuale di illuminazione significa che, presane coscienza, si attua la negazione della contaminazione, dell’inquinamento della mente, rimanendo nello stato di purezza naturale della mente stessa.
In una sola natura esistono due aspetti distinti:
  1. uno è relativo alla cessazione delle negatività che non possono più tornare in quanto definitivamente e totalmente eliminate;
  2. il secondo concerne invece la “Vacuità” e si riferisce alla natura ultima della mente. In questo contesto la Vacuità non è da intendersi nel suo aspetto più generale, ma è specificamente la Vacuità della mente illuminata.
L’illuminazione è costituita da questi due aspetti: della Cessazione e della Vacuità. Lo stato dell’illuminazione è “ESSERE BUDDHA”.
Quindi, BUDDHA, DHARMA e SANGHA, sono un concetto fondamentale da assimilare nell’essenza più profonda e completa.
Nel linguaggio ordinario per Buddha, convenzionalmente si intende una persona realmente esistita, una persona fisica; per Dharma l’insieme delle scritture tramandate; per Sangha l’assemblea di coloro che studiano e praticano la dottrina contenuta questi stessi testi., un modo di osservazione innegabile e oggettivamente corretto, che però rappresenta solo l’aspetto più evidente e superficiale, è dunque indispensabile andare oltre e comprenderne il vero significato, l’essenza profonda e reale.
Con la visione completa dell’essenza di Buddha, Dharma e Sangha si prende rifugio consapevole nei tre Gioielli, non in qualcosa di esterno, non in una persona fisica, ma nella stessa completa visione di illuminazione, l’obiettivo finale. Prendere rifugio significa volgersi all’obiettivo ultimo e attraverso la pratica purificare la propria mente, significa avere un’assoluta determinazione e forza perché, in assenza di tali attitudini, non si potrà raggiungere lo scopo.
Ma cosa può darci la necessaria forza, determinazione e volontà? Soltanto la Bodhicitta, il pensiero altruistico citato nel secondo verso. Senza Bodhicitta non si ha la giusta motivazione per proseguire verso l’illuminazione.
E’ quindi ovvio che alla preghiera di “Presa di Rifugio” seguano le quattro aspirazioni incommensurabili, o pensieri illimitati, che, avendo realizzato il proprio scopo, esprimono la naturale conseguente realtà di essere beneficio a tutti gli esseri senzienti.
Essere nei quattro pensieri illimitati ci permette di immaginare e sperimentare gli effetti dello stato ultimo lo stato dell’illuminazione, ma come può verificarsi questa esperienza?
Avendo preso rifugio e generato la motivazione del risveglio immaginiamo di aver già realizzato lo stato del risveglio e ne visualizziamo i risultati, cioè che tutti gli esseri senzienti abbiano la felicità e le cause della felicità. Questa visualizzazione produce una immensa gioia, un’infinita felicità ed evidenzia i possibili risultati della pratica, le conferisce il senso compiuto. Da tale pratica scaturisce un’energia fortemente positiva che è un grande merito. Con simile visualizzazione sperimentiamo un’intensa gioia, come se stessimo sognando una realtà bellissima, ma poi ci svegliamo e ci accorgiamo che la situazione che ci circonda è ben diversa, c’è tanta sofferenza, ed è appunto questo il momento in cui iniziare la pratica vera, lo studio, l’approfondimento, la meditazione, le azioni.
Questo è l’atteggiamento corretto per intraprendere ogni pratica meditativa, prima è necessario focalizzare l’obiettivo e poi attivare le condizioni per la sua realizzazione.
Se il nostro scopo è ottenere lo stato di illuminazione, prendendo rifugio nei tre Gioielli, Buddha, Dharma e Sangha, creiamo le condizioni affinché possa realizzarsi e l’unica condizione possibile è lo sviluppo della Bodhicitta, della mente altruistica, il livello superiore di un cuore aperto. Il passaggio successivo è sperimentare sul piano immaginativo gli effetti benefici di un cuore aperto.
Queste tre fasi contengono tutta la pratica, ecco perché una preghiera tanto breve ha un significato sconfinato. Anche Sua Santità il Dalai Lama, in occasione del Kalachakra a Graz, ha scherzato su questo punto ricordando come un Lama mongolo si rivolgesse ai tibetani dicendo: “Voi Lama tibetani avete nomi lunghissimi ma poco significato, mentre in passato grandi maestri indiani come Nagarjuna avevano nomi molto corti ma erano ricchissimi di significato”.
Recitiamo insieme consapevolmente la preghiera di Presa di Rifugio e Generazione della Motivazione del Risveglio:
Nel Buddha, nel Dharma e nel Sangha
Prendo rifugio fino al risveglio.
Per i meriti ottenuti con la pratica della generosità e delle altre virtù
Possa io realizzare lo stato di Buddha per il bene di tutti gli esseri.”
E la preghiera delle Quattro Aspirazioni Incommensurabili, o quattro pensieri illimitati:
Possano tutti gli esseri possedere la felicità e la causa della felicità!
Possano tutti gli esseri essere separati dalla sofferenza e dalle cause della sofferenza!
Possano tutti gli esseri mai lasciare la Santa Felicità, priva di ogni sofferenza!
Possano tutti gli esseri risiedere nella Grande Equanimità, priva di ogni inclinazione e di ogni avversione parziale!”
Sono parole molto belle, e proviamo piacere nel pronunciarle, ma soprattutto è necessario comprenderle profondamente, penetrare nel loro livello ultimo in cui Buddha, Dharma e Sangha sono, tutti e tre, Buddha.
La mente del Buddha è ciò che chiamiamo Dharma, ma è anche Buddha; il Sangha è la persona illuminata e quindi anch’esso è Buddha.
Ciò che abbiamo definito Buddha, lo stato di illuminazione, ha due aspetti che sono essi stessi Buddha. Il primo riguarda la cessazione delle negatività, degli ostacoli, delle oscurazioni della mente e il secondo è relativo alla purezza della mente illuminata, entrambi appartengono all’unica natura della Vacuità che è l’espressione di Buddha permanente. Le altre manifestazioni di Buddha, che si riferiscono all’individuo illuminato, alla persona illuminata, sono invece impermanenti. Riassumendo, sono due gli aspetti del Buddha, uno permanente e l’altro impermanente, due qualità che si possono ottenere tramite la purificazione della mente, esse danno chiarezza sul modo di essere della propria mente, sulle reali motivazioni che inducono a ricercare lo stato di illuminazione.
Ecco perché il Buddha può essere ovunque e, da questa visuale, possiamo comprendere in che modo la nostra mente ordinaria sia collegata alla mente del Buddha, come la mente ordinaria possa essere trasformata nella mente illuminata, come la Vacuità della mente ordinaria possa diventare la Vacuità della mente illuminata, e la Vacuità della mente illuminata possa diventare Buddha. L’individuo che possiede questa mente può diventare Buddha.
Il nostro livello ordinario di esistenza ha le potenzialità del livello di Buddha e assomiglia al livello del Buddha e proprio queste somiglianze rendono possibile l’ottenimento dello stato di essere illuminato. Ecco perché si deve sempre avere la chiara visione e la speranza sull’effettiva possibilità di realizzazione dell’illuminazione.
La nostra mente ordinaria è contaminata e, così come non respiriamo e ci muoviamo faticosamente in un ambiente inquinato, abbiamo le stesse difficoltà sul piano mentale e il movimento verso gli obiettivi è gravoso, incontriamo continui ostacoli, troppi limiti che rendono quasi impraticabile il percorso verso la meta desiderata. Ma se purifichiamo l’ambiente, cioè la nostra mente, è come se ci trovassimo in un luogo incontaminato dove ogni frutto può crescere rigoglioso e senza difficoltà.
Le nostre azioni sono limitate dalle contaminazioni mentre le azioni di un Buddha sono completamente libere, pure, non hanno ostacoli e producono frutti spontanei che si estendono in ogni direzione, senza limiti.
Non è facile comprendere la mente di un Buddha, ma come con una buona educazione ed istruzione apprendiamo sempre cose nuove in grado di migliorare la qualità della vita perché ogni attività fluisce con minor sforzo, allo stesso modo alimentando la conoscenza e la consapevolezza permettiamo una sempre maggiore purificazione della mente.
Purificare non è soltanto pulire, pulire e pulire, ma significa anche coltivare, far crescere conoscenza e saggezza; la sola pulizia, seppur indispensabile, non produce nulla.
Purificazione è il processo di pulizia che permette lo sviluppo della conoscenza e della saggezza.
Dobbiamo purificare l’acqua eliminando le contaminazioni che la intorpidiscono così da ottenere limpida acqua che possiamo finalmente bere.




La Consapevolezza del Maestro

Il canto del settimo Dalai Lama, “Canto delle quattro Consapevolezze” mostra la via della consapevolezza, istruisce sul modo di meditare la via di mezzo, la via della Vacuità, e tratta una per una:
1. La consapevolezza del Guru, del vero Maestro spirituale;
2. La consapevolezza della Compassione;
3. La consapevolezza della Divinità;
4. La consapevolezza della Visione della Vacuità.
Il testo, scritto in connessione alla pratica della più alta classe di Vajrayana, insegna come mantenerne la pratica del Vajra nella quotidianità.
Nella pratica del Vajra la figura del Maestro spirituale, il Guru, è molto, molto importante e lo è in generale in ogni pratica Buddhista, ma in quella dei Sutra e in particolare delle sei Paramita, le qualità trascendenti, la figura del Guru è fondamentale, ne costituisce la base, la sorgente di ogni qualità spirituale.
Nei Sutra il Guru è visto come colui che conferisce i voti del Bodhisattva che prima devono essere spiegati e in un secondo tempo dati. Dare i voti del Bodhisattva a parole sembra relativamente semplice, ma in realtà implica una grande preparazione e responsabilità, sia da parte del Maestro che da parte del discepolo. Il Maestro è la guida spirituale che incoraggia e istruisce il discepolo affinché possa ricercare la Bodhicitta, cioè seguire la pratica del Bodhisattva, lo accompagna nella pratica per la realizzazione delle qualità trascendentali, le sei Paramita.
Nei Sutra si descrive anche come il Maestro spirituale debba conferire i voti di Pratimoksa, di liberazione individuale, sia a monaci che a laici, ma in questo caso con modalità inversa alla precedente: i voti sono prima dati e poi spiegati.
Queste due modalità differenti nel conferimento dei voti comportano modalità differenti di pratica. Nei Sutra si dice espressamente che il maestro che dà i voti di Pratimoksa deve seguire il discepolo sino alla realizzazione delle loro qualità intrinseche e sino a quando il discepolo non raggiunga l’autonomia nella pratica.
Questo approccio si differenzia da quello cristiano in cui il conferimento dei voti comporta assoluta e perpetua obbedienza nei confronti dell’istituzione, non esiste alcuna possibilità di autonomia e di indipendenza.
Nel Buddhismo invece il maestro istruisce, guida il discepolo che, a seconda delle proprie capacità, intelligenza e volontà diverrà in un tempo definito, non importa se breve o lungo, autonomo. Il raggiungimento dell’autonomia è fondamentale nel Buddhismo e in questo senso le due tradizioni, cristiana e buddhista, sono molto diverse.
Nei voti di Pratimoksa il Maestro conferisce al discepolo il titolo, la posizione, e continua a seguirlo insegnandogli a sviluppare le capacità corrispondenti. Esiste alla base un riconoscimento, un’accettazione totale e reciproca circa via da seguire.
Nel voti di Bodhisattva invece l’autonomia del praticante è immediatamente effettiva perché si presume che, avendo maturato la consapevolezza di volersi impegnare in questo sentiero, sia già responsabile e di conseguenza autonomo. Il Maestro, prendendo atto di tale situazione, non ha altro da fare che conferire i voti.
Queste sono due modalità differenti di relazione Maestro - Discepolo.
La pratica del Vajra, o Vajrayana è avviata dall’iniziazione, cioè il momento in cui si attiva la relazione Maestro - Discepolo.
Alcune pratiche Vajrayana prima dell’iniziazione richiedono semplicemente i voti di Bodhisattva, altre invece, a livello superiore, esigono anche i voti Tantrici.
I voti Tantrici devono essere dati senza necessità di spiegazioni, ciò presuppone che al momento del loro conferimento entrambe le condizioni, da parte del Maestro e del discepolo, siano soddisfatte, non vi è bisogno di altro, i voti sono stati dati e accolti così come sono, e significa che sia maestro che discepolo sono pienamente qualificati per dare e ricevere questi voti.
La qualificazione richiesta a un maestro e a un discepolo Vajra è molto complessa ed esige caratteristiche ben definite. In entrambi i voti, di Bodhisattva e di Pratimoksa, è necessario che il maestro e il discepolo siano qualificati e posseggano le caratteristiche specifiche per ognuna delle pratiche. Non è così semplice dare e ottenere i voti e la spiegazione delle qualificazioni è complessa, difficile e di non facile ascolto, dunque non approfondiremo ulteriormente l’argomento.
E’ però importante comprendere come i tre livelli di pratica di cui abbiamo parlato siano strettamente correlati tra di loro, interdipendenti, sono l’uno il fondamento dell’altro: la pratica di Pratimoksa (liberazione individuale) come fondamento, base o condizione per la pratica del sentieri di Bodhisattva e la pratica di Bodhisattva come fondamento, base o condizione per la pratica del Tantra.
Abbiamo visto qual’è nella pratica, la funzione del Guru, o Lama, o Maestro spirituale esteriore che, comunque lo si chiami è sempre il Maestro convenzionale, ma dov’è il Maestro ultimo?
Risposta: In noi stessi.
Esatto, il Lama è il Maestro esteriore, ma il Maestro ultimo è la propria Mente, la propria realizzazione. Il Buddha stesso ha detto: “Voi siete il Maestro di voi stessi”, il Buddha non ha mai detto io sono il Maestro, io sono il vostro Maestro, ma: “Voi siete il vostro vero Maestro”.
Quindi riferendosi al Lama non bisogna mai scordare questa riflessione, si deve mantenere sempre la consapevolezza del Maestro interiore, non considerare il Lama come altro da sé, magari vissuto duemila o duemilacinquecento anni fa e adesso assente. Il vero Maestro è qui e ora, è la nostra Mente.
Anche Sua Santità il Dalai Lama, di fronte alle forme di devozione un po’ sciocca che spesso i tibetani assumono nei suoi confronti, ha un atteggiamento molto pratico, staccato e non si stanca di ripetere: “pregate voi stessi, fate offerte a voi stessi, pregate affinché voi stessi godiate di buona salute e otteniate una lunga vita, pregate voi stessi per sviluppare le qualità necessarie alla realizzazione dell’illuminazione, non pregate qualcun altro al di fuori di voi.”
I tibetani hanno l’abitudine di chiedere continuamente ai Lama benedizioni, ma il Dalai Lama non incoraggia quest’attitudine e ribadisce continuamente: “Non è il Lama che benedice, siete voi stessi che potete benedirvi, la vera benedizione viene dalla propria interiorità, non dall’esterno”.
I primi versi del canto del VII° Dalai Lama insistono appunto sulla necessità di mantenere costantemente la consapevolezza del Maestro spirituale:
Sull’immutabile cuscino
Dell’Unione di metodo e saggezza,
Siede il Maestro gentile,
L’incarnazione di tutti i rifugi,
un Buddha che ha completato l’abbandono e la realizzazione.
Avendo abbandonato ogni concezione errata.
Pregalo con concezione pura.
Non lasciando divagare la tua mente ,
Poni in esso fede e rispetto,
con consapevolezza.”
Metodo e Saggezza sono un’immutabile e inscindibile unione in cui il Metodo è la Compassione e la Saggezza è la Visione della Vacuità. Coltivando la Compassione cresce la Saggezza e coltivando la Saggezza cresce la compassione. Questi due aspetti inseparabili raggiungono la perfetta unione quando si ottiene la compassione ultima e la visione della saggezza ultima. L’unione di metodo e saggezza è la qualità essenziale del maestro spirituale e, in questo contesto, del Maestro Vajrayana.
Il metodo si attua nella ricerca di un Beneficio. Generalmente riferendoci ad un beneficio pensiamo a qualcosa di temporaneo, di immediato, come ad esempio un piacere sensuale, ma il metodo si riferisce invece al Beneficio durevole, definitivo, permanente per se stessi e per gli altri, in grado di realizzare la liberazione dal terzo livello di Dukkha, della sofferenza pervasiva di cui è permeato l’intero Samsara, il livello più difficile da riconoscere, da comprendere e da eliminare.
La “sofferenza pervasiva” non proviene dall’esterno, non è determinata da eventi particolari, dall’ambiente, dagli amici, da nulla; tutto apparentemente può essere ottimale, perfetto, eppure essa esiste, è ben radicata, è semplicemente una condizione della mente samsarica, è una sofferenza presente in ogni istante della nostra via, che ne siamo consci o meno e non sempre si manifesta in modo evidente.
I livelli si sofferenza palesi sono rappresentati dalla “sofferenza della sofferenza” e dalla “sofferenza del cambiamento”. La sofferenza della sofferenza è indubbiamente la più eclatante, ne sentiamo concretamente tutto il peso, quando ci troviamo in condizioni sfavorevoli, siamo malati, abbiamo fame e sete, subito lutti e perdite…. La sofferenza del cambiamento è già più sottile, non immediatamente visibile, mascherata da un’apparente ed effimera sensazione di piacere, (alcool , droghe…).
In genere la nostra vita oscilla tra la sofferenza della sofferenza e la sofferenza del cambiamento, spesso usiamo la seconda nel tentativo di sfuggire alla prima e impegniamo ogni energia in queste battaglie, ma non riconosciamo mai la sofferenza pervasiva costantemente presente nella nostra vita.
Spendendo tutte le nostre forze divincolandoci in queste oscillazioni non siamo nel Dharma, ma totalmente immersi nel Samsara e alimentiamo senza sosta lo stato di sofferenza. Se ad esempio, ricercando il piacere, ci tuffiamo nelle droghe, nel fumo, nell’assunzione smodata di cibo o di alcool, in base al meccanismo di causa effetto non otteniamo altro che ulteriore sofferenza: ad un effimero piacere momentaneo, segue un danno che produce sofferenza ancora più grave. Queste illusioni accrescono la confusione mentale che ci ottenebra.
Un oggetto della pratica del Dharma è il terzo livello di sofferenza, quello non evidente, non apparente, nascosto, perché è la fonte, l’origine, degli altri due. Poiché a causa del terzo livello di sofferenza si sprofonda negli altri due, è necessario concentrarsi sulla sua eliminazione.
Il modo corretto per praticare il Dharma consiste nell’impegnarsi nell’eliminazione del terzo livello di sofferenza, osservarlo, comprenderlo sradicarlo. Eliminando la sofferenza pervasiva saranno eliminati anche gli altri tipi di sofferenza.
Nella nostra società è difficile comprendere pienamente il valore di questa pratica e spesso ci si accosta ad essa in modo improprio, limitato, ad esempio si usa la meditazione per alleviare un mal di testa e, anche se non vi è nulla di male, è sicuramente un utilizzo riduttivo e parziale delle potenzialità del Dharma, non è pratica del Dharma. Praticare il Dharma è andare alla radice della sofferenza ed estirparla.
Analizziamo come si presenta nella vita quotidiana, nella nostra mente, nel nostro cuore, il terzo livello di sofferenza, la sofferenza pervasiva. E’ lo stato di insoddisfazione, di vuoto, che tutto pervade. Qualsiasi cosa facciamo, questo sottile e desolante senso di nullità rimane; sia che stiamo qui o andiamo nei paesi più belli del mondo, anche se visitiamo il paradiso o l’inferno, nulla cambia, quel senso di vuoto permane immutato, pervade tutto il nostro essere, è una presenza costante, è l’esperienza della sofferenza pervasiva che penetra ogni esperienza trasformandola inevitabilmente in sofferenza. E’ necessario trovare un metodo per uscire da questo circolo vizioso e nel buddhismo l’abile mezzo è il Dharma.
Con il corretto sviluppo del procedimento del Dharma tutto diviene perfetto, persino un forte mal di testa non potrebbe mutarne la perfezione, è scritto nei testi buddhisti che anche il momento della morte è un momento perfetto.
E’ però fondamentale mantenere sempre viva l’attenzione per conservare la purezza della pratica, senza lasciarsi mai travolgere da ingannevoli trappole quali ad esempio la paura. Tutte le religioni, nella brama di poter contare il maggior numero di proseliti, hanno sempre fatto leva su questo sentimento, i cristiani spaventando con inferni terrificanti di dannazione eterna e i buddhisti con spaventose visioni della morte. Il meccanismo è esattamente lo stesso ed è altrettanto sbagliato, la paura non può in nessun caso generare una pratica pura, vera. E’ necessario saper cogliere l’essenza degli insegnamenti superando la limitatezza delle terminologie e dei metodi di controllo utilizzati. E’ importante saper distinguere la realtà e liberarsi da vecchie sovrastrutture oggi assolutamente inadeguate.
Alcune visualizzazioni che avevano una precisa ragione d’essere nell’antico Buddhismo tibetano, se trasposte nell’attuale contesto occidentale potrebbero essere fuorvianti e controproducenti. Il Buddhismo è approdato in occidente e in Italia e qui deve trasformarsi in potenzialità fresca e nuova per la realizzazione dell’illuminazione nel rispetto della cultura e delle tradizioni italiane. Voi dovete lasciare che il buddhismo venga praticato in Asia secondo la cultura e le tradizioni di quelle popolazioni, qui la cultura e le tradizioni sono altre ed è fondamentale rispettarle. La società moderna deve tener conto delle scoperte scientifiche, della tecnologia, delle radici culturali, religiose e filosofiche di cui è permeata e soltanto in un profondo rispetto di tutto questo il Buddhismo potrà davvero dare frutti in occidente.
Pensate per assurdo cosa succederebbe se tutti rimanessimo fermamente arroccati in vecchie posizioni statiche, motivati essenzialmente dalla paura. In Italia il cattolicesimo è molto forte e se si volesse imporre in questo paese il Buddhismo, giapponese o tibetano, o qualsiasi altra religione e ognuna di queste, ritenendo il propria tradizione unica, perfetta e immutabile, pretendesse di imporla a tutti senza alcun rispetto per il contesto locale, ne nascerebbe un conflitto fomentato da integralismi e intolleranze che nulla spartiscono con la spiritualità e la filosofia di qualsiasi religione. La guerra ovviamente non è lo scopo del Dharma, il Dharma è liberazione dalla sofferenza, quindi attenti alle trappole, purificatevi da ogni condizionamento prima di dedicarvi alla pratica.
Il Dharma agisce sul livello fondamentale della sofferenza, non sui contrattempi o sulle disavventure quotidiane, vuole eliminare la sofferenza pervasiva che è la sorgente continua dell’insoddisfazione permanente e profonda che ci accompagna ininterrottamente. Soltanto il Dharma può superare questo dolore costante e far si che anche la morte non sia più un problema in quanto naturale passaggio, ma senza il Dharma l’insoddisfazione profonda renderà il momento della morte disperante e continuerà ad esistere anche dopo la morte stessa.
Il passaggio nella morte è un momento di grande rivelazione. Per questo che prima si è scherzato sui mezzi usati dalle istituzioni religiose per impaurire le persone e convincerle a convertirsi, l’inferno e la morte sono due argomenti sempre vincenti nella manipolazione delle coscienze. Ma, se osservati nell’ottica del Dharma, sono assolutamente inutili perché nel Dharma tutto è perfetto, morire è naturale, visitare gli inferi non è un problema, visitare il Paradiso non è speciale. Se si pratica il Dharma profondo nulla è un problema e nulla è speciale, il Dharma supera e sconfigge il livello pervasivo della sofferenza, la sorgente di tutte le sofferenze.
Ogni qualvolta si cerchi di coltivare la compassione, si rivolgano preghiere per il bene del mondo, si alimenti il pensiero amorevole affinché possa non più esistere la sofferenza, ogni qualvolta si pratichi nella comprensione del livello pervasivo della sofferenza, consapevoli che il significato della preghiera ultima è la compassione ultima, allora si pratica il vero Dharma e si ottiene il superamento della sofferenza pervasiva che permette l’eliminazione della sofferenza del cambiamento e della sofferenza della sofferenza. Se ne siamo consapevoli possiamo vedere come tutti gli esseri viventi siano ugualmente impregnati di sofferenza pervasiva, siano legati, imprigionati nella stessa condizione, senza differenze e anche se appaiono alcune diversificazioni sono sempre temporanee e non sono significative, la sostanza è la comune condizione di schiavitù in questa sofferenza.
A volte cadiamo in percezioni illusorie veramente buffe, ad esempio in TV si sente spesso appellare il presidente degli USA, “l’uomo più potente del mondo”, ma allora chi è il meno potente? In politica come nella vita ordinaria si costruiscono continue differenziazioni, ma sono solo illusioni; dal punto di vista della sofferenza pervasiva non vi è alcuna distinzione, e così si pratica il Dharma.
E’ difficile chiarire la nozione della sofferenza pervasiva ma ognuno ne ha esperienza diretta, voi come la definireste?
Risposta: Per me è abbastanza evidente, quando mi rendo conto che ho tutto, non mi manca niente, ho lavoro, casa, affetti, però ugualmente sento in me insoddisfazione e mi chiedo che cos’è questa insoddisfazione, credo si tratti proprio della sofferenza pervasiva.
Lama: e che nome date a questo?
Risposta: Leopardi la chiama “tedio”.
Risposta: forse sarebbe meglio dire tedio esistenziale.
Risposta: A me sembra che nel momento in cui non abbiamo la pienezza della mente cadiamo automaticamente nell’insoddisfazione profonda.
Lama: Cosa intendi per “pienezza della mente”, c’è nel cristianesimo questo concetto?
Risposta: Si, ma si dice “pienezza del cuore”.
Risposta: Pienezza della mente come pienezza dello spirito, consapevolezza del risveglio.
Lama: Illuminazione?
Risposta: Si, perché se una persona non è consapevole di essere illuminato è insoddisfatto.
Lama: Altri?
Risposta: Il senso di insoddisfazione lo avverti quando perdi il senso della vita. Se la tua vita ha significato non percepisci insoddisfazione, anche se vedi tutte le difficoltà di vivere. Il senso della vita è dare il giusto valore alle cose e quindi soltanto essere Bodhisattva, la ricerca continua per diventare Bodhisattva, ti da il senso della vita.
Risposta: Il livello più profondo della sofferenza è sapere che uno è legato a filo doppio a tutta una serie di dipendenze, dipendenza dall’altro, dagli affetti, dal lavoro, dalla casa. Sono dipendenze che ci separano dal Dharma e per quanto si sia contenti di tutto ciò che si ha c’è anche la consapevolezza di esserne dipendenti proprio dalle stesse cose, ed è sofferenza. Si è legati a un meccanismo che impedisce di essere liberi.
Lama: Stiamo discutendo a lungo su questo punto perché è difficile da esprimere a parole e ognuno ha il suo linguaggio, ma parlandone possiamo chiarie il concetto.
Risposta: Si è difficile, ma credo che sia stata colta l’essenza del pensiero: quando hai smarrito il senso della vita sei immerso nella sofferenza pervasiva, sei perso.
Risposta: Quando ti accorgi di non essere libero e vedi che i legami ti imprigionano inesorabilmente, sperimenti questa sofferenza più profonda.
Risposta: Secondo me è singolare l’argomento della dipendenza, ti accorgi che la tua felicità dipende da qualcosa, quindi, se manca quel qualcosa non sei felice. Ma il fatto più interessante è che lo stesso vale per la sofferenza, anche la sofferenza dipende da qualcosa, allora ti accorgi che la tua sofferenza e la tua felicità dipendono da qualcosa di esterno e ti poni la domanda: perché devo dipendere da qualcosa al di fuori?
Risposta: E’ allora che puoi trovare il senso della vita.
Risposta: Quando ti accorgi che comunque dipendi da qualcosa che è fuori di te individui nella dipendenza il vero problema, che non è evidentemente dato da oggetti esterni, ma chi crea questo collegamento?
Lama: In occidente ho ricevuto una gran quantità di informazioni, avete una mente acuta, intelligente, istruita, e il mio desiderio è che il buddhismo si connetta con le caratteristiche della mente occidentale, che trovi collegamenti aperti e dinamici senza chiudersi in una mente ottusa e retrograda. Il mio desiderio è che il Buddhismo possa diventare in occidente mobile, spazioso e portare reale beneficio, alleviare la sofferenza di tutti gli esseri, senza fermarsi alla pratica formale, statica e inutile in questo contesto sociale. Pensate a quanta sofferenza si potrebbe eliminare con l’uso corretto dell’ alta tecnologia.
Se non si individua chiaramente il livello pervasivo della sofferenza, si perde l’obiettivo, si manca completamente il bersaglio, con poche e semplici parole possiamo dire che la sensazione che “qualcosa non va”, “che manca qualcosa”, indipendentemente dagli eventi esterni, è la sofferenza pervasiva. In genere non capiamo perché questo avvenga, ne ricerchiamo le cause nei posti sbagliati, al di fuori di noi, ma imparare a individuare e gestire questa insoddisfazione profonda rende tutto perfetto. Identificare e riconoscere il livello pervasivo della sofferenza è fondamentale in ogni pratica di Dharma, mentre il contrario rende l’obiettivo irraggiungibile.
Dopo aver riconosciuto il livello pervasivo della sofferenza, resta da identificare qual è la sua causa, infatti non è sufficiente averlo individuato chiaramente, ora è necessario risalire alla sua origine.
La causa della sofferenza pervasiva è l’attitudine mentale ad aggrapparsi ad un sé. Ma cos’è questo sé a cui siamo così legati? Dove si trova? Perché non riusciamo a rintracciarlo da nessuna parte? Siamo aggrappati a un qualcosa che non è, che nessuno può scovare, e da qui nasce il livello pervasivo della sofferenza, da un punto che non ha base, che fonda se stesso su un io che non esiste, fonda se stesso su un’illusione, questo è il problema.
Il riconoscimento di questa realtà è la chiave per vincere la sofferenza. La sofferenza nasce dall’attitudine ad aggrapparsi ad un sé che non esiste. Ciò non significa che noi non esistiamo, è evidente che siamo qui, ma è l’attitudine ad aggrapparsi al sé profondamente illusorio che crea sofferenza.
Riconoscere il livello pervasivo della sofferenza è il fondamento dello sviluppo della Compassione e il riconoscere il non-sé, cioè l’assenza di quel sé così come generalmente viene erroneamente definito e afferrato dall’attitudine ad aggrapparsi ad esso, è la Saggezza. L’insieme di Compassione e Saggezza sono lo strumento più importante per superare il livello pervasivo della sofferenza.
In occidente siamo ricchi di tecnologia, si può quindi usare la mente tecnologica per analizzare la sofferenza, il livello pervasivo della sofferenza e far sorgere compassione e saggezza. E’ come essere in un laboratorio scientifico della spiritualità, se rinascesse Leonardo da Vinci in questo laboratorio spirituale il progresso potrebbe subire una notevole accelerazione, diventare pratico, immediato, di aiuto all’attuale società.
Invece oggi tendiamo a dividere, limitare le possibilità, quando si medita ci si estranea dalla vita attiva e quando si è attivi, si perde lo stato meditativo. E’ necessario trovare un equilibrio tra le due fasi, una via di mezzo, dove il meditatore è nel contempo una persona attiva e nell’attività non perde lo stato meditativo. Questo è l’atteggiamento che porta beneficio e che rende la pratica proficua perché ottiene la piena integrazione tra l’aspetto spirituale e quello materiale della vita.
A volte si tende anche a confondere la pratica spirituale con la psicoterapia, ma sono due situazioni diverse: nella psicoterapia c’è una persona preparata, un medico che, in base alle proprie conoscenze, aiuta gli altri a risolvere determinati problemi e il suo compito si esaurisce in questo. Nella pratica spirituale invece il processo di guarigione è attuato da se stessi su se stessi, ognuno è lo psicoterapeuta di se stesso; non è sufficiente acquisire determinate conoscenze, è necessario ricondurle a sé, assimilarle alla vita quotidiana continuamente, mantenendone la presenza costante, momento per momento, che si rinnova incessantemente senza mai esaurirsi diventando parte integrante di sé. Ciò può avvenire correttamente solo quando il progredire nella spiritualità è in armonia con le attività materiali, soprattutto nella società moderna e tecnologica dove si conta molto su se stessi e poco sugli altri.
Proseguendo nell’analisi del testo esaminiamo il “cuscino” dell’immutabile unione di saggezza con il metodo. Il metodo è la compassione e la saggezza è la visione della Vacuità, o realizzazione del non sé. Quindi, quando ci si riferisce al Maestro spirituale, al Lama e lo si visualizza seduto sui cuscini rappresentati dal sole e dalla luna si sottolinea che non è facile e automatico essere maestro spirituale, non basta possedere un ricco bagaglio di conoscenze, ma è necessario aver realizzato la grande compassione e la saggezza della mancanza del sé, o saggezza della Vacuità. Questa è la qualificazione minima, essenziale, del maestro spirituale.
Un maestro deve essere sempre gentile, rappresenta tutti i rifugi: Buddha, Dharma e Sangha e dà corpo a tutti gli esseri realizzati come gli Arhat e i Bodhisattva.
Il Lama, o Guru, o Maestro spirituale rappresenta l’incarnazione dei Buddha, dei Bodhisattva, degli Arhat, poiché essi sono uniti da un solo desiderio: quello di liberare tutti gli esseri dalla sofferenza.
I Buddha i Bodhisattva, gli Arhat non si manifestano materialmente e per aiutare le persone a raggiungere la liberazione, per offrire lo strumento indispensabile della conoscenza e pratica del Dharma, è necessario che esse possano incontrare una persona vivente, concretamente presente, il maestro spirituale, il Lama, il Guru radice. In questo senso si dice che il maestro spirituale è l’incarnazione di tutti i rifugi, è gentile perché guida nella strada che porta all’illuminazione e non c’è gentilezza superiore a questa. Il Lama ha le qualità della compassione e della saggezza, è l’incarnazione di tutti i Buddha e i Bodhisattva, è gentile perché conduce all’illuminazione, quindi il Lama è Buddha.
E’ necessario abbandonare ogni preconcetto errato nei confronti del Lama e pregarlo con una concezione pura. La ragione per cui viene espressamente dato questo consiglio è che, sebbene il Lama possa apparire al discepolo come persona rude e burbera, in realtà esprime un atteggiamento gentile e amorevole e il difetto non è nel Lama ma nella percezione errata del discepolo che a causa del suo karma ha una visione distorta della realtà. La corretta relazione tra Lama e discepolo presuppone ovviamente la presenza di un Lama qualificato e di un discepolo qualificato. Se entrambi sono qualificati si instaura una corretta relazione, ecco perché si deve meditare sul Lama e pregarlo con le modalità indicate nel testo, liberi da concezioni errate, con una pura visione, senza lasciare che la mente divaghi ma rimanga ferma nel rispetto e nella fiducia.




La Consapevolezza della Compassione

Nel testo sono descritte le quattro consapevolezze:
1) la prima è la consapevolezza del Lama;
2) la seconda è la consapevolezza della compassione.
Nella prigione della sofferenza dell’infinita esistenza ciclica vagano gli esseri di sei tipi, privi di felicità.
Lì vi sono i genitori che ci hanno nutrito con grande gentilezza.
Abbandonando l’attaccamento e l’avversione,
medita con amore e compassione,
senza lasciare che la tua mente divaghi
ponila nella compassione,
senza dimenticarti
mantienila nella compassione.”
La prigione della sofferenza dell’esistenza ciclica” è il Samsara senza fine, una ruota di ripetute esperienze di sofferenza, una prigione in cui non siamo soli, ma che intrappola tutti gli esseri indistintamente ed è questa la ragione per cui nella meditazione occorre accogliere tutti gli esseri.
Non può nascere la compassione se ci si limita a rimuginare soltanto sulla propria sofferenza, e ordinariamente è proprio ciò che avviene, si prende in considerazione unicamente la sofferenza radicata nell’io, una riflessione che non è causa di Dharma, ma di stress. Il Samsara comprende tutti, è la condizione di ogni essere, ecco perché il pensare alla condizione samsarica è meditare sulla sofferenza, sul disagio di tutti e in particolar modo sul terzo livello di sofferenza, la sofferenza pervasiva.
La sofferenza Samsarica è rappresentata con la visione di tutti gli esseri travolti da quattro fiumi in piena:
a. dal fiume della nascita;
b. dal fiume dell’ invecchiamento;
c. dal fiume della malattia;
d. dal fiume della morte.
Le quattro condizioni dell’esistenza nel Samsara non sono una punizione, un evento inatteso, ma la naturale condizione dell’esistenza samsarica, una serie susseguente di eventi che costituiscono l’esistenza.
Deve essere chiaro che la materia che stiamo analizzando non può essere oggetto di conversazioni al bar con gli amici, gli argomenti di cui si discute ordinariamente sono cosa ben diversa dalla sofferenza trattata nelle scritture buddhiste.
L’esistenza degli esseri samsarici fluisce nella forza trascinante e inevitabile delle quattro correnti ed è totalmente dipendente dal karma.
Oggi siamo insieme a Torino, ma io vivo a Roma e sono nato in Nepal da genitori tibetani, perché mi trovo qui? cosa ha determinato questo incontro? Il karma.
Io non ho deciso di nascere in Nepal, di vivere molti anni della mia vita in India e di essere ora in Italia, io sono tibetano, geneticamente, culturalmente, linguisticamente, mentalmente, tibetano puro, ma tibetano, come? se il Tibet non c’è più, tutto è determinato dal karma. Ho mostrato la mia esperienza ma sono sicuro che ognuno di voi potrebbe portare esempi altrettanto curiosi, ecco cosa si intende affermando che tutti siamo condizionati dal karma.
Gli esseri Samsarici sono prigionieri nella gabbia di ferro dell’attitudine ad aggrapparsi al sé. Tutto quello che un essere samsarico pensa, dice e fa è governato dall’attaccamento ad un sé illusorio che sommerge completamente nel buio dell’ignoranza.
L’ignoranza ci avvolge interamente, nelle grandi cose come nelle percezioni più insignificanti.
Quando ho acquistato il biglietto per Torino mi hanno informato che essendo sabato avrei potuto viaggiare in prima classe pagando il biglietto di seconda, è mentre me ne stavo seduto nello scompartimento di prima classe osservavo gli altri passeggeri chiedendomi: sono tutti come me? qualcuno ha pagato il biglietto di prima e qualcun altro quello di seconda? Ignoranza illusoria di cose futili, ma lo stesso succede per situazioni ben più importanti.
L’ignoranza permea la sofferenza pervasiva che avvolge gli esseri samsarici totalmente ed è il significato della descrizione della prigione di sofferenza dell’infinita esistenza ciclica. Sulla base dei primi due livelli di sofferenza sono poi indicati sei differenti reami di esistenza. Tutti gli esseri sono uguali rispetto al terzo livello, quello della sofferenza pervasiva, essa permea lo stato di ognuno senza distinzioni.
Il primo livello “la sofferenza della sofferenza” e il secondo “la sofferenza del cambiamento” possono invece assumere aspetti leggermente differenti. A esempio per quanto riguarda la sofferenza della sofferenza vi sono persone che godono di buona salute ed altre che ne hanno poca; rispetto alla sofferenza del cambiamento, ci può essere chi vive in agiatezza e chi in povertà, chi possiede case belle, ricchezze, cibo raffinato e chi è costretto a vivere in case brutte e miseramente, ma al di là delle momentanee diversità, tutti, prima o poi, sono preda della sofferenza della sofferenza e della sofferenza del cambiamento. Pensate alla famiglia reale nepalese che godeva degli agi più raffinati, una lussuosa vita da re, e in un momento è stata sterminata, tutta la ricchezza è finita e ha sperimentato una tragica sofferenza del cambiamento.
I sei reami non indicano semplicisticamente gli esseri che stanno al di sopra, al di sotto o nel mezzo, in cielo, sotto terra e sulla terra, ma devono essere intendesi come sei diverse manifestazioni dei primi due livelli di sofferenza, la sofferenza della sofferenza e la sofferenza del cambiamento. Questo passaggio è facilmente verificabile nei vari momenti della vita di ognuno: se siamo colpiti da un grave dolore è come se fossimo negli inferi, se invece sperimentiamo una grande gioia, se siamo con le persone che amiamo in un momento di festa, ci pare di essere in paradiso. A volte i gatti sono più felici degli esseri umani, allora è come se avvenisse uno scambio e noi ci trovassimo nel reame degli animali e loro in quello degli esseri umani. Se siamo tormentati dalla fame e non c’è cibo a disposizione è come se ci trovassimo nel reame degli spiriti affamati.
Non si tratta dunque di una diversificazione logistica ma di esperienze. Nell’esperienza samsarica gli esseri sono orfani della felicità, non esiste un solo momento in cui non sia presente la sofferenza pervasiva e, poiché tutti gli esseri samsarici sono stati una volta nostri genitori e ci hanno nutrito con amore e gentilezza, osservando la loro sofferenza sentiamo compassione e possiamo generare equanimità, abbandonare le attitudini contrapposte di attaccamento e avversione. Lo stato equanime della mente è dunque lo stato di amore e compassione. L’attitudine equanime, priva di attaccamento o avversione, si traduce nel desiderio amorevole affinché tutti gli esseri possano ottenere la felicità.
L’attitudine della compassione consiste nel volere che tutti gli esseri siano liberati dalla sofferenza. Di fatto compassione, equanimità e amore sono un’unica realtà che si manifesta in molteplici aspetti, ciò che conta è mantenere la mente concentrata su questa realtà ricordando la raccomandazione del canto:
non permettete alla mente di divagare, ponetela nella compassione e, senza dimenticare, mantenetela nella compassione”.




La Consapevolezza della Divinità

Le due restanti consapevolezze sono:
3) La consapevolezza della Divinità;
4) la consapevolezza della Vacuità.
La consapevolezza della Divinità nel canto è così descritta:
Nel Divino Palazzo della grande beatitudine
piacevole a sentirsi,
abita il corpo della divinità:
il corpo di se stessi
con puri aggregati ed elementi.
Una divinità meditativa inseparabile
dai tre corpi vi si trova.
Senza concepirlo come ordinario,
coltiva l’orgoglio divino e la vivida apparenza.
Senza lasciare che la tua mente divaghi,
ponila nel profondo e luminoso.
Senza scordarti,
mantienila nel profondo e luminoso.”
Questo tipo di pratica è direttamente connesso alla pratica Buddhista del Vajra e costituisce il sentiero conosciuto come Vajrayana; in esso sono contenute tradizionalmente quattro classi di Tantra:
1) il primo. Kriyatantra, è relativo alle attività esteriori;
2) il secondo, Chariatantra è connesso al comportamento;
3) il terzo, Yogatantra, mantiene l’equilibrio tra le attività interiori e quelle esteriori;
4) il quarto, Anuttarayogatantra, rivolto esclusivamente alle attività interiori, è la più alta classe del Tantra.
Questi quattro livelli di meditazione fanno riferimento ad una divinità personale, indicata in tibetano come Yidam.
Nel Vajrayana la meditazione sulla divinità personale è il metodo per sviluppare l’unione delle qualità interiori di compassione e saggezza, è può essere applicato utilizzando due diversi mezzi:
1) Uno è il sistema dei Sutra, che approfondisce, affrontandoli separatamente, i due aspetti di metodo (compassione) e saggezza e soltanto alla fine li ricongiunge.
2) Nel sistema Tantrico, invece, si parte immediatamente dall’unione di metodo (compassione) e saggezza in quanto si medita sull’ essenza della divinità che è appunto l’unificazione dei due aspetti. La frase del canto “Nel divino palazzo della grande beatitudine” indica l’esperienza meditativa dell’unione di metodo e saggezza che è appunto la grande beatitudine.
La metodologia tantrica evidenzia due livelli, nel primo è riconosciuto il legame inscindibile tra corpo, mente ed universo; nel secondo la divinità che abita in un palazzo divino ed è l’essenza di unione tra metodo e saggezza. La divinità è una forma, e abita in un palazzo divino, cioè in una dimensione pura. Meditando su entrambi gli aspetti si attua la purificazione: “Il corpo di se stessi, con puri aggregati ed elementi, una divinità di meditazione, inseparabile è li, con i tre corpi”.
Con l’applicazione del metodo la mente ordinaria, il corpo ordinario, l’universo ordinario, sono trasformati nella dimensione pura della forma della divinità e nella mente pura della divinità, la struttura tantrica propone una “scorciatoia”, un sentiero rapido per giungere all’illuminazione.
Si legge ancora:
Senza concepirlo come ordinario
coltiva l’orgoglio divino e la vivida apparenza”
L’orgoglio divino è sempre presente nella meditazione sulla divinità.
La chiave di trasformazione di mente, corpo e universo ordinari, in mente, forma e universo divini è la Vacuità ed è il motivo per cui ogni pratica tantrica inizia con alcune parole che in italiano potremmo tradurre approssimativamente così:
“tutti i fenomeni non hanno un’esistenza propria o inerente, e questa loro natura vuota è l’io”, oppure: “tutti i fenomeni sono vuoti di esistenza inerente e questa natura vuota di esistenza inerente è la mia stessa natura.”
Infatti, qualsiasi cosa analizziamo attentamente non riusciamo a scovare nulla di inerentemente esistente, ciò che troviamo è unicamente «Vacuità», la realtà ultima, la natura ultima, di tutti i fenomeni.
Scrutando l’intero universo non rintracciamo nulla di inerente che si possa afferrare e questo è il punto di partenza di tutti gli yoga tantrici. Quella natura sono io, quindi quello che identifico come io è per sua natura vuoto, è la realtà ultima dell’io.
Finalmente, dalla natura vuota dell’io può avere inizio la creazione della forma divina, perché soltanto partendo dalla Vacuità è possibile trasformare se stessi nella Divinità, l’universo nel Mandala, il corpo ordinario nel Corpo divino, la mente ordinaria nella Mente divina.
Così si medita purificando gli aspetti negativi della mente, ci si accosta ai tre corpi alle tre forme inseparabili della divinità:
1. Dharmakaya (Kaya significa corpo, dimensione, forma) cioè la forma della Vacuità che si articola in due aspetti: quello della Vacuità e quello della mente consapevole che realizza la Vacuità;
2. Sambhogakaya che è la trasformazione della forma in natura vuota, in Buddha;
3. Dal Sambhogakaya sorgono innumerevoli forme o manifestazioni che portano benefici agli esseri viventi e sono il Nirmanakaya, conosciuto come corpo di incarnazione o di emanazione.
I tre corpi sono naturalmente spontanei, ma nella pratica è importante concentrarsi ed esercitarsi costruendone artificialmente la visualizzazione.
La divinità dunque non è un individuo esterno a cui rivolgersi come ad “altro da sé”, ma è l’emanazione dello stato di realizzazione della mente, in particolar modo dell’unione di metodo e saggezza e rappresenta la forma purificata, la forma pura, di corpo e mente.
Assimilando questo concetto siamo in grado di generare l’orgoglio divino ottenendone enorme beneficio, ma per mantenere nella pratica la visione di sé come inseparabile dalla divinità di meditazione è necessario osservare i fondamentali precetti:
  • mantenere il riconoscimento della mente come mente della divinità;
  • mantenere il riconoscimento della parola come parola della divinità;
  • mantenere il riconoscimento del corpo come forma della divinità;
Avere la consapevolezza della mente divina, della parola divina e della forma divina, in ogni circostanza, mantiene l’unione del sé con la divinità che, ricondotta sistematicamente alla vita quotidiana, è di grande beneficio. Non è una pratica semplice e in genere è attuata da praticanti molto avanzati ed è anche la ragione per cui è molto complicato spiegarla.
Il punto fondamentale da comprendere è che non si tratta di un essere divino al di fuori di sé identificabile come individuo, bensì la divinità è la rappresentazione delle qualità interiori già presenti in noi. Meditare sulla divinità significa purificare se stessi e trasformare se stessi nella divinità, cioè in quelle qualità.



La Consapevolezza della Vacuità

La quarta consapevolezza, della Vacuità, è trattata in due strofe, nella prima si descrive la Vacuità durante la seduta di meditazione, nella seconda invece, della meditazione sulla Vacuità durante l’intervallo tra le varie sessioni di meditazione, cioè nel periodo dedicato alle attività quotidiane.
I versi della prima strofa che spiegano la Vacuità durante la meditazione:
Ovunque nella sfera dei fenomeni apparenti
e dei fenomeni esistenti,
Pervade lo spazio della chiara luce
di ciò che è e dell’ultimo,
Un inesprimibile, reale modo di esistenza
è lì presente.
Abbandona le elaborazioni concettuali,
Osserva la natura della Vacuità.
Senza lasciare la tua mente divagare,
Ponila in ciò che è,
Senza scordarti,
Mantienila in ciò che è.”
In tibetano si usano spesso le parole “Nhyang-shing Sid-pa” indicando ciò che possiamo vedere e le cose che esistono, è un modo per definire tutto l’esistente, ogni fenomeno ed è abitualmente utilizzato dagli Yogi, dai meditatori. Tutto l’esistente è pervaso dallo spazio della chiara luce e qualunque apparenza si sperimenti, qualunque apparenza sorga spontaneamente e simultaneamente deve essere riconosciuta nella sua chiara luce o, in altre parole, riconosciuta nella sua natura vuota. Quindi qualsiasi realtà appaia la si deve cogliere nel suo ultimo grado di esistenza, nella sua natura vuota, nella chiara luce. Chiara luce significa Vacuità.
Nel Buddhismo tibetano si usano più termini per definire la stessa verità, la Vacuità: «Mahamudra», «Chiara Luce», «Dzog-Chen», «Grande Perfezione», ecc.., sono tanti modi diversi di definire la stessa realtà: la Vacuità.
La Vacuità è detta simile allo spazio; lo spazio non si può afferrare, lo spazio non ostruisce, non blocca il passaggio, così la Vacuità non si può afferrare e non ostruisce.
Questa visione dei fenomeni contraddice completamente la nostra visione ordinaria. Noi osserviamo i fenomeni ordinariamente in modo completamente diverso e contrario all’ottica della Vacuità; prima di tutto dobbiamo correggere la percezione, l’errato punto di vista con cui affrontiamo la realtà. Non vi è nulla di afferrabile in nessun fenomeno, il modo ultimo di essere dei fenomeni non è traducibile in parole. Questa visione è la Prajnaparamita, che letteralmente significa “la saggezza che è giunta oltre”, cioè la saggezza che tutto trascende e ciò che trascende la percezione ordinaria non può essere espresso.
Meditando sulla Vacuità si medita sul tutto simile allo spazio o meglio sulla natura simile allo spazio di ogni fenomeno, si medita sulla mancanza di natura inerente dei fenomeni, e si va molto oltre la percezione di tipo ordinario. Ad esempio questo rosario, è molto bello, di buona qualità, ma se noi lo smontiamo separando le varie componenti abbiamo i semi, la corda, i conta mala, ma il rosario dov’è? Non esiste più. Gli elementi ci sono tutti, esattamente gli stessi, ma il rosario non c’è.
L’ultimo modo di esistenza dei fenomeni è simile al rosario, che esiste semplicemente come nome, non vi è una parte sostanziale, intrinseca, che lo definisca.
Osserviamo la realtà ultima non a livello superficiale, andiamo oltre e applichiamo la stessa modalità nella visione del sé, nella visione dell’io.
Possiamo vedere il rosario come simile allo spazio, la sua natura è simile allo spazio, perché il rosario è semplicemente un nome, non esiste a livello sostanziale, non vi è nulla di inerentemente esistente. Tutti i fenomeni sono simili allo spazio. Il livello ultimo di Torino non ha palazzi, è uno spazio aperto, non ostruito da palazzi; il modo ultimo di esistenza di Torino, o se preferite la Torino originale, è così, vuota.
E’ possibile immaginare Torino senza costruzioni? Si può osservare Torino, con tutti i suoi palazzi e nel contempo vederla completamente senza? E’ possibile avere simultaneamente la visione ordinaria, convenzionale, del fenomeno e percepire il suo modo di esistenza ultimo?
Nella seduta di meditazione concentrativa, o focalizzata, si osserva solamente il livello ultimo di esistenza dei fenomeni, la mente si concentra sulla natura simile allo spazio della Vacuità. E’ chiaro questo concetto? Voi come esprimereste questa visione?
Risposta: La scienza moderna ha confermato questa visione, per esempio questo panchetto che sembra solido in effetti non lo è, la materia è un’illusione, è solo energia che si aggrega in un certo modo, perché andando a cercare le particelle infinitesimali si trova il vuoto. Tutto ruota a livello energetico, vorticosamente, dando l’illusione di una solidità che in effetti non esiste come fenomeno a sé stante. In qualche modo la scienza continua a confermare quello che gli antichi pensatori indiani già sapevano.
Lama: Apparentemente si, ma vi è una differenza sostanziale. La scienza studia e riconosce il fenomeno, ma non va oltre; se vi meditasse lo realizzerebbe e ne sarebbe trasformata. Anch’io in un primo tempo pensavo che gli scienziati avessero realizzato la Vacuità, ma poi, riflettendo, ho capito che si erano fermati alla sola indicazione della Vacuità e, non meditando su di essa, non l’hanno realizzata.
Risposta: Io invece sono scettico sulla possibilità di dimostrare logicamente la Vacuità. Relativamente all’esempio del rosario che, scomposto, sparisce, io ti risponderei che non mi interessa affatto perché non mi pongo il problema della realtà ultima, l’unica realtà che mi interessa è quella che sperimento. La realtà è la mia esperienza, se prendo un mattone in testa non mi interessa sapere che la solidità è illusione, a me ha fatto male. Credo che da molti secoli ormai la filosofia occidentale abbia escluso ogni domanda sulla realtà ultima; per noi occidentali la realtà è l’esperienza e quindi mi è difficilissimo concepire la Vacuità, perché io soffro e gioisco per esperienza, non per la realtà ultima. Io posso anche essere vuoto, ma non m’importa, ciò che mi interessa veramente è quanto sperimento concretamente.
Lama: Osservare, comprendere la Vacuità è l’unica possibilità di tagliare le radici della sofferenza. La causa di ogni problema è la costruzione mentale che si basa sull’incapacità di vedere la realtà ultima delle cose perché si limita ad un’occhiata superficiale e disattenta, invece la capacità di vedere contemporaneamente entrambe le verità, relativa e assoluta, è di enorme beneficio, induce allo stato di calma, di serenità, di assenza di sofferenza.
La seconda strofa affronta il modo di meditare la Vacuità nell’attività quotidiana:
Nel congiungimento delle molteplici apparenze
delle sei coscienze,
si vede la confusione dell’apparenza dualistica di fenomeni insostanziali, senza base,
Là è inganno e magia.
Senza concepirla come vera,
Osserva la natura della Vacuità.
Senza che la tua mente divaghi,
Ponila nell’apparenza e Vacuità.
Senza scordarti,
Mantienila nell’apparenza e Vacuità.”
Possiamo avere un’idea di cosa si intende per magia prendendo spunto da un famoso esempio della cultura classica indiana: «Un mercante vede uno splendido cavallo, lo compera e, soddisfatto se ne va ma durante la sua strada vede che al posto del cavallo sta trascinando un pezzo di legno. Come è potuto accadere? Solitamente questa magia è praticata di fronte ad un pubblico numeroso: il mago prende un pezzo di legno e recitando un mantra lo trasforma in cavallo. Evidentemente la benedizione del mantra non trasforma il legno in cavallo, bensì trasforma la capacità di vedere degli osservatori. Il legno resta legno, ma gli occhi degli astanti vedono uno splendido cavallo. In questa storia agiscono tre diversi attori:
a) Il mago, o illusionista;
b) il pubblico presente dall’inizio che ha ricevuto la benedizione della vista;
c) qualcuno che, arrivato soltanto alla fine, non ha usufruito di nessuna magia.
Tutti osservano il pezzo di legno, ma come lo vedranno?
a) il mago, osservando il pezzo di legno vedrà il cavallo, perché anche i suoi occhi sono stati benedetti, ma lui è consapevole che non esiste nessun cavallo e che si tratta di un pezzo di legno;
b) gli spettatori della prima ora guardando il pezzo di legno vedranno un cavallo e crederanno che quella sia l’unica verità;
c) I ritardatari vedranno invece soltanto un pezzo di legno.
Durante l’attività quotidiana, nel periodo che intercorre tra le sessioni di meditazione non si ha una concentrazione focalizzata, non si è in grado di vedere la natura dei fenomeni come spazio e di riconoscerli come vacui della natura dello spazio. Si è in uno stato mentale diverso rispetto a quello della seduta di meditazione focalizzata.
Quando non si è in seduta di meditazione, durante le attività quotidiane, la visione della Vacuità è come quella del mago, dell’illusionista che pur vedendo un cavallo è pienamente consapevole della sua non esistenza reale.
Invece durante la seduta di meditazione focalizzata il meditante è come il ritardatario, non vede quello che non c’è, vede solo il pezzo di legno, non c’è illusione alcuna.
E infine, chi non medita né in seduta focalizzata, né durante l’attività quotidiana, è come lo spettatore ignorante che compera il cavallo, acquisisce come vera una costruzione mentale del tutto illusoria inesistente.
La strofa appena letta ci dice sostanzialmente che percepiamo contemporaneamente la realtà secondo due visioni: l’una è relativa al livello convenzionale, quello dell’apparenza, l’altra vede la realtà ultima, la vera essenza di ciò che appare.
Abbiamo esaminato le quattro consapevolezze che costituiscono una parte essenziale del sentiero Buddhista, in particolare della pratica Vajrayana.
1) La consapevolezza del Lama;
2) La consapevolezza della Compassione;
3) La consapevolezza della Divinità;
4) La consapevolezza della Vacuità.
Il Lama definitivo, il Lama ultimo, è la realizzazione interiore di compassione e Vacuità. Per quanto riguarda invece il Lama esteriore, il maestro spirituale, le sue qualità essenziali sono l’ effettiva grande compassione e visione della Vacuità.
La compassione, la consapevolezza della compassione, è la radice di tutte le qualità di un Buddha, è la radice della Buddhità. Ogni Dharma sorge necessariamente dallo sviluppo della compassione. Dalla compassione scaturiscono tutte le altre buone qualità, realtà fondamentale e imprescindibile di ogni pratica.
Cos’è la consapevolezza della divinità? se osserviamo alcune divinità, ad esempio Manjusri - emanazione di saggezza, Avalokiteshvara - emanazione della compassione, Maitreya - emanazione della gentilezza amorevole, Tara - emanazione delle azioni illimitate del Buddha, vediamo che tutte le divinità sono l’immagine delle realizzazioni interiori. La mente del Buddha, la forma del Buddha, lo spazio del Buddha non sono separabili, sono identici.
La consapevolezza della Vacuità è come l’occhio del Dharma che vede il corretto cammino verso l’illuminazione, che indica con saggezza il retto sentiero. La visione della Vacuità è una visione aperta. Questa consapevolezza si pratica sempre, sia in seduta di meditazione focalizzata che durante le attività quotidiane.
Nella visione della Vacuità, la visione ultima dei fenomeni, si applica rispettivamente un diverso approccio nei Sutra e nei Tantra. Nei Sutra, i discorsi del Buddha, la mente che medita sulla Vacuità è quella che generalmente è considerata mente di un individuo, invece nei Tantra, la mente, il corpo e l’universo sono inscindibili, quindi la mente che medita sulla Vacuità non è di livello ordinario, grossolano, com’è comunemente concepita, ma è la mente di livello più profondo e sottile. Nel Tantra si utilizzano metodologie particolari lavorando con i canali energetici, con i venti o energie in una pratica che corrisponde all’orgoglio divino, ed è fondamentale mantenere vigile la consapevolezza dei canali, delle energie o venti, la consapevolezza dell’esistenza del corpo sottile.
La tecnica di visualizzare il corpo sottile, i canali energetici e i venti, chiarisce la posizione della mente e risponde alla domanda: “dov’è la mente?”, una domanda importante e, nel momento stesso in cui la formuliamo, il corpo sottile, i canali, i venti energetici offrono interessanti indizi per la sua localizzazione perché, se è vero che la mente pervade ogni parte del corpo, vi sono punti in cui è più forte e altri in cui è più debole, le differenziazioni sono innumerevoli. La conoscenza di questo aspetto favorisce una meditazione efficace e conduce a saper dominare la mente.
La mente in tibetano è “Rigpa” “Sel-shing Rigpa” termine traducibile in: “ciò che è luminoso e conoscente”. La luminosità della mente è la grande capacità di riconoscere l’esistente. Una mente chiusa è tale perché non usa le sue stesse potenzialità. Una mente illuminata, invece, ha una capacità di conoscenza pienamente matura. Le attitudini della mente maturano attraverso la conoscenza perché la mente stessa ha in sé quelle capacità e qualità. Nel Tantra la natura ultima della mente è detta “Chiara Luce” perché è la capacità di vedere la natura della mente dalla mente stessa.
Quindi, la Vacuità, la natura di Vacuità della mente, la consapevolezza della natura di Vacuità della mente divengono un’unica realtà e sono chiara luce. Di fatto Sutra e Tantra sono complementari l’uno all’altro; la pratica dei Sutra è l’essenza della pratica dei Tantra.
L’esistenza umana è particolare perché in essa la coscienza può penetrare i punti fondamentali, può unire la consapevolezza dei punti vitali e di quelli sottili. L’essere umano può meditare su di essi e sviluppare tutte le capacità, la rinuncia, la compassione, la saggezza. L’unione dei due aspetti: lo sviluppo delle qualità di compassione, rinuncia e vacuità con la capacità di penetrare consapevolmente i punti vitali costituisce la complementarietà dei Sutra e dei Tantra e si esprime nella loro pratica univoca.


“Il Canto del Leone” di Milarepa

L’insegnamento delle quattro consapevolezze, di grande pregnanza, è ripreso da molti maestri e Milarepa nella sua composizione “Il Canto del Leone” dice:
Questo è lo Yogi Repa libero dai pensieri”.
«Libero dai pensieri» significa avere una visione intuitiva, essere libero dal pensiero concettuale e dotato dalla serena fiducia senza paura che scaturisce dalla visione della Vacuità. Con la realizzazione della visione della Vacuità ci si libera dalla paura, la si supera, si va oltre.
Procedo con il passo del leone,
il passo degli eroi.
Per corpo prenderò il corpo dell’Ydam,
che è come castello fortificato.
Per parola userò la parola del mantra
che è come castello fortificato.
Per mente prenderò il castello fortificato della Chiara Luce.
E quando si manifestano i sei tipi di coscienza
scompaiono nella loro natura di Vacuità.”
In queste strofe si affronta la connessione con la consapevolezza. Il passo del Leone, l’incedere dell’eroe, intende che, essendo nella serena visione della Vacuità, non c’è più nulla da temere, si procede senza timore con il regale passo del Leone. Prendere per corpo il corpo dell’Yidam, per parola la parola del Mantra, per mente la mente di Chiara Luce suggerisce la consapevole acquisizione dell’orgoglio divino.
La consapevolezza del Corpo, della Parola e della Mente di Chiara Luce, fa si che di fronte agli aspetti e alle attitudini determinati dalla quotidianità, se ne riconosca la natura ultima lasciandoli cadere nella Vacuità.
Milarepa enfatizza la connessione con le quattro consapevolezze anche nel “Canto di Mahamudra”:
Quando medito su Mahamudra
Riposo senza conflitti nel mio vero essere.
Riposo nello spazio, senza distrazioni.
Dimoro nella chiarezza dello spazio di Vacuità.
Dimoro nella consapevolezza dello spazio di beatitudine.
Riposo tranquillo nello spazio non concettuale.
Nello spazio diversificato riposo in concentrazione.
Dimorando così, questa è la mente originale.
La ricchezza di certezza si manifesta senza fine.
Senza nulla fare la luminosità della mente è attiva.
Non fermato dall’attendere risultati, sto bene.
Senza dualità, senza speranza, senza paura!
Le afflizioni trasformate in saggezza
sono essere gioioso e luminoso”

Milarepa, come Marpa, è un perfetto esempio della devozione al maestro spirituale e i due canti sono colmi di significato; potremmo concludere l’insegnamento meditando su ogni strofa.
Domanda: Nella meditazione del mattino sull’essenza degli esseri viventi più preziosi delle gemme che esaudiscono i desideri, mi sono chiesto se questo è solo un espediente per favorire il superamento dell’ego o, realmente tutti gli esseri, anche quelli che agiscono malissimo, devono essere considerati preziosi?
Lama: L’essere umano ha un valore incalcolabile. Tutti gli esseri viventi, indistintamente, sono causa di illuminazione. Senza esseri senzienti non c’è possibilità di sviluppare la compassione e, senza compassione, non si può realizzare l’illuminazione. La causa di accumulazione dei meriti sono gli esseri senzienti. Per questo motivo Santideva si domandava perché non si nutre verso tutti gli esseri senzienti lo stesso rispetto che si ha per i Buddha, come invece dovrebbe essere, entrambi sono uguali, entrambi sono causa di illuminazione. Il Buddha è prezioso perché ha indicato il sentiero di illuminazione; gli esseri senzienti sono preziosi perché rendono possibile il tuo cammino su questo sentiero. Come potremmo praticare la compassione, la generosità, la moralità, la pazienza, la perseveranza, la concentrazione, la saggezza, senza gli esseri senzienti? Impossibile! Sono realmente più preziosi della gemma che esaudisce i desideri.
Domanda: La pratica dei Tantra richiede necessariamente molti ritiri per poterla approfondire?
Lama: I ritiri sono importanti per acquisire l’esperienza il cui calore deve essere mantenuto inalterato nella pratica quotidiana durante il periodo che segue un ritiro ed è buona cosa, non appena possibile, rinnovare l’esperienza in ulteriori ritiri. Tra i tibetani è piuttosto comune trovare praticanti che vivono con grande naturalezza nella quotidianità l’esperienza spirituale dedicando spazio e tempo alla pratica. In occidente la diversa struttura sociale e familiare rende questo aspetto più difficilmente attuabile, e sarà necessario trovare un modo per superare il problema. La continuità della pratica del Dharma non dipende solo da se stessi, è soggetta ai condizionamenti dell’organizzazione sociale, della famiglia, delle relazioni umane, delle convenzioni.



Preghiera e Dedica

Concludiamo con la lettura comune della “Preghiera in Otto Versi” composta da Geshe Langui Tanga Dorje Seghe (secolo XI°) e su cui si fonda la pratica del “Lojong”, ovvero del Trasformare la Mente, ripetendo tre volte la dedica dei benefici a tutti gli esseri:
Considerando tutti gli esseri senzienti
superiori persino alla gemma che esaudisce i desideri
per realizzare il fine supremo,
possa io costantemente prenderli a cuore.
Quando sarò con gli altri,
riterrò me stesso menu importante a tutti,
e fin dal profondo del cuore
li considererò cari preziosi.
Vigile, ogni volta che sorge un’ emozione negativa,
che possa nuocere a me o agli altri,
l’ affronterò e l’ eliminerò
senza indugio.
Vedendo esseri di imprenda alla malvagità
intenti a violente azioni negative e sopraffatti da sofferenze
avrò sempre cura di tali creature così rare,
come se avessi trovato un tesoro prezioso.
Quando altri, per invidia, mi maltratteranno,
mi insulteranno o faranno cose simili,
accetterò la sconfitta
ed offrirò la vittoria ad loro.
Quando qualcuno a cui ho fatto del bene
e in cui ho riposto grandi speranze
mi infligge un terribile danno,
lo considererò il mio santo amico spirituale.
( x 3) In breve, direttamente e indirettamente, io offro
ogni beneficio e felicità a tutti gli esseri senzienti, mie madri;
possa io segretamente prendere su di me
tutte le loro azioni negative e sofferenze.
Possano essi non essere mai contaminati dalle idee causate
dalle otto preoccupazioni mondane,
e consapevoli che tutte le cose sono illusorie,
possano essi, privi di attaccamento, essere liberati dalla samsara.

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