Commentario di Il CANTO delle QUATTRO CONSAPEVOLEZZA del SETTIMO DALAI LAMA
Geshe Gedun Tharchin
30 novembre - 1 dicembre 2002
ROME
ROME
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Commentario di
Il CANTO delle QUATTRO CONSAPEVOLEZZA
del SETTIMO DALAI LAMA
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Ven. Geshe Gedun Tharchin
del SETTIMO DALAI LAMA
***
Ven. Geshe Gedun Tharchin
Sviluppare
la Motivazione
La
Consapevolezza del Maestro
La
Consapevolezza della Compassione
La
Consapevolezza della Divinità
La
Consapevolezza della Vacuità
Il
Canto del Leone
Preghiera
e Dedica
*****
Sviluppare la Motivazione
Apriamo
l’incontro con le preghiere di “Rifugio e Generazione della
Motivazione del Risveglio” e delle “Quattro Aspirazioni
Incommensurabili”, o “Quattro Pensieri Illimitati”.
Come
voi ben sapete ogni pratica inizia sempre con le preghiere del
Rifugio nei tre Gioielli e della Generazione della Mente Altruistica
che genera i pensieri illimitati, senza confini. Sono preghiere brevi
ma ricchissime di significato.
Prendere
rifugio nei tre Gioielli significa affidarsi al Buddha, al Dharma e
al Sangha nella visione profonda.
Il Buddha rappresenta
la persona illuminata, ma non si riferisce all’aspetto fisico né
ad uno specifico individuo, bensì a tutti coloro che hanno
realizzato l’illuminazione. In questo senso il Buddha può trovarsi
ovunque, tra i cristiani, tra i musulmani, tra gli induisti, tra gli
ebrei, può esistere in qualsiasi contesto culturale e in qualsiasi
Paese. E’ molto importante avere piena consapevolezza che il
Buddha non è una persona, ma è uno stato dell’essere e come tale
può essere ovunque, realizzato da tutti, non occorre essere
Buddhisti per diventare un Buddha.
Anche il Dharma è lo
stato di realizzazione presente nella mente illuminata. Se, quando si
dice Buddha, convenzionalmente ci si riferisce a una persona, il
Dharma invece è la realizzazione, la comprensione illuminata,
presente nella mente di quell’individuo.
Per
Sangha si intende l’insieme dei seguaci dell’insegnamento del
Buddha, l’assemblea di coloro che ne praticano la dottrina.
Però riferendosi al
Buddha, individuo illuminato, il Buddha stesso rappresenta il più
alto livello del Sangha, per cui è necessario riprendere il concetto
di Buddha, Dharma e Sangha in una visione più profonda: Se il Buddha
come persona è la più alta espressione del Sangha, e il Dharma è
la realizzazione, la comprensione ultima nella mente di un
illuminato, allora, il Buddha chi è?
In
base a questo metodo di osservazione il Buddha diviene un concetto
molto sottile che, tradotto in linguaggio occidentale, potrebbe
essere: “lo stato di illuminazione”.
Lo stato di
illuminazione non è una realizzazione, non è uno stato cosciente e
non è nemmeno riferito ad una persona fisica, che cosa intendiamo
dunque dicendo Buddha? Potremmo suggerire: “la Purezza della
Natura della Mente”. La purezza che deriva dall’aver ripulito
tutta la negatività e che presenta due aspetti importanti:
1. la purezza della
natura della mente;
2. la purezza
risultante dall’aver purificato le negatività.
Prendiamo
come esempio l’acqua: se volessimo bere dell’acqua, che però è
inquinata, dovremmo prima procedere, fase dopo fase, alla sua
purificazione, in questo modo l’acqua così ottenuta presenta due
tipi di purezza:
- La natura della purezza dell’acqua stessa;
- La purezza derivante dal processo di purificazione che ha determinato l’eliminazione di tutte le contaminazioni presenti nell’acqua.
Poiché
noi siamo ad un livello ordinario la nostra mente è come l’acqua
inquinata, e ottiene lo stato di illuminazione tramite il
procedimento della sua purificazione.
Raggiungere
lo stato individuale di illuminazione significa che, presane
coscienza, si attua la negazione della contaminazione,
dell’inquinamento della mente, rimanendo nello stato di purezza
naturale della mente stessa.
In una sola natura
esistono due aspetti distinti:
- uno è relativo alla cessazione delle negatività che non possono più tornare in quanto definitivamente e totalmente eliminate;
- il secondo concerne invece la “Vacuità” e si riferisce alla natura ultima della mente. In questo contesto la Vacuità non è da intendersi nel suo aspetto più generale, ma è specificamente la Vacuità della mente illuminata.
L’illuminazione è
costituita da questi due aspetti: della Cessazione e della Vacuità.
Lo stato dell’illuminazione è “ESSERE BUDDHA”.
Quindi, BUDDHA, DHARMA
e SANGHA, sono un concetto fondamentale da assimilare nell’essenza
più profonda e completa.
Nel
linguaggio ordinario per Buddha, convenzionalmente si intende una
persona realmente esistita, una persona fisica; per Dharma l’insieme
delle scritture tramandate; per Sangha l’assemblea di coloro che
studiano e praticano la dottrina contenuta questi stessi testi., un
modo di osservazione innegabile e oggettivamente corretto, che però
rappresenta solo l’aspetto più evidente e superficiale, è dunque
indispensabile andare oltre e comprenderne il vero significato,
l’essenza profonda e reale.
Con
la visione completa dell’essenza di Buddha, Dharma e Sangha si
prende rifugio consapevole nei tre Gioielli, non in qualcosa di
esterno, non in una persona fisica, ma nella stessa completa visione
di illuminazione, l’obiettivo finale. Prendere rifugio significa
volgersi all’obiettivo ultimo e attraverso la pratica purificare la
propria mente, significa avere un’assoluta determinazione e forza
perché, in assenza di tali attitudini, non si potrà raggiungere lo
scopo.
Ma cosa può darci la
necessaria forza, determinazione e volontà? Soltanto la Bodhicitta,
il pensiero altruistico citato nel secondo verso. Senza Bodhicitta
non si ha la giusta motivazione per proseguire verso l’illuminazione.
E’ quindi ovvio che
alla preghiera di “Presa di Rifugio” seguano le quattro
aspirazioni incommensurabili, o pensieri illimitati, che, avendo
realizzato il proprio scopo, esprimono la naturale conseguente realtà
di essere beneficio a tutti gli esseri senzienti.
Essere
nei quattro pensieri illimitati ci permette di immaginare e
sperimentare gli effetti dello stato ultimo lo stato
dell’illuminazione, ma come può verificarsi questa esperienza?
Avendo preso rifugio e
generato la motivazione del risveglio immaginiamo di aver già
realizzato lo stato del risveglio e ne visualizziamo i risultati,
cioè che tutti gli esseri senzienti abbiano la felicità e le cause
della felicità. Questa visualizzazione produce una immensa gioia,
un’infinita felicità ed evidenzia i possibili risultati della
pratica, le conferisce il senso compiuto. Da tale pratica scaturisce
un’energia fortemente positiva che è un grande merito. Con simile
visualizzazione sperimentiamo un’intensa gioia, come se stessimo
sognando una realtà bellissima, ma poi ci svegliamo e ci accorgiamo
che la situazione che ci circonda è ben diversa, c’è tanta
sofferenza, ed è appunto questo il momento in cui iniziare la
pratica vera, lo studio, l’approfondimento, la meditazione, le
azioni.
Questo
è l’atteggiamento corretto per intraprendere ogni pratica
meditativa, prima è necessario focalizzare l’obiettivo e poi
attivare le condizioni per la sua realizzazione.
Se il nostro scopo è
ottenere lo stato di illuminazione, prendendo rifugio nei tre
Gioielli, Buddha, Dharma e Sangha, creiamo le condizioni affinché
possa realizzarsi e l’unica condizione possibile è lo sviluppo
della Bodhicitta, della mente altruistica, il livello superiore di un
cuore aperto. Il passaggio successivo è sperimentare sul piano
immaginativo gli effetti benefici di un cuore aperto.
Queste tre fasi
contengono tutta la pratica, ecco perché una preghiera tanto breve
ha un significato sconfinato. Anche Sua Santità il Dalai Lama, in
occasione del Kalachakra a Graz, ha scherzato su questo punto
ricordando come un Lama mongolo si rivolgesse ai tibetani dicendo:
“Voi Lama tibetani avete nomi lunghissimi ma poco significato,
mentre in passato grandi maestri indiani come Nagarjuna avevano nomi
molto corti ma erano ricchissimi di significato”.
Recitiamo insieme
consapevolmente la preghiera di Presa di Rifugio e Generazione della
Motivazione del Risveglio:
“Nel
Buddha, nel Dharma e nel Sangha
Prendo
rifugio fino al risveglio.
Per i meriti
ottenuti con la pratica della generosità e delle altre virtù
Possa
io realizzare lo stato di Buddha per il bene di tutti gli esseri.”
E la preghiera delle
Quattro Aspirazioni Incommensurabili, o quattro pensieri illimitati:
“Possano
tutti gli esseri possedere la felicità e la causa della felicità!
Possano tutti gli
esseri essere separati dalla sofferenza e dalle cause della
sofferenza!
Possano tutti gli
esseri mai lasciare la Santa Felicità, priva di ogni sofferenza!
Possano tutti gli
esseri risiedere nella Grande Equanimità, priva di ogni inclinazione
e di ogni avversione parziale!”
Sono
parole molto belle, e proviamo piacere nel pronunciarle, ma
soprattutto è necessario comprenderle profondamente, penetrare nel
loro livello ultimo in cui Buddha, Dharma e Sangha sono, tutti e tre,
Buddha.
La mente del Buddha è
ciò che chiamiamo Dharma, ma è anche Buddha; il Sangha è la
persona illuminata e quindi anch’esso è Buddha.
Ciò
che abbiamo definito Buddha, lo stato di illuminazione, ha due
aspetti che sono essi stessi Buddha. Il primo riguarda la cessazione
delle negatività, degli ostacoli, delle oscurazioni della mente e il
secondo è relativo alla purezza della mente illuminata, entrambi
appartengono all’unica natura della Vacuità che è l’espressione
di Buddha permanente. Le altre manifestazioni di Buddha, che si
riferiscono all’individuo illuminato, alla persona illuminata, sono
invece impermanenti. Riassumendo, sono due gli aspetti del Buddha,
uno permanente e l’altro impermanente, due qualità che si possono
ottenere tramite la purificazione della mente, esse danno chiarezza
sul modo di essere della propria mente, sulle reali motivazioni che
inducono a ricercare lo stato di illuminazione.
Ecco perché il Buddha
può essere ovunque e, da questa visuale, possiamo comprendere in che
modo la nostra mente ordinaria sia collegata alla mente del Buddha,
come la mente ordinaria possa essere trasformata nella mente
illuminata, come la Vacuità della mente ordinaria possa diventare la
Vacuità della mente illuminata, e la Vacuità della mente illuminata
possa diventare Buddha. L’individuo che possiede questa mente può
diventare Buddha.
Il nostro livello
ordinario di esistenza ha le potenzialità del livello di Buddha e
assomiglia al livello del Buddha e proprio queste somiglianze rendono
possibile l’ottenimento dello stato di essere illuminato. Ecco
perché si deve sempre avere la chiara visione e la speranza
sull’effettiva possibilità di realizzazione dell’illuminazione.
La nostra mente
ordinaria è contaminata e, così come non respiriamo e ci muoviamo
faticosamente in un ambiente inquinato, abbiamo le stesse difficoltà
sul piano mentale e il movimento verso gli obiettivi è gravoso,
incontriamo continui ostacoli, troppi limiti che rendono quasi
impraticabile il percorso verso la meta desiderata. Ma se
purifichiamo l’ambiente, cioè la nostra mente, è come se ci
trovassimo in un luogo incontaminato dove ogni frutto può crescere
rigoglioso e senza difficoltà.
Le nostre azioni sono
limitate dalle contaminazioni mentre le azioni di un Buddha sono
completamente libere, pure, non hanno ostacoli e producono frutti
spontanei che si estendono in ogni direzione, senza limiti.
Non
è facile comprendere la mente di un Buddha, ma come con una buona
educazione ed istruzione apprendiamo sempre cose nuove in grado di
migliorare la qualità della vita perché ogni attività fluisce con
minor sforzo, allo stesso modo alimentando la conoscenza e la
consapevolezza permettiamo una sempre maggiore purificazione della
mente.
Purificare
non è soltanto pulire, pulire e pulire, ma significa anche
coltivare, far crescere conoscenza e saggezza; la sola pulizia,
seppur indispensabile, non produce nulla.
Purificazione
è il processo di pulizia che permette lo sviluppo della conoscenza e
della saggezza.
Dobbiamo purificare
l’acqua eliminando le contaminazioni che la intorpidiscono così da
ottenere limpida acqua che possiamo finalmente bere.
La Consapevolezza del Maestro
Il canto del settimo
Dalai Lama, “Canto delle quattro Consapevolezze” mostra la via
della consapevolezza, istruisce sul modo di meditare la via di mezzo,
la via della Vacuità, e tratta una per una:
1. La consapevolezza
del Guru, del vero Maestro spirituale;
2. La consapevolezza
della Compassione;
3. La consapevolezza
della Divinità;
4. La consapevolezza
della Visione della Vacuità.
Il testo, scritto in
connessione alla pratica della più alta classe di Vajrayana, insegna
come mantenerne la pratica del Vajra nella quotidianità.
Nella
pratica del Vajra la figura del Maestro spirituale, il Guru, è
molto, molto importante e lo è in generale in ogni pratica
Buddhista, ma in quella dei Sutra e in particolare delle sei
Paramita, le qualità trascendenti, la figura del Guru è
fondamentale, ne costituisce la base, la sorgente di ogni qualità
spirituale.
Nei Sutra il Guru è
visto come colui che conferisce i voti del Bodhisattva che prima
devono essere spiegati e in un secondo tempo dati. Dare i voti del
Bodhisattva a parole sembra relativamente semplice, ma in realtà
implica una grande preparazione e responsabilità, sia da parte del
Maestro che da parte del discepolo. Il Maestro è la guida spirituale
che incoraggia e istruisce il discepolo affinché possa ricercare la
Bodhicitta, cioè seguire la pratica del Bodhisattva, lo accompagna
nella pratica per la realizzazione delle qualità trascendentali, le
sei Paramita.
Nei
Sutra si descrive anche come il Maestro spirituale debba conferire i
voti di Pratimoksa,
di
liberazione individuale, sia a monaci che a laici, ma in questo caso
con modalità inversa alla precedente: i voti sono prima dati e poi
spiegati.
Queste
due modalità differenti nel conferimento dei voti comportano
modalità differenti di pratica. Nei Sutra si dice espressamente che
il maestro che dà i voti di Pratimoksa
deve seguire il discepolo sino alla realizzazione delle loro qualità
intrinseche e sino a quando il discepolo non raggiunga l’autonomia
nella pratica.
Questo
approccio si differenzia da quello cristiano in cui il conferimento
dei voti comporta assoluta e perpetua obbedienza nei confronti
dell’istituzione, non esiste alcuna possibilità di autonomia e di
indipendenza.
Nel
Buddhismo invece il maestro istruisce, guida il discepolo che, a
seconda delle proprie capacità, intelligenza e volontà diverrà in
un tempo definito, non importa se breve o lungo, autonomo. Il
raggiungimento dell’autonomia è fondamentale nel Buddhismo e in
questo senso le due tradizioni, cristiana e buddhista, sono molto
diverse.
Nei
voti di Pratimoksa
il Maestro
conferisce al discepolo il titolo, la posizione, e continua a
seguirlo insegnandogli a sviluppare le capacità corrispondenti.
Esiste alla base un riconoscimento, un’accettazione totale e
reciproca circa via da seguire.
Nel
voti di Bodhisattva invece l’autonomia del praticante è
immediatamente effettiva perché si presume che, avendo maturato la
consapevolezza di volersi impegnare in questo sentiero, sia già
responsabile e di conseguenza autonomo. Il Maestro, prendendo atto di
tale situazione, non ha altro da fare che conferire i voti.
Queste
sono due modalità differenti di relazione Maestro - Discepolo.
La
pratica del Vajra, o Vajrayana è avviata dall’iniziazione, cioè
il momento in cui si attiva la relazione Maestro - Discepolo.
Alcune
pratiche Vajrayana prima dell’iniziazione richiedono semplicemente
i voti di Bodhisattva, altre invece, a livello superiore, esigono
anche i voti Tantrici.
I
voti Tantrici devono essere dati senza necessità di spiegazioni, ciò
presuppone che al momento del loro conferimento entrambe le
condizioni, da parte del Maestro e del discepolo, siano soddisfatte,
non vi è bisogno di altro, i voti sono stati dati e accolti così
come sono, e significa che sia maestro che discepolo sono pienamente
qualificati per dare e ricevere questi voti.
La
qualificazione richiesta a un maestro e a un discepolo Vajra è molto
complessa ed esige caratteristiche ben definite. In entrambi i voti,
di Bodhisattva e di Pratimoksa,
è necessario che il maestro e il discepolo siano qualificati e
posseggano le caratteristiche specifiche per ognuna delle pratiche.
Non è così semplice dare e ottenere i voti e la spiegazione delle
qualificazioni è complessa, difficile e di non facile ascolto,
dunque non approfondiremo ulteriormente l’argomento.
E’
però importante comprendere come i tre livelli di pratica di cui
abbiamo parlato siano strettamente correlati tra di loro,
interdipendenti, sono l’uno il fondamento dell’altro: la pratica
di Pratimoksa
(liberazione individuale) come fondamento, base o condizione per la
pratica del sentieri di Bodhisattva e la pratica di Bodhisattva come
fondamento, base o condizione per la pratica del Tantra.
Abbiamo
visto qual’è nella pratica, la funzione del Guru, o Lama, o
Maestro spirituale esteriore che, comunque lo si chiami è sempre il
Maestro convenzionale, ma dov’è il Maestro ultimo?
Risposta:
In noi stessi.
Esatto,
il Lama è il Maestro esteriore, ma il Maestro ultimo è la propria
Mente, la propria realizzazione. Il Buddha stesso ha detto: “Voi
siete il Maestro di voi stessi”,
il Buddha non ha mai detto io sono il Maestro, io sono il vostro
Maestro, ma: “Voi
siete il vostro vero Maestro”.
Quindi
riferendosi al Lama non bisogna mai scordare questa riflessione, si
deve mantenere sempre la consapevolezza del Maestro interiore, non
considerare il Lama come altro da sé, magari vissuto duemila o
duemilacinquecento anni fa e adesso assente. Il vero Maestro è qui e
ora, è la nostra Mente.
Anche
Sua Santità il Dalai Lama, di fronte alle forme di devozione un po’
sciocca che spesso i tibetani assumono nei suoi confronti, ha un
atteggiamento molto pratico, staccato e non si stanca di ripetere:
“pregate voi stessi, fate offerte a voi stessi, pregate affinché
voi stessi godiate di buona salute e otteniate una lunga vita,
pregate voi stessi per sviluppare le qualità necessarie alla
realizzazione dell’illuminazione, non pregate qualcun altro al di
fuori di voi.”
I
tibetani hanno l’abitudine di chiedere continuamente ai Lama
benedizioni, ma il Dalai Lama non incoraggia quest’attitudine e
ribadisce continuamente: “Non è il Lama che benedice, siete voi
stessi che potete benedirvi, la vera benedizione viene dalla propria
interiorità, non dall’esterno”.
I
primi versi del canto del VII° Dalai Lama insistono appunto sulla
necessità di mantenere costantemente la consapevolezza del Maestro
spirituale:
“Sull’immutabile
cuscino
Dell’Unione
di metodo e saggezza,
Siede
il Maestro gentile,
L’incarnazione
di tutti i rifugi,
un
Buddha che ha completato l’abbandono e la realizzazione.
Avendo
abbandonato ogni concezione errata.
Pregalo
con concezione pura.
Non
lasciando divagare la tua mente ,
Poni
in esso fede e rispetto,
con
consapevolezza.”
Metodo
e Saggezza sono un’immutabile e inscindibile unione in cui il
Metodo è la Compassione e la Saggezza è la Visione della Vacuità.
Coltivando la Compassione cresce la Saggezza e coltivando la Saggezza
cresce la compassione. Questi due aspetti inseparabili raggiungono la
perfetta unione quando si ottiene la compassione ultima e la visione
della saggezza ultima. L’unione di metodo e saggezza è la qualità
essenziale del maestro spirituale e, in questo contesto, del Maestro
Vajrayana.
Il
metodo si attua nella ricerca di un Beneficio. Generalmente
riferendoci ad un beneficio pensiamo a qualcosa di temporaneo, di
immediato, come ad esempio un piacere sensuale, ma il metodo si
riferisce invece al Beneficio durevole, definitivo, permanente per se
stessi e per gli altri, in grado di realizzare la liberazione dal
terzo livello di Dukkha, della sofferenza pervasiva di cui è
permeato l’intero Samsara, il livello più difficile da
riconoscere, da comprendere e da eliminare.
La
“sofferenza pervasiva” non proviene dall’esterno, non è
determinata da eventi particolari, dall’ambiente, dagli amici, da
nulla; tutto apparentemente può essere ottimale, perfetto, eppure
essa esiste, è ben radicata, è semplicemente una condizione della
mente samsarica, è una sofferenza presente in ogni istante della
nostra via, che ne siamo consci o meno e non sempre si manifesta in
modo evidente.
I
livelli si sofferenza palesi sono rappresentati dalla “sofferenza
della sofferenza” e dalla “sofferenza del cambiamento”. La
sofferenza della sofferenza è indubbiamente la più eclatante, ne
sentiamo concretamente tutto il peso, quando ci troviamo in
condizioni sfavorevoli, siamo malati, abbiamo fame e sete, subito
lutti e perdite…. La
sofferenza del cambiamento è già più sottile, non immediatamente
visibile, mascherata da un’apparente ed effimera sensazione di
piacere, (alcool , droghe…).
In genere la nostra
vita oscilla tra la sofferenza della sofferenza e la sofferenza del
cambiamento, spesso usiamo la seconda nel tentativo di sfuggire alla
prima e impegniamo ogni energia in queste battaglie, ma non
riconosciamo mai la sofferenza pervasiva costantemente presente nella
nostra vita.
Spendendo
tutte le nostre forze divincolandoci in queste oscillazioni non siamo
nel Dharma, ma totalmente immersi nel Samsara e alimentiamo senza
sosta lo stato di sofferenza. Se ad esempio, ricercando il piacere,
ci tuffiamo nelle droghe, nel fumo, nell’assunzione smodata di cibo
o di alcool, in base al meccanismo di causa effetto non otteniamo
altro che ulteriore sofferenza: ad un effimero piacere momentaneo,
segue un danno che produce sofferenza ancora più grave. Queste
illusioni accrescono la confusione mentale che ci ottenebra.
Un
oggetto della pratica del Dharma è il terzo livello di sofferenza,
quello non evidente, non apparente, nascosto, perché è la fonte,
l’origine, degli altri due. Poiché a causa del terzo livello di
sofferenza si sprofonda negli altri due, è necessario concentrarsi
sulla sua eliminazione.
Il modo corretto per
praticare il Dharma consiste nell’impegnarsi nell’eliminazione
del terzo livello di sofferenza, osservarlo, comprenderlo sradicarlo.
Eliminando la sofferenza pervasiva saranno eliminati anche gli altri
tipi di sofferenza.
Nella nostra società è
difficile comprendere pienamente il valore di questa pratica e spesso
ci si accosta ad essa in modo improprio, limitato, ad esempio si usa
la meditazione per alleviare un mal di testa e, anche se non vi è
nulla di male, è sicuramente un utilizzo riduttivo e parziale delle
potenzialità del Dharma, non è pratica del Dharma. Praticare il
Dharma è andare alla radice della sofferenza ed estirparla.
Analizziamo
come si presenta nella vita quotidiana, nella nostra mente, nel
nostro cuore, il terzo livello di sofferenza, la sofferenza
pervasiva. E’ lo stato di insoddisfazione, di vuoto, che tutto
pervade. Qualsiasi cosa facciamo, questo sottile e desolante senso di
nullità rimane; sia che stiamo qui o andiamo nei paesi più belli
del mondo, anche se visitiamo il paradiso o l’inferno, nulla
cambia, quel senso di vuoto permane immutato, pervade tutto il nostro
essere, è una presenza costante, è l’esperienza della sofferenza
pervasiva che penetra ogni esperienza trasformandola inevitabilmente
in sofferenza. E’ necessario trovare un metodo per uscire da questo
circolo vizioso e nel buddhismo l’abile mezzo è il Dharma.
Con
il corretto sviluppo del procedimento del Dharma tutto diviene
perfetto, persino un forte mal di testa non potrebbe mutarne la
perfezione, è scritto nei testi buddhisti che anche il momento della
morte è un momento perfetto.
E’
però fondamentale mantenere sempre viva l’attenzione per
conservare la purezza della pratica, senza lasciarsi mai travolgere
da ingannevoli trappole quali ad esempio la paura. Tutte le
religioni, nella brama di poter contare il maggior numero di
proseliti, hanno sempre fatto leva su questo sentimento, i cristiani
spaventando con inferni terrificanti di dannazione eterna e i
buddhisti con spaventose visioni della morte. Il meccanismo è
esattamente lo stesso ed è altrettanto sbagliato, la paura non può
in nessun caso generare una pratica pura, vera. E’ necessario saper
cogliere l’essenza degli insegnamenti superando la limitatezza
delle terminologie e dei metodi di controllo utilizzati. E’
importante saper distinguere la realtà e liberarsi da vecchie
sovrastrutture oggi assolutamente inadeguate.
Alcune visualizzazioni
che avevano una precisa ragione d’essere nell’antico Buddhismo
tibetano, se trasposte nell’attuale contesto occidentale potrebbero
essere fuorvianti e controproducenti. Il Buddhismo è approdato in
occidente e in Italia e qui deve trasformarsi in potenzialità fresca
e nuova per la realizzazione dell’illuminazione nel rispetto della
cultura e delle tradizioni italiane. Voi dovete lasciare che il
buddhismo venga praticato in Asia secondo la cultura e le tradizioni
di quelle popolazioni, qui la cultura e le tradizioni sono altre ed è
fondamentale rispettarle. La società moderna deve tener conto delle
scoperte scientifiche, della tecnologia, delle radici culturali,
religiose e filosofiche di cui è permeata e soltanto in un profondo
rispetto di tutto questo il Buddhismo potrà davvero dare frutti in
occidente.
Pensate per assurdo
cosa succederebbe se tutti rimanessimo fermamente arroccati in
vecchie posizioni statiche, motivati essenzialmente dalla paura. In
Italia il cattolicesimo è molto forte e se si volesse imporre in
questo paese il Buddhismo, giapponese o tibetano, o qualsiasi altra
religione e ognuna di queste, ritenendo il propria tradizione unica,
perfetta e immutabile, pretendesse di imporla a tutti senza alcun
rispetto per il contesto locale, ne nascerebbe un conflitto fomentato
da integralismi e intolleranze che nulla spartiscono con la
spiritualità e la filosofia di qualsiasi religione. La guerra
ovviamente non è lo scopo del Dharma, il Dharma è liberazione dalla
sofferenza, quindi attenti alle trappole, purificatevi da ogni
condizionamento prima di dedicarvi alla pratica.
Il
Dharma agisce sul livello fondamentale della sofferenza, non sui
contrattempi o sulle disavventure quotidiane, vuole eliminare la
sofferenza pervasiva che è la sorgente continua dell’insoddisfazione
permanente e profonda che ci accompagna ininterrottamente. Soltanto
il Dharma può superare questo dolore costante e far si che anche la
morte non sia più un problema in quanto naturale passaggio, ma senza
il Dharma l’insoddisfazione profonda renderà il momento della
morte disperante e continuerà ad esistere anche dopo la morte
stessa.
Il passaggio nella
morte è un momento di grande rivelazione. Per questo che prima si è
scherzato sui mezzi usati dalle istituzioni religiose per impaurire
le persone e convincerle a convertirsi, l’inferno e la morte sono
due argomenti sempre vincenti nella manipolazione delle coscienze.
Ma, se osservati nell’ottica del Dharma, sono assolutamente inutili
perché nel Dharma tutto è perfetto, morire è naturale, visitare
gli inferi non è un problema, visitare il Paradiso non è speciale.
Se si pratica il Dharma profondo nulla è un problema e nulla è
speciale, il Dharma supera e sconfigge il livello pervasivo della
sofferenza, la sorgente di tutte le sofferenze.
Ogni
qualvolta si cerchi di coltivare la compassione, si rivolgano
preghiere per il bene del mondo, si alimenti il pensiero amorevole
affinché possa non più esistere la sofferenza, ogni qualvolta si
pratichi nella comprensione del livello pervasivo della sofferenza,
consapevoli che il significato della preghiera ultima è la
compassione ultima, allora si pratica il vero Dharma e si ottiene il
superamento della sofferenza pervasiva che permette l’eliminazione
della sofferenza del cambiamento e della sofferenza della sofferenza.
Se ne siamo consapevoli possiamo vedere come tutti gli esseri viventi
siano ugualmente impregnati di sofferenza pervasiva, siano legati,
imprigionati nella stessa condizione, senza differenze e anche se
appaiono alcune diversificazioni sono sempre temporanee e non sono
significative, la sostanza è la comune condizione di schiavitù in
questa sofferenza.
A
volte cadiamo in percezioni illusorie veramente buffe, ad esempio in
TV si sente spesso appellare il presidente degli USA, “l’uomo più
potente del mondo”, ma allora chi è il meno potente? In politica
come nella vita ordinaria si costruiscono continue differenziazioni,
ma sono solo illusioni; dal punto di vista della sofferenza pervasiva
non vi è alcuna distinzione, e così si pratica il Dharma.
E’
difficile chiarire la nozione della sofferenza pervasiva ma ognuno ne
ha esperienza diretta, voi come la definireste?
Risposta:
Per me è abbastanza evidente, quando mi rendo conto che ho tutto,
non mi manca niente, ho lavoro, casa, affetti, però ugualmente sento
in me insoddisfazione e mi chiedo che cos’è questa
insoddisfazione, credo si tratti proprio della sofferenza pervasiva.
Lama:
e che nome date a questo?
Risposta:
Leopardi
la chiama “tedio”.
Risposta:
forse sarebbe meglio dire tedio esistenziale.
Risposta:
A me sembra che nel momento in cui non abbiamo la pienezza della
mente cadiamo automaticamente nell’insoddisfazione profonda.
Lama:
Cosa intendi per “pienezza della mente”, c’è nel
cristianesimo questo concetto?
Risposta:
Si, ma si dice “pienezza del cuore”.
Risposta:
Pienezza della mente come pienezza dello spirito, consapevolezza del
risveglio.
Lama:
Illuminazione?
Risposta:
Si, perché se una persona non è consapevole di essere illuminato è
insoddisfatto.
Lama:
Altri?
Risposta:
Il
senso di insoddisfazione lo avverti quando perdi il senso della vita.
Se la tua vita ha significato non percepisci insoddisfazione, anche
se vedi tutte le difficoltà di vivere. Il senso della vita è dare
il giusto valore alle cose e quindi soltanto essere Bodhisattva, la
ricerca continua per diventare Bodhisattva, ti da il senso della
vita.
Risposta:
Il livello più profondo della sofferenza è sapere che uno è legato
a filo doppio a tutta una serie di dipendenze, dipendenza dall’altro,
dagli affetti, dal lavoro, dalla casa. Sono dipendenze che ci
separano dal Dharma e per quanto si sia contenti di tutto ciò che si
ha c’è anche la consapevolezza di esserne dipendenti proprio dalle
stesse cose, ed è sofferenza. Si è legati a un meccanismo che
impedisce di essere liberi.
Lama:
Stiamo discutendo a lungo su questo punto perché è difficile
da esprimere a parole e ognuno ha il suo linguaggio, ma parlandone
possiamo chiarie il concetto.
Risposta:
Si è difficile, ma credo che sia stata colta l’essenza del
pensiero: quando hai smarrito il senso della vita sei immerso nella
sofferenza pervasiva, sei perso.
Risposta:
Quando ti accorgi di non essere libero e vedi che i legami ti
imprigionano inesorabilmente, sperimenti questa sofferenza più
profonda.
Risposta:
Secondo me è singolare l’argomento della dipendenza, ti accorgi
che la tua felicità dipende da qualcosa, quindi, se manca quel
qualcosa non sei felice. Ma il fatto più interessante è che lo
stesso vale per la sofferenza, anche la sofferenza dipende da
qualcosa, allora ti accorgi che la tua sofferenza e la tua felicità
dipendono da qualcosa di esterno e ti poni la domanda: perché devo
dipendere da qualcosa al di fuori?
Risposta:
E’ allora che puoi trovare il senso della vita.
Risposta:
Quando ti accorgi che comunque dipendi da qualcosa che è fuori di te
individui nella dipendenza il vero problema, che non è
evidentemente dato da oggetti esterni, ma chi crea questo
collegamento?
Lama:
In occidente ho ricevuto una gran quantità di informazioni, avete
una mente acuta, intelligente, istruita, e il mio desiderio è che il
buddhismo si connetta con le caratteristiche della mente occidentale,
che trovi collegamenti aperti e dinamici senza chiudersi in una mente
ottusa e retrograda. Il mio desiderio è che il Buddhismo possa
diventare in occidente mobile, spazioso e portare reale beneficio,
alleviare la sofferenza di tutti gli esseri, senza fermarsi alla
pratica formale, statica e inutile in questo contesto sociale.
Pensate a quanta sofferenza si potrebbe eliminare con l’uso
corretto dell’ alta tecnologia.
Se
non si individua chiaramente il livello pervasivo della sofferenza,
si perde l’obiettivo, si manca completamente il bersaglio, con
poche e semplici parole possiamo dire che la sensazione che “qualcosa
non va”, “che manca qualcosa”, indipendentemente dagli eventi
esterni, è la sofferenza pervasiva. In genere non capiamo perché
questo avvenga, ne ricerchiamo le cause nei posti sbagliati, al di
fuori di noi, ma imparare a individuare e gestire questa
insoddisfazione profonda rende tutto perfetto. Identificare e
riconoscere il livello pervasivo della sofferenza è fondamentale in
ogni pratica di Dharma, mentre il contrario rende l’obiettivo
irraggiungibile.
Dopo aver riconosciuto
il livello pervasivo della sofferenza, resta da identificare qual è
la sua causa, infatti non è sufficiente averlo individuato
chiaramente, ora è necessario risalire alla sua origine.
La causa della
sofferenza pervasiva è l’attitudine mentale ad aggrapparsi ad un
sé. Ma cos’è questo sé a cui siamo così legati? Dove si trova?
Perché non riusciamo a rintracciarlo da nessuna parte? Siamo
aggrappati a un qualcosa che non è, che nessuno può scovare, e da
qui nasce il livello pervasivo della sofferenza, da un punto che non
ha base, che fonda se stesso su un io che non esiste, fonda se stesso
su un’illusione, questo è il problema.
Il riconoscimento di
questa realtà è la chiave per vincere la sofferenza. La sofferenza
nasce dall’attitudine ad aggrapparsi ad un sé che non esiste. Ciò
non significa che noi non esistiamo, è evidente che siamo qui, ma è
l’attitudine ad aggrapparsi al sé profondamente illusorio che crea
sofferenza.
Riconoscere il livello
pervasivo della sofferenza è il fondamento dello sviluppo della
Compassione e il riconoscere il non-sé, cioè l’assenza di quel sé
così come generalmente viene erroneamente definito e afferrato
dall’attitudine ad aggrapparsi ad esso, è la Saggezza. L’insieme
di Compassione e Saggezza sono lo strumento più importante per
superare il livello pervasivo della sofferenza.
In occidente siamo
ricchi di tecnologia, si può quindi usare la mente tecnologica per
analizzare la sofferenza, il livello pervasivo della sofferenza e far
sorgere compassione e saggezza. E’ come essere in un laboratorio
scientifico della spiritualità, se rinascesse Leonardo da Vinci in
questo laboratorio spirituale il progresso potrebbe subire una
notevole accelerazione, diventare pratico, immediato, di aiuto
all’attuale società.
Invece oggi tendiamo a
dividere, limitare le possibilità, quando si medita ci si estranea
dalla vita attiva e quando si è attivi, si perde lo stato
meditativo. E’ necessario trovare un equilibrio tra le due fasi,
una via di mezzo, dove il meditatore è nel contempo una persona
attiva e nell’attività non perde lo stato meditativo. Questo è
l’atteggiamento che porta beneficio e che rende la pratica proficua
perché ottiene la piena integrazione tra l’aspetto spirituale e
quello materiale della vita.
A volte si tende anche
a confondere la pratica spirituale con la psicoterapia, ma sono due
situazioni diverse: nella psicoterapia c’è una persona preparata,
un medico che, in base alle proprie conoscenze, aiuta gli altri a
risolvere determinati problemi e il suo compito si esaurisce in
questo. Nella pratica spirituale invece il processo di guarigione è
attuato da se stessi su se stessi, ognuno è lo psicoterapeuta di se
stesso; non è sufficiente acquisire determinate conoscenze, è
necessario ricondurle a sé, assimilarle alla vita quotidiana
continuamente, mantenendone la presenza costante, momento per
momento, che si rinnova incessantemente senza mai esaurirsi
diventando parte integrante di sé. Ciò può avvenire correttamente
solo quando il progredire nella spiritualità è in armonia con le
attività materiali, soprattutto nella società moderna e tecnologica
dove si conta molto su se stessi e poco sugli altri.
Proseguendo
nell’analisi del testo esaminiamo il “cuscino”
dell’immutabile unione di saggezza con il metodo. Il metodo è la
compassione e la saggezza è la visione della Vacuità, o
realizzazione del non sé. Quindi, quando ci si riferisce al Maestro
spirituale, al Lama e lo si visualizza seduto sui cuscini
rappresentati dal sole e dalla luna si sottolinea che non è facile e
automatico essere maestro spirituale, non basta possedere un ricco
bagaglio di conoscenze, ma è necessario aver realizzato la grande
compassione e la saggezza della mancanza del sé, o saggezza della
Vacuità. Questa è la qualificazione minima, essenziale, del maestro
spirituale.
Un maestro deve essere
sempre gentile, rappresenta tutti i rifugi: Buddha, Dharma e Sangha e
dà corpo a tutti gli esseri realizzati come gli Arhat e i
Bodhisattva.
Il Lama, o Guru, o
Maestro spirituale rappresenta l’incarnazione dei Buddha, dei
Bodhisattva, degli Arhat, poiché essi sono uniti da un solo
desiderio: quello di liberare tutti gli esseri dalla sofferenza.
I
Buddha i Bodhisattva, gli Arhat non si manifestano materialmente e
per aiutare le persone a raggiungere la liberazione, per offrire lo
strumento indispensabile della conoscenza e pratica del Dharma, è
necessario che esse possano incontrare una persona vivente,
concretamente presente, il maestro spirituale, il Lama, il Guru
radice. In questo senso si dice che il maestro spirituale è
l’incarnazione di tutti i rifugi, è gentile perché guida nella
strada che porta all’illuminazione e non c’è gentilezza
superiore a questa. Il Lama ha le qualità della compassione e della
saggezza, è l’incarnazione di tutti i Buddha e i Bodhisattva, è
gentile perché conduce all’illuminazione, quindi il Lama è
Buddha.
E’ necessario
abbandonare ogni preconcetto errato nei confronti del Lama e pregarlo
con una concezione pura. La ragione per cui viene espressamente dato
questo consiglio è che, sebbene il Lama possa apparire al discepolo
come persona rude e burbera, in realtà esprime un atteggiamento
gentile e amorevole e il difetto non è nel Lama ma nella percezione
errata del discepolo che a causa del suo karma ha una visione
distorta della realtà. La corretta relazione tra Lama e discepolo
presuppone ovviamente la presenza di un Lama qualificato e di un
discepolo qualificato. Se entrambi sono qualificati si instaura una
corretta relazione, ecco perché si deve meditare sul Lama e pregarlo
con le modalità indicate nel testo, liberi da concezioni errate, con
una pura visione, senza lasciare che la mente divaghi ma rimanga
ferma nel rispetto e nella fiducia.
La Consapevolezza della Compassione
Nel
testo sono descritte le quattro consapevolezze:
1) la prima è la
consapevolezza del Lama;
2) la seconda è la
consapevolezza della compassione.
“Nella prigione
della sofferenza dell’infinita esistenza ciclica vagano gli esseri
di sei tipi, privi di felicità.
Lì vi sono i
genitori che ci hanno nutrito con grande gentilezza.
Abbandonando
l’attaccamento e l’avversione,
medita
con amore e compassione,
senza
lasciare che la tua mente divaghi
ponila
nella compassione,
senza
dimenticarti
mantienila
nella compassione.”
“La
prigione della sofferenza dell’esistenza ciclica” è il Samsara
senza fine, una ruota di ripetute esperienze di sofferenza, una
prigione in cui non siamo soli, ma che intrappola tutti gli esseri
indistintamente ed è questa la ragione per cui nella meditazione
occorre accogliere tutti gli esseri.
Non
può nascere la compassione se ci si limita a rimuginare soltanto
sulla propria sofferenza, e ordinariamente è proprio ciò che
avviene, si prende in considerazione unicamente la sofferenza
radicata nell’io, una riflessione che non è causa di Dharma, ma di
stress. Il Samsara comprende tutti, è la condizione di ogni essere,
ecco perché il pensare alla condizione samsarica è meditare sulla
sofferenza, sul disagio di tutti e in particolar modo sul terzo
livello di sofferenza, la sofferenza pervasiva.
La sofferenza Samsarica
è rappresentata con la visione di tutti gli esseri travolti da
quattro fiumi in piena:
a. dal fiume della
nascita;
b. dal fiume dell’
invecchiamento;
c. dal fiume della
malattia;
d. dal fiume della
morte.
Le
quattro condizioni dell’esistenza nel Samsara non sono una
punizione, un evento inatteso, ma la naturale condizione
dell’esistenza samsarica, una serie susseguente di eventi che
costituiscono l’esistenza.
Deve essere chiaro che
la materia che stiamo analizzando non può essere oggetto di
conversazioni al bar con gli amici, gli argomenti di cui si discute
ordinariamente sono cosa ben diversa dalla sofferenza trattata nelle
scritture buddhiste.
L’esistenza degli
esseri samsarici fluisce nella forza trascinante e inevitabile delle
quattro correnti ed è totalmente dipendente dal karma.
Oggi
siamo insieme a Torino, ma io vivo a Roma e sono nato in Nepal da
genitori tibetani, perché mi trovo qui? cosa ha determinato questo
incontro? Il karma.
Io non ho deciso di
nascere in Nepal, di vivere molti anni della mia vita in India e di
essere ora in Italia, io sono tibetano, geneticamente, culturalmente,
linguisticamente, mentalmente, tibetano puro, ma tibetano, come? se
il Tibet non c’è più, tutto è determinato dal karma. Ho mostrato
la mia esperienza ma sono sicuro che ognuno di voi potrebbe portare
esempi altrettanto curiosi, ecco cosa si intende affermando che tutti
siamo condizionati dal karma.
Gli esseri Samsarici
sono prigionieri nella gabbia di ferro dell’attitudine ad
aggrapparsi al sé. Tutto quello che un essere samsarico pensa, dice
e fa è governato dall’attaccamento ad un sé illusorio che
sommerge completamente nel buio dell’ignoranza.
L’ignoranza ci
avvolge interamente, nelle grandi cose come nelle percezioni più
insignificanti.
Quando
ho acquistato il biglietto per Torino mi hanno informato che essendo
sabato avrei potuto viaggiare in prima classe pagando il biglietto di
seconda, è mentre me ne stavo seduto nello scompartimento di prima
classe osservavo gli altri passeggeri chiedendomi: sono tutti come
me? qualcuno ha pagato il biglietto di prima e qualcun altro quello
di seconda? Ignoranza illusoria di cose futili, ma lo stesso succede
per situazioni ben più importanti.
L’ignoranza
permea la sofferenza pervasiva che avvolge gli esseri samsarici
totalmente ed è il significato della descrizione della prigione di
sofferenza dell’infinita esistenza ciclica. Sulla base dei primi
due livelli di sofferenza sono poi indicati sei differenti reami di
esistenza. Tutti gli esseri sono uguali rispetto al terzo livello,
quello della sofferenza pervasiva, essa permea lo stato di ognuno
senza distinzioni.
Il primo livello “la
sofferenza della sofferenza” e il secondo “la sofferenza del
cambiamento” possono invece assumere aspetti leggermente
differenti. A esempio per quanto riguarda la sofferenza della
sofferenza vi sono persone che godono di buona salute ed altre che ne
hanno poca; rispetto alla sofferenza del cambiamento, ci può essere
chi vive in agiatezza e chi in povertà, chi possiede case belle,
ricchezze, cibo raffinato e chi è costretto a vivere in case brutte
e miseramente, ma al di là delle momentanee diversità, tutti, prima
o poi, sono preda della sofferenza della sofferenza e della
sofferenza del cambiamento. Pensate alla famiglia reale nepalese che
godeva degli agi più raffinati, una lussuosa vita da re, e in un
momento è stata sterminata, tutta la ricchezza è finita e ha
sperimentato una tragica sofferenza del cambiamento.
I
sei reami non indicano semplicisticamente gli esseri che stanno al di
sopra, al di sotto o nel mezzo, in cielo, sotto terra e sulla terra,
ma devono essere intendesi come sei diverse manifestazioni dei primi
due livelli di sofferenza, la sofferenza della sofferenza e la
sofferenza del cambiamento. Questo passaggio è facilmente
verificabile nei vari momenti della vita di ognuno: se siamo colpiti
da un grave dolore è come se fossimo negli inferi, se invece
sperimentiamo una grande gioia, se siamo con le persone che amiamo in
un momento di festa, ci pare di essere in paradiso. A volte i gatti
sono più felici degli esseri umani, allora è come se avvenisse uno
scambio e noi ci trovassimo nel reame degli animali e loro in quello
degli esseri umani. Se siamo tormentati dalla fame e non c’è cibo
a disposizione è come se ci trovassimo nel reame degli spiriti
affamati.
Non si tratta dunque di
una diversificazione logistica ma di esperienze. Nell’esperienza
samsarica gli esseri sono orfani della felicità, non esiste un solo
momento in cui non sia presente la sofferenza pervasiva e, poiché
tutti gli esseri samsarici sono stati una volta nostri genitori e ci
hanno nutrito con amore e gentilezza, osservando la loro sofferenza
sentiamo compassione e possiamo generare equanimità, abbandonare le
attitudini contrapposte di attaccamento e avversione. Lo stato
equanime della mente è dunque lo stato di amore e compassione.
L’attitudine equanime, priva di attaccamento o avversione, si
traduce nel desiderio amorevole affinché tutti gli esseri possano
ottenere la felicità.
L’attitudine della
compassione consiste nel volere che tutti gli esseri siano liberati
dalla sofferenza. Di fatto compassione, equanimità e amore sono
un’unica realtà che si manifesta in molteplici aspetti, ciò che
conta è mantenere la mente concentrata su questa realtà ricordando
la raccomandazione del canto:
“non permettete
alla mente di divagare, ponetela nella compassione e, senza
dimenticare, mantenetela nella compassione”.
La Consapevolezza della Divinità
Le
due restanti consapevolezze sono:
3) La consapevolezza
della Divinità;
4) la consapevolezza
della Vacuità.
La
consapevolezza della Divinità nel canto è così descritta:
“Nel Divino
Palazzo della grande beatitudine
piacevole
a sentirsi,
abita
il corpo della divinità:
il
corpo di se stessi
con
puri aggregati ed elementi.
Una divinità
meditativa inseparabile
dai
tre corpi vi si trova.
Senza concepirlo
come ordinario,
coltiva
l’orgoglio divino e la vivida apparenza.
Senza lasciare che
la tua mente divaghi,
ponila
nel profondo e luminoso.
Senza scordarti,
mantienila
nel profondo e luminoso.”
Questo
tipo di pratica è direttamente connesso alla pratica Buddhista del
Vajra e costituisce il sentiero conosciuto come Vajrayana; in esso
sono contenute tradizionalmente quattro classi di Tantra:
1) il
primo. Kriyatantra,
è relativo alle attività esteriori;
2) il
secondo, Chariatantra
è connesso al comportamento;
3) il
terzo, Yogatantra,
mantiene l’equilibrio tra le attività interiori e quelle
esteriori;
4) il
quarto, Anuttarayogatantra,
rivolto esclusivamente alle attività interiori, è la più alta
classe del Tantra.
Questi
quattro livelli di meditazione fanno riferimento ad una divinità
personale, indicata in tibetano come Yidam.
Nel Vajrayana la
meditazione sulla divinità personale è il metodo per sviluppare
l’unione delle qualità interiori di compassione e saggezza, è può
essere applicato utilizzando due diversi mezzi:
1) Uno
è il sistema dei Sutra,
che approfondisce, affrontandoli separatamente, i due aspetti di
metodo (compassione) e saggezza e soltanto alla fine li ricongiunge.
2) Nel
sistema Tantrico,
invece, si parte immediatamente dall’unione di metodo (compassione)
e saggezza in quanto si medita sull’ essenza della divinità che è
appunto l’unificazione dei due aspetti. La frase del canto “Nel
divino palazzo della grande beatitudine”
indica l’esperienza meditativa dell’unione di metodo e saggezza
che è appunto la grande beatitudine.
La
metodologia tantrica evidenzia due livelli, nel primo è riconosciuto
il legame inscindibile tra corpo, mente ed universo; nel secondo la
divinità che abita in un palazzo divino ed è l’essenza di unione
tra metodo e saggezza. La divinità è una forma, e abita in un
palazzo divino, cioè in una dimensione pura. Meditando su entrambi
gli aspetti si attua la purificazione: “Il
corpo di se stessi, con puri aggregati ed elementi, una divinità di
meditazione, inseparabile è li, con i tre corpi”.
Con
l’applicazione del metodo la mente ordinaria, il corpo ordinario,
l’universo ordinario, sono trasformati nella dimensione pura della
forma della divinità e nella mente pura della divinità, la
struttura tantrica propone una “scorciatoia”, un sentiero rapido
per giungere all’illuminazione.
Si legge ancora:
“Senza concepirlo
come ordinario
coltiva
l’orgoglio divino e la vivida apparenza”
L’orgoglio divino è
sempre presente nella meditazione sulla divinità.
La chiave di
trasformazione di mente, corpo e universo ordinari, in mente, forma
e universo divini è la Vacuità ed è il motivo per cui ogni pratica
tantrica inizia con alcune parole che in italiano potremmo tradurre
approssimativamente così:
“tutti i fenomeni
non hanno un’esistenza propria o inerente, e questa loro natura
vuota è l’io”, oppure: “tutti i fenomeni sono vuoti di
esistenza inerente e questa natura vuota di esistenza inerente è la
mia stessa natura.”
Infatti,
qualsiasi cosa analizziamo attentamente non riusciamo a scovare nulla
di inerentemente esistente, ciò che troviamo è unicamente
«Vacuità», la realtà ultima, la natura ultima, di tutti i
fenomeni.
Scrutando l’intero
universo non rintracciamo nulla di inerente che si possa afferrare e
questo è il punto di partenza di tutti gli yoga tantrici. Quella
natura sono io, quindi quello che identifico come io è per sua
natura vuoto, è la realtà ultima dell’io.
Finalmente,
dalla natura vuota dell’io può avere inizio la creazione della
forma divina, perché soltanto partendo dalla Vacuità è possibile
trasformare se stessi nella Divinità, l’universo nel Mandala, il
corpo ordinario nel Corpo divino, la mente ordinaria nella Mente
divina.
Così
si medita purificando gli aspetti negativi della mente, ci si accosta
ai tre corpi alle tre forme inseparabili della divinità:
1.
Dharmakaya
(Kaya significa corpo, dimensione, forma) cioè la forma della
Vacuità che si articola in due aspetti: quello della Vacuità e
quello della mente consapevole che realizza la Vacuità;
2.
Sambhogakaya
che è la trasformazione della forma in natura vuota, in Buddha;
3.
Dal Sambhogakaya sorgono innumerevoli forme o manifestazioni che
portano benefici agli esseri viventi e sono il Nirmanakaya,
conosciuto come corpo di incarnazione o di emanazione.
I tre corpi sono
naturalmente spontanei, ma nella pratica è importante concentrarsi
ed esercitarsi costruendone artificialmente la visualizzazione.
La divinità dunque non
è un individuo esterno a cui rivolgersi come ad “altro da sé”,
ma è l’emanazione dello stato di realizzazione della mente, in
particolar modo dell’unione di metodo e saggezza e rappresenta la
forma purificata, la forma pura, di corpo e mente.
Assimilando
questo concetto siamo in grado di generare l’orgoglio divino
ottenendone enorme beneficio, ma per mantenere nella pratica la
visione di sé come inseparabile dalla divinità di meditazione è
necessario osservare i fondamentali precetti:
- mantenere il riconoscimento della mente come mente della divinità;
- mantenere il riconoscimento della parola come parola della divinità;
- mantenere il riconoscimento del corpo come forma della divinità;
Avere la consapevolezza
della mente divina, della parola divina e della forma divina, in ogni
circostanza, mantiene l’unione del sé con la divinità che,
ricondotta sistematicamente alla vita quotidiana, è di grande
beneficio. Non è una pratica semplice e in genere è attuata da
praticanti molto avanzati ed è anche la ragione per cui è molto
complicato spiegarla.
Il
punto fondamentale da comprendere è che non si tratta di un essere
divino al di fuori di sé identificabile come individuo, bensì la
divinità è la rappresentazione delle qualità interiori già
presenti in noi. Meditare sulla divinità significa purificare se
stessi e trasformare se stessi nella divinità, cioè in quelle
qualità.
La Consapevolezza della Vacuità
La quarta
consapevolezza, della Vacuità, è trattata in due strofe, nella
prima si descrive la Vacuità durante la seduta di meditazione, nella
seconda invece, della meditazione sulla Vacuità durante l’intervallo
tra le varie sessioni di meditazione, cioè nel periodo dedicato alle
attività quotidiane.
I
versi della prima strofa che spiegano la Vacuità durante la
meditazione:
“Ovunque nella
sfera dei fenomeni apparenti
e
dei fenomeni esistenti,
Pervade
lo spazio della chiara luce
di
ciò che è e dell’ultimo,
Un
inesprimibile, reale modo di esistenza
è
lì presente.
Abbandona le
elaborazioni concettuali,
Osserva
la natura della Vacuità.
Senza
lasciare la tua mente divagare,
Ponila
in ciò che è,
Senza
scordarti,
Mantienila
in ciò che è.”
In
tibetano si usano spesso le parole “Nhyang-shing Sid-pa”
indicando ciò che possiamo vedere e le cose che esistono, è un modo
per definire tutto l’esistente, ogni fenomeno ed è abitualmente
utilizzato dagli Yogi, dai meditatori. Tutto l’esistente è pervaso
dallo spazio della chiara luce e qualunque apparenza si sperimenti,
qualunque apparenza sorga spontaneamente e simultaneamente deve
essere riconosciuta nella sua chiara luce o, in altre parole,
riconosciuta nella sua natura vuota. Quindi qualsiasi realtà appaia
la si deve cogliere nel suo ultimo grado di esistenza, nella sua
natura vuota, nella chiara luce. Chiara luce significa Vacuità.
Nel Buddhismo tibetano
si usano più termini per definire la stessa verità, la Vacuità:
«Mahamudra», «Chiara Luce», «Dzog-Chen», «Grande Perfezione»,
ecc.., sono tanti modi diversi di definire la stessa realtà: la
Vacuità.
La Vacuità è detta
simile allo spazio; lo spazio non si può afferrare, lo spazio non
ostruisce, non blocca il passaggio, così la Vacuità non si può
afferrare e non ostruisce.
Questa visione dei
fenomeni contraddice completamente la nostra visione ordinaria. Noi
osserviamo i fenomeni ordinariamente in modo completamente diverso e
contrario all’ottica della Vacuità; prima di tutto dobbiamo
correggere la percezione, l’errato punto di vista con cui
affrontiamo la realtà. Non vi è nulla di afferrabile in nessun
fenomeno, il modo ultimo di essere dei fenomeni non è traducibile in
parole. Questa visione è la Prajnaparamita, che letteralmente
significa “la saggezza che è giunta oltre”, cioè la saggezza
che tutto trascende e ciò che trascende la percezione ordinaria non
può essere espresso.
Meditando sulla Vacuità
si medita sul tutto simile allo spazio o meglio sulla natura simile
allo spazio di ogni fenomeno, si medita sulla mancanza di natura
inerente dei fenomeni, e si va molto oltre la percezione di tipo
ordinario. Ad esempio questo rosario, è molto bello, di buona
qualità, ma se noi lo smontiamo separando le varie componenti
abbiamo i semi, la corda, i conta mala, ma il rosario dov’è? Non
esiste più. Gli elementi ci sono tutti, esattamente gli stessi, ma
il rosario non c’è.
L’ultimo modo di
esistenza dei fenomeni è simile al rosario, che esiste semplicemente
come nome, non vi è una parte sostanziale, intrinseca, che lo
definisca.
Osserviamo la realtà
ultima non a livello superficiale, andiamo oltre e applichiamo la
stessa modalità nella visione del sé, nella visione dell’io.
Possiamo vedere il
rosario come simile allo spazio, la sua natura è simile allo spazio,
perché il rosario è semplicemente un nome, non esiste a livello
sostanziale, non vi è nulla di inerentemente esistente. Tutti i
fenomeni sono simili allo spazio. Il livello ultimo di Torino non ha
palazzi, è uno spazio aperto, non ostruito da palazzi; il modo
ultimo di esistenza di Torino, o se preferite la Torino originale, è
così, vuota.
E’
possibile immaginare Torino senza costruzioni? Si può osservare
Torino, con tutti i suoi palazzi e nel contempo vederla completamente
senza? E’ possibile avere simultaneamente la visione ordinaria,
convenzionale, del fenomeno e percepire il suo modo di esistenza
ultimo?
Nella seduta di
meditazione concentrativa, o focalizzata, si osserva solamente il
livello ultimo di esistenza dei fenomeni, la mente si concentra sulla
natura simile allo spazio della Vacuità. E’ chiaro questo
concetto? Voi come esprimereste questa visione?
Risposta:
La scienza moderna ha confermato questa visione, per esempio questo
panchetto che sembra solido in effetti non lo è, la materia è
un’illusione, è solo energia che si aggrega in un certo modo,
perché andando a cercare le particelle infinitesimali si trova il
vuoto. Tutto ruota a livello energetico, vorticosamente, dando
l’illusione di una solidità che in effetti non esiste come
fenomeno a sé stante. In qualche modo la scienza continua a
confermare quello che gli antichi pensatori indiani già sapevano.
Lama:
Apparentemente si, ma vi è una differenza sostanziale. La scienza
studia e riconosce il fenomeno, ma non va oltre; se vi meditasse lo
realizzerebbe e ne sarebbe trasformata. Anch’io in un primo tempo
pensavo che gli scienziati avessero realizzato la Vacuità, ma poi,
riflettendo, ho capito che si erano fermati alla sola indicazione
della Vacuità e, non meditando su di essa, non l’hanno realizzata.
Risposta:
Io invece sono scettico sulla possibilità di dimostrare logicamente
la Vacuità. Relativamente all’esempio del rosario che, scomposto,
sparisce, io ti risponderei che non mi interessa affatto perché non
mi pongo il problema della realtà ultima, l’unica realtà che mi
interessa è quella che sperimento. La realtà è la mia esperienza,
se prendo un mattone in testa non mi interessa sapere che la solidità
è illusione, a me ha fatto male. Credo che da molti secoli ormai la
filosofia occidentale abbia escluso ogni domanda sulla realtà
ultima; per noi occidentali la realtà è l’esperienza e quindi mi
è difficilissimo concepire la Vacuità, perché io soffro e gioisco
per esperienza, non per la realtà ultima. Io posso anche essere
vuoto, ma non m’importa, ciò che mi interessa veramente è quanto
sperimento concretamente.
Lama:
Osservare, comprendere la Vacuità è l’unica possibilità di
tagliare le radici della sofferenza. La causa di ogni problema è la
costruzione mentale che si basa sull’incapacità di vedere la
realtà ultima delle cose perché si limita ad un’occhiata
superficiale e disattenta, invece la capacità di vedere
contemporaneamente entrambe le verità, relativa e assoluta, è di
enorme beneficio, induce allo stato di calma, di serenità, di
assenza di sofferenza.
La seconda strofa
affronta il modo di meditare la Vacuità nell’attività quotidiana:
“Nel
congiungimento delle molteplici apparenze
delle
sei coscienze,
si
vede la confusione dell’apparenza dualistica di fenomeni
insostanziali, senza base,
Là
è inganno e magia.
Senza concepirla
come vera,
Osserva
la natura della Vacuità.
Senza che la tua
mente divaghi,
Ponila
nell’apparenza e Vacuità.
Senza scordarti,
Mantienila
nell’apparenza e Vacuità.”
Possiamo
avere un’idea di cosa si intende per magia prendendo spunto da un
famoso esempio della cultura classica indiana: «Un mercante vede uno
splendido cavallo, lo compera e, soddisfatto se ne va ma durante la
sua strada vede che al posto del cavallo sta trascinando un pezzo di
legno. Come è potuto accadere? Solitamente questa magia è praticata
di fronte ad un pubblico numeroso: il mago prende un pezzo di legno e
recitando un mantra lo trasforma in cavallo. Evidentemente la
benedizione del mantra non trasforma il legno in cavallo, bensì
trasforma la capacità di vedere degli osservatori. Il legno resta
legno, ma gli occhi degli astanti vedono uno splendido cavallo. In
questa storia agiscono tre diversi attori:
a) Il mago, o
illusionista;
b) il pubblico presente
dall’inizio che ha ricevuto la benedizione della vista;
c) qualcuno che,
arrivato soltanto alla fine, non ha usufruito di nessuna magia.
Tutti osservano il
pezzo di legno, ma come lo vedranno?
a) il mago, osservando
il pezzo di legno vedrà il cavallo, perché anche i suoi occhi sono
stati benedetti, ma lui è consapevole che non esiste nessun cavallo
e che si tratta di un pezzo di legno;
b) gli
spettatori della prima ora guardando il pezzo di legno vedranno un
cavallo e crederanno che quella sia l’unica verità;
c) I ritardatari
vedranno invece soltanto un pezzo di legno.
Durante l’attività
quotidiana, nel periodo che intercorre tra le sessioni di meditazione
non si ha una concentrazione focalizzata, non si è in grado di
vedere la natura dei fenomeni come spazio e di riconoscerli come
vacui della natura dello spazio. Si è in uno stato mentale diverso
rispetto a quello della seduta di meditazione focalizzata.
Quando non si è in
seduta di meditazione, durante le attività quotidiane, la visione
della Vacuità è come quella del mago, dell’illusionista che pur
vedendo un cavallo è pienamente consapevole della sua non esistenza
reale.
Invece durante la
seduta di meditazione focalizzata il meditante è come il
ritardatario, non vede quello che non c’è, vede solo il pezzo di
legno, non c’è illusione alcuna.
E infine, chi non
medita né in seduta focalizzata, né durante l’attività
quotidiana, è come lo spettatore ignorante che compera il cavallo,
acquisisce come vera una costruzione mentale del tutto illusoria
inesistente.
La
strofa appena letta ci dice sostanzialmente che percepiamo
contemporaneamente la realtà secondo due visioni: l’una è
relativa al livello convenzionale, quello dell’apparenza, l’altra
vede la realtà ultima, la vera essenza di ciò che appare.
Abbiamo
esaminato le quattro consapevolezze che costituiscono una parte
essenziale del sentiero Buddhista, in particolare della pratica
Vajrayana.
1) La consapevolezza
del Lama;
2) La consapevolezza
della Compassione;
3) La consapevolezza
della Divinità;
4) La consapevolezza
della Vacuità.
Il
Lama definitivo, il Lama ultimo, è la realizzazione interiore di
compassione e Vacuità. Per quanto riguarda invece il Lama esteriore,
il maestro spirituale, le sue qualità essenziali sono l’ effettiva
grande compassione e visione della Vacuità.
La compassione, la
consapevolezza della compassione, è la radice di tutte le qualità
di un Buddha, è la radice della Buddhità. Ogni Dharma sorge
necessariamente dallo sviluppo della compassione. Dalla compassione
scaturiscono tutte le altre buone qualità, realtà fondamentale e
imprescindibile di ogni pratica.
Cos’è la
consapevolezza della divinità? se osserviamo alcune divinità, ad
esempio Manjusri - emanazione di saggezza, Avalokiteshvara -
emanazione della compassione, Maitreya - emanazione della gentilezza
amorevole, Tara - emanazione delle azioni illimitate del Buddha,
vediamo che tutte le divinità sono l’immagine delle realizzazioni
interiori. La mente del Buddha, la forma del Buddha, lo spazio del
Buddha non sono separabili, sono identici.
La
consapevolezza della Vacuità è come l’occhio del Dharma che vede
il corretto cammino verso l’illuminazione, che indica con saggezza
il retto sentiero. La visione della Vacuità è una visione aperta.
Questa consapevolezza si pratica sempre, sia in seduta di meditazione
focalizzata che durante le attività quotidiane.
Nella visione della
Vacuità, la visione ultima dei fenomeni, si applica rispettivamente
un diverso approccio nei Sutra e nei Tantra. Nei Sutra, i discorsi
del Buddha, la mente che medita sulla Vacuità è quella che
generalmente è considerata mente di un individuo, invece nei Tantra,
la mente, il corpo e l’universo sono inscindibili, quindi la mente
che medita sulla Vacuità non è di livello ordinario, grossolano,
com’è comunemente concepita, ma è la mente di livello più
profondo e sottile. Nel Tantra si utilizzano metodologie particolari
lavorando con i canali energetici, con i venti o energie in una
pratica che corrisponde all’orgoglio divino, ed è fondamentale
mantenere vigile la consapevolezza dei canali, delle energie o venti,
la consapevolezza dell’esistenza del corpo sottile.
La
tecnica di visualizzare il corpo sottile, i canali energetici e i
venti, chiarisce la posizione della mente e risponde alla domanda:
“dov’è la mente?”, una domanda importante e, nel momento
stesso in cui la formuliamo, il corpo sottile, i canali, i venti
energetici offrono interessanti indizi per la sua localizzazione
perché, se è vero che la mente pervade ogni parte del corpo, vi
sono punti in cui è più forte e altri in cui è più debole, le
differenziazioni sono innumerevoli. La conoscenza di questo aspetto
favorisce una meditazione efficace e conduce a saper dominare la
mente.
La mente in tibetano è
“Rigpa” “Sel-shing Rigpa” termine traducibile in: “ciò che
è luminoso e conoscente”. La luminosità della mente è la grande
capacità di riconoscere l’esistente. Una mente chiusa è tale
perché non usa le sue stesse potenzialità. Una mente illuminata,
invece, ha una capacità di conoscenza pienamente matura. Le
attitudini della mente maturano attraverso la conoscenza perché la
mente stessa ha in sé quelle capacità e qualità. Nel Tantra la
natura ultima della mente è detta “Chiara Luce” perché è la
capacità di vedere la natura della mente dalla mente stessa.
Quindi, la Vacuità, la
natura di Vacuità della mente, la consapevolezza della natura di
Vacuità della mente divengono un’unica realtà e sono chiara luce.
Di fatto Sutra e Tantra sono complementari l’uno all’altro; la
pratica dei Sutra è l’essenza della pratica dei Tantra.
L’esistenza umana è
particolare perché in essa la coscienza può penetrare i punti
fondamentali, può unire la consapevolezza dei punti vitali e di
quelli sottili. L’essere umano può meditare su di essi e
sviluppare tutte le capacità, la rinuncia, la compassione, la
saggezza. L’unione dei due aspetti: lo sviluppo delle qualità di
compassione, rinuncia e vacuità con la capacità di penetrare
consapevolmente i punti vitali costituisce la complementarietà dei
Sutra e dei Tantra e si esprime nella loro pratica univoca.
“Il Canto del Leone” di Milarepa
L’insegnamento delle
quattro consapevolezze, di grande pregnanza, è ripreso da molti
maestri e Milarepa nella sua composizione “Il Canto del Leone”
dice:
“Questo è lo Yogi
Repa libero dai pensieri”.
«Libero
dai pensieri» significa avere una visione intuitiva, essere libero
dal pensiero concettuale e dotato dalla serena fiducia senza paura
che scaturisce dalla visione della Vacuità. Con la realizzazione
della visione della Vacuità ci si libera dalla paura, la si supera,
si va oltre.
“Procedo
con il passo del leone,
il
passo degli eroi.
Per corpo prenderò
il corpo dell’Ydam,
che
è come castello fortificato.
Per parola userò la
parola del mantra
che
è come castello fortificato.
Per mente prenderò
il castello fortificato della Chiara Luce.
E quando si
manifestano i sei tipi di coscienza
scompaiono
nella loro natura di Vacuità.”
In
queste strofe si affronta la connessione con la consapevolezza. Il
passo del Leone, l’incedere dell’eroe, intende che, essendo nella
serena visione della Vacuità, non c’è più nulla da temere, si
procede senza timore con il regale passo del Leone. Prendere per
corpo il corpo dell’Yidam, per parola la parola del Mantra, per
mente la mente di Chiara Luce suggerisce la consapevole acquisizione
dell’orgoglio divino.
La
consapevolezza del Corpo, della Parola e della Mente di Chiara Luce,
fa si che di fronte agli aspetti e alle attitudini determinati dalla
quotidianità, se ne riconosca la natura ultima lasciandoli cadere
nella Vacuità.
Milarepa enfatizza la
connessione con le quattro consapevolezze anche nel “Canto di
Mahamudra”:
“Quando medito su
Mahamudra
Riposo
senza conflitti nel mio vero essere.
Riposo
nello spazio, senza distrazioni.
Dimoro
nella chiarezza dello spazio di Vacuità.
Dimoro
nella consapevolezza dello spazio di beatitudine.
Riposo
tranquillo nello spazio non concettuale.
Nello
spazio diversificato riposo in concentrazione.
Dimorando
così, questa è la mente originale.
La
ricchezza di certezza si manifesta senza fine.
Senza
nulla fare la luminosità della mente è attiva.
Non
fermato dall’attendere risultati, sto bene.
Senza
dualità, senza speranza, senza paura!
Le
afflizioni trasformate in saggezza
sono
essere gioioso e luminoso”
Milarepa,
come Marpa, è un perfetto esempio della devozione al maestro
spirituale e i due canti sono colmi di significato; potremmo
concludere l’insegnamento meditando su ogni strofa.
Domanda:
Nella meditazione del mattino sull’essenza degli esseri viventi più
preziosi delle gemme che esaudiscono i desideri, mi sono chiesto se
questo è solo un espediente per favorire il superamento dell’ego
o, realmente tutti gli esseri, anche quelli che agiscono malissimo,
devono essere considerati preziosi?
Lama:
L’essere umano ha un valore incalcolabile. Tutti gli esseri
viventi, indistintamente, sono causa di illuminazione. Senza esseri
senzienti non c’è possibilità di sviluppare la compassione e,
senza compassione, non si può realizzare l’illuminazione. La causa
di accumulazione dei meriti sono gli esseri senzienti. Per questo
motivo Santideva si domandava perché non si nutre verso tutti gli
esseri senzienti lo stesso rispetto che si ha per i Buddha, come
invece dovrebbe essere, entrambi sono uguali, entrambi sono causa di
illuminazione. Il Buddha è prezioso perché ha indicato il sentiero
di illuminazione; gli esseri senzienti sono preziosi perché rendono
possibile il tuo cammino su questo sentiero. Come potremmo praticare
la compassione, la generosità, la moralità, la pazienza, la
perseveranza, la concentrazione, la saggezza, senza gli esseri
senzienti? Impossibile! Sono realmente più preziosi della gemma che
esaudisce i desideri.
Domanda:
La pratica dei Tantra richiede necessariamente molti ritiri per
poterla approfondire?
Lama:
I ritiri sono importanti per acquisire l’esperienza il cui calore
deve essere mantenuto inalterato nella pratica quotidiana durante il
periodo che segue un ritiro ed è buona cosa, non appena possibile,
rinnovare l’esperienza in ulteriori ritiri. Tra i tibetani è
piuttosto comune trovare praticanti che vivono con grande naturalezza
nella quotidianità l’esperienza spirituale dedicando spazio e
tempo alla pratica. In occidente la diversa struttura sociale e
familiare rende questo aspetto più difficilmente attuabile, e sarà
necessario trovare un modo per superare il problema. La continuità
della pratica del Dharma non dipende solo da se stessi, è soggetta
ai condizionamenti dell’organizzazione sociale, della famiglia,
delle relazioni umane, delle convenzioni.
Preghiera e Dedica
Concludiamo
con la lettura comune della “Preghiera in Otto Versi” composta da
Geshe Langui Tanga Dorje Seghe (secolo XI°) e su cui si fonda la
pratica del “Lojong”, ovvero del Trasformare la Mente, ripetendo
tre volte la dedica dei benefici a tutti gli esseri:
Considerando tutti
gli esseri senzienti
superiori
persino alla gemma che esaudisce i desideri
per
realizzare il fine supremo,
possa
io costantemente prenderli a cuore.
Quando sarò con gli
altri,
riterrò
me stesso menu importante a tutti,
e
fin dal profondo del cuore
li
considererò cari preziosi.
Vigile, ogni volta
che sorge un’ emozione negativa,
che
possa nuocere a me o agli altri,
l’
affronterò e l’ eliminerò
senza
indugio.
Vedendo esseri di
imprenda alla malvagità
intenti
a violente azioni negative e sopraffatti da sofferenze
avrò
sempre cura di tali creature così rare,
come
se avessi trovato un tesoro prezioso.
Quando altri, per
invidia, mi maltratteranno,
mi
insulteranno o faranno cose simili,
accetterò
la sconfitta
ed
offrirò la vittoria ad loro.
Quando qualcuno a
cui ho fatto del bene
e
in cui ho riposto grandi speranze
mi
infligge un terribile danno,
lo
considererò il mio santo amico spirituale.
(
x 3)
In breve, direttamente e indirettamente, io offro
ogni
beneficio e felicità a tutti gli esseri senzienti, mie madri;
possa
io segretamente prendere su di me
tutte
le loro azioni negative e sofferenze.
Possano essi non
essere mai contaminati dalle idee causate
dalle
otto preoccupazioni mondane,
e
consapevoli che tutte le cose sono illusorie,
possano
essi, privi di attaccamento, essere liberati dalla samsara.
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