LA MOTIVAZIONE
VEN. GESHE GEDUN THARCHIN
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1. La motivazione
2. Motivazione e bodhicitta
3. Bello accumulare buon Karma
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(1)
La motivazione
Roma 2003
Siamo qui per il Dharma, per la pratica del Dharma, per
comprendere il Dharma, imparare dal Dharma e capire come praticarlo. Credo che
il Dharma significhi l’essenza della vita umana. Dharma può significare anche
l’essenza della natura umana. Un’altra interpretazione di Dharma è l’essenza
del nostro cuore, l’essenza della mente umana. Tutti questi diversi significati
di Dharma possono convergere in un’unica espressione buddhista, la natura di
Buddha che è l’essenza del Dharma. Nel Buddhismo crediamo che la natura del
Buddha appartenga a tutti gli esseri. Tutti gli esseri posseggono la natura del
Buddha. E perciò tutti gli esseri senzienti hanno pari diritto di studiare,
praticare e conoscere il Dharma. Possiamo anche dire che gli esseri senzienti
hanno il dovere di praticare il Dharma. E’ un nostro dovere come esseri umani,
come esseri senzienti. E particolarmente noi esseri umani abbiamo questa
speciale responsabilità perché la forma umana è la forma di vita migliore per
praticare il Dharma. La forma umana possiede tutte le qualità necessarie per
praticare il Dharma. Penso che noi esseri umani siamo nati in questo pianeta
proprio per poter praticare il Dharma. Ecco come il Dharma diventa l’essenza
della nostra vita, il nostro dovere e attività principale. Tutte le altre
nostre attività, inclusa quella del guadagno, sono di supporto per appoggiare
la pratica del Dharma. Quindi il filo conduttore principale della nostra vita
umana è la pratica del Dharma e tutte le altre attività servono a creare delle
buone condizioni per la pratica. Ecco come attraverso l’integrazione della
pratica del Dharma con le altre attività mondane comuni, possiamo condurre una
vita significativa. Penso che il popolo tibetano sia vissuto per anni con
questo tipo di concezione e filosofia, ma forse era troppo. Quindi dovete stare
attenti a non diventare eccessivamente unilaterali, poiché altrimenti potreste
essere in pericolo.
Ecco perché siamo impegnati nel Dharma, e per quanto riguarda
il Dharma non mi riferisco a qualcosa esclusivamente rivolto a una specifica identità
religiosa come ad esempio il Buddhismo. Il Dharma non appartiene al Buddhismo,
che è solo una delle scuole religiose nel mondo. Il Dharma appartiene a ogni
individuo. Ciascun individuo ha il proprio Dharma. Sia che sia cristiano,
mussulmano, buddista o di nessuna religione, egli ha il Dharma dentro di sé, nel
proprio cuore. Ecco perché credo che tutte le religioni su questo pianeta
possano insieme manifestare l’essenza del Dharma, l’essenza della natura umana.
Tutte le tradizioni filosofiche o religiose hanno come scopo quello di
manifestare, in ultima analisi, questa essenza della natura umana. Manifestare
la natura del Buddha, manifestare la sua attività è lo scopo, il senso della
pratica del Dharma. Quanto questa famosa pratica meditativa, questa tecnica è
un metodo, è un modo per poter manifestare questa essenza della natura umana. Specialmente
la meditazione vipassana è molto efficace. All’inizio mi meravigliavo del fatto
che alcuni praticano solo consapevolezza. Pensavo si trattasse soltanto di una
tecnica della meditazione, e mi chiedevo: perché si limitano a questo unico
aspetto? Però poi, informandomi e comprendendo meglio, ho visto che
consapevolezza è un metodo molto buono ed ho incominciato a praticarlo anch’io
più di prima. Credo che sia un bellissimo metodo, particolarmente efficace, e
che manifesti pienamente l’essenza della pratica del Dharma.
Oggi mi era stato chiesto in particolare di parlare della
motivazione. Come già sottolineato dal nostro maestro, il Buddha, la
motivazione è fondamentale, essenziale per poter fare in modo che la pratica
meditativa diventi efficace e manifesti la natura del Buddha e ci consenta di raggiungere
il nostro scopo.
C’è un sutra tibetano che dice: ”La radice di tutta
l’essenza del Dharma cresce nel terreno della motivazione”.
Un altro sutra dice: se la radice è velenosa, tutta la pianta
e i suoi frutti sono velenosi e, al contrario, se la radice ha proprietà
curative anche la pianta sarà curativa. Collegando questa metafora alla
pratica, la nostra motivazione è la radice.
Abbiamo anche una formula antica insegnata da Atisha (X -
XI secolo), che è adottata in tutte le tradizioni tibetane prima di iniziare
una qualsiasi pratica meditazione. La prima parte che si recita include la
presa di rifugio nei tre gioielli. E dopo aver preso rifugio nei tre gioielli
si sviluppa la mente di bodhicitta. Quel verso dice: ”Che possa io raggiungere
l’illuminazione grazie a merito acquisito con la pratica delle sei paramita
allo scopo di servire tutti gli esseri senzienti.” Questo ci porta ad assumere
l’impegno di ripetere questa formula tutti i giorni, sei volte al giorno, così
da esserne pienamente coscienti e per me questo è più efficace della
ripetizione del mantra che spesso si recita meccanicamente senza capirlo
affatto. Io preferisco ripetere e introiettare questo verso in tibetano così ne
posso comprendere ogni sfumatura e in questo modo diventa più intenso ed
efficace.
Cosa intende dire questa antica formula nella prima
parte? Secondo le nostre scritture ci sono due cause per prendere rifugio nei
tre gioielli. La prima è per capire la natura del samsara, la sofferenza, cioè
capire le prime due nobili verità, quindi comprendere chiaramente, perché soffriamo
ininterrottamente. Siamo nel samsara, pienamente immersi nella prima e nella seconda
nobile verità.
Il secondo motivo per prendere rifugio nei tre gioielli,
è conoscere la terza e la quarta nobile verità, che ci mostrano una soluzione.
Possiamo intendere la terza nobile verità, la cessazione della sofferenza, come
illuminazione o nirvana. La quarta nobile verità è invece il sentiero che realizza
la terza, che ci porta fuori dal samsara, ed è l’essenza del Dharma. Quindi la
terza e quarta nobile verità sono dentro di noi, abbiamo il rifugio nei tre gioielli.
Quando parliamo dei tre gioielli, non dobbiamo guardare alle statue o agli
stupa, ma invece dobbiamo guardare all’interno di noi, al nostro cuore.
Terza e quarta nobile verità ci fanno capire che il
rifugio sta qui, esiste nel nostro cuore e nei tre gioielli c’è posto per il
rifugio.
Normalmente ci sono due modi per prendere rifugio nei tre
gioielli. Il primo è esteriore, al di fuori di noi stessi, e consiste nel
rendere omaggio e prendere rifugio nel Buddha storico, nei nostri maestri. Poi
c’è il rifugio interiore, impegnativo, che comporta la presa di rifugio in futuro,
se ancora non l’abbiamo fatto. Questo è il rifugio ultimo ed è l’essenza di
quando il Buddha dice: “tu sei il tuo proprio maestro e sei il tuo nemico.
Quindi tu devi essere il tuo rifugio. Tu sei il tuo protettore, non puoi avere
altri protettori.” Se distruggi te stesso, significa che diventi il tuo nemico
e non c’è alcuna soluzione. La presa di rifugio nei tre gioielli è la base per
poter capire la filosofia buddhista. Prendere rifugio comporta inoltre la piena
comprensione della compassione e della rinuncia.
Il termine rinuncia, viene dal pali nikkama, ma non conosco bene il pali e il sanscrito. L’espressione tibetana la
esprime come attitudine e desiderio di raggiungere il nirvana. In italiano
rinuncia non rappresenta esattamente questo significato ben più ampio e
profonda. A volte gli occidentali intendono con la rinuncia il suggerimento ad
abbandonare tutto, la famiglia, gli amici, l’attività, tutto e cominciare a girovagare
come un mendicante. Non penso che sia questo il vero significato della
rinuncia. In tibetano e nel buddismo il termine rinuncia è il desiderio di
raggiungere il nirvana, di abbandonare il samsara e quindi le due prime nobili
verità.
Si racconta persino che molto tempo fa due Geshe tibetani
disputassero lungamente se la pentola con cui preparare i cibi appartenesse o no
alla prima nobile verità e ne scrissero addirittura interi volumi. Questo
dimostra come non sia affatto facile capire la prima nobile verità, ma è
importante vedere i fenomeni esterni in quanto sensazioni che non hanno
sensibilità. Se questi appartengono al samsara dipende da ognuno di noi,
dipende dal valore gli diamo. Quindi se questa stoffa appartiene al samsara o
no, non lo so. Ogni pratica buddhista deve essere connessa alle quattro nobili
verità. Se non lo è, cessa di essere pratica buddhista.
La rinuncia è la prima motivazione di base che dobbiamo
sviluppare quando vogliamo intraprendere una qualsiasi pratica del Dharma. E di
solito la rinuncia si accompagna alla presa di rifugio ai tre gioielli.
La rinuncia è il desiderio di raggiungere il nirvana e di
separarsi dal samsara, quindi è l’aspirazione a separare se stesso dalle prime
due nobili verità. Poi, una volta che comprendiamo, sia pure all’inizio
superficialmente, cos’è la rinuncia e cominciamo a sviluppare la rinuncia, sarà
facile poi che questo stesso atteggiamento diventi compassione e si trasponga
verso l’esterno, verso tutti gli esseri, e noi diventiamo più aperti nei loro
confronti. E capendo che anche tutti gli altri, esattamente come noi, si
trovano nella stessa sofferenza connessa alle prime due verità, diventa facile
sviluppare la compassione e auspicare che tutti, indistintamente, possano
abbandonare le prime due nobili verità e raggiungere la liberazione.
Questo e karuna, in tibetano njinge, njin vuol dire cuore
e ge vuol dire essenza. Essenza del cuore. Compassione, karuna in italiano
compassione.
Quindi in questo caso, nella sua accezione, compassione
significa aspirare che gli esseri senzienti possano separarsi dalle prime due
nobili verità e raggiungere la liberazione e in tibetano l’espressione
linguistica corrisponde esattamente al significato. La rinuncia indica l’aspirazione a raggiungere la
liberazione. Mentre la compassione è il desiderio che gli altri
possano raggiungere la liberazione, che possano realizzare la terza nobile
verità e lasciarsi alle spalle le prime due nobili verità. Dopo aver sviluppato le prime due motivazioni,
atteggiamento di rinuncia e compassione, dobbiamo praticare la terza e la
pratica corrisponde alla quarta nobile verità.
Con pratica del Dharma ci riferiamo in particolare alla
quarta nobile verità, al sentiero che conduce alla liberazione dalla sofferenza
che nella tradizione Teravada è definito come del ottuplice sentiero. Anche
nella tradizione tibetana si parla di ottuplice sentiero, ma esistono alcuni
diversi raggruppamenti in cui suddividere la pratica, quello più basilare è
fondato su tre aspetti: moralità, concentrazione e saggezza. Vi è poi un’altra
categorizzazione relativa ai tre principi della pratica: rinuncia, bodhicitta,
saggezza. Esistono dunque diversi possibili approcci alla quarta nobile verità con
modalità di pratica da differenti angolazioni, la sostanza non muta.
Quando vogliamo sviluppare la rinuncia in che modo
dobbiamo riflettere? Nella misura in cui viviamo normalmente nel samsāra
incontriamo inevitabilmente le prime due nobili verità e quindi siamo
continuamente oppressi da questi difetti mentali. Nel momento in cui cominciamo
essere coscienti di questa costante pressione, dovremmo riflettervi intensamente
fino alla maturazione di un forte desiderio di uscire immediatamente da una
simile confusione. Devo raggiungere nirvana ora; questo è l’atteggiamento che
dovremmo sviluppare.
Nelle scritture tale confusione e coercizione è
rappresentata in un’immagine in cui noi fossimo costantemente sull’orlo di un
baratro e stessimo per precipitarvi dentro. Quindi questo aspetto
dell’aspirazione a uscire dal samsara è qualcosa che si coltiva nella
meditazione poiché solo in essa possiamo aspirare alla natura del Buddha che è
l’essenza della natura umana.
Il primo passo è una compressione limpida del concetto
della rinuncia. Dobbiamo capirne con molta chiarezza il significato così come
inteso nella filosofia buddhista. Poi quando se ne è acquisita la completa e
lucida visione bisogna fare uno sforzo per implementarla con la pratica della
meditazione. In tibetano c’è un detto secondo cui praticare la meditazione
senza la chiara comprensione della rinuncia è come cercare di arrampicarsi
sulla parete della montagna senza usare le mani e ciò significa che non arriveremmo
mai da nessuna parte anche se meditassimo 24 ore su 24. Ogni apprendimento,
ogni consapevolezza, deve essere approfondito nella meditazione con una chiara
comprensione della realtà.
Bisogna proteggere i semi se no arrivano gli uccelli e li
portano via. Quindi è necessario una costante attenzione, cura, un incessante
sforzo per proteggere la piantina del Dharma. Per poter cogliere il frutto del
Dharma il punto cruciale è l’ininterrotta cura della piantina. In tibetano c’è
un detto che dice: “l’entusiastica perseveranza deve essere come un flusso
d’acqua in un lento fiume, dove l’acqua corre così lentamente, impercettibilmente
che quasi non si nota il suo movimento”. Così dovrebbe essere la nostra
costante cura verso la pratica del Dharma.
In occidente è facile ed esiste la disponibilità di
piantare il seme del Dharma ma poi è molto difficile mantenere costante la cura
della piantina della pratica. Gli occidentali vorrebbero raggiungere
l’illuminazione rapidamente e senza fatica, cliccando con il mouse o premendo
un tasto del computer. Ma questo non è possibile. Oppure è facile incontrare
qualcuno che, giunto in occidente, promette alla gente: ”vi do l’iniziazione e
raggiungerete subito l’illuminazione.” Ma in realtà così non si arriva da
nessuna parte.
È molto importante questo aspetto, i pericoli di
incrementare le illusioni sono reali e considerevoli. Nello stesso Tibet i
maestri veramente buoni, capaci di dare questo insegnamento, sono rari. In
occidente sono numerosissimi i libri che parlano di miracoli strabilianti, del
terzo occhio, ma questo crea molta confusione riguardo al buddhismo. Il Buddhismo
è un sentiero graduale da percorrere lentamente e consapevolmente, passo per
passo, è la coltivazione di una tenera piantina, è uno sviluppo spirituale.
Non si può premere un bottone per ottenere
l’illuminazione. L’unico modo per raggiungere l’illuminazione è la meditazione.
Non bisogna avere fretta. Avendo compreso le quattro nobili verità, e preso
rifugio nel triplice gioiello, si aspira alla rinuncia, si sviluppa la
compassione, e ci si incammina con entusiasmo e pazienza sul sentiero, cioè nella
pratica del Dharma. Non dobbiamo mai separarci dallo spirito del Dharma. E
questo richiede uno sforzo costante, incessante applicazione. In tibetano esiste
un’espressione che afferma che bisogna mantenere il calore del Dharma,
qualunque cosa si faccia, sia che si dorma, si mangi, o si svolga una qualsiasi
attività, non bisogna mai lasciarlo raffreddare. Però continuando con regolarità
ininterrotta la pratica, senza fretta, si arriverà a un luogo che non ci
aspettavamo e questo ci sembrerà un miracolo. In effetti è un miracolo.
La meditazione è una buona cosa, un’ottima tecnica. Poi
bisogna sviluppare la bodhicitta; bodhi significa illuminazione e citta vuol
dire mente. Si può fare una distinzione tra la liberazione e l’illuminazione.
Quando parliamo di bodhicitta, ci riferiamo all’aspirazione all’illuminazione e
all’aspirazione a poter condurre anche tutti gli altri esseri a quella
condizione. Riferendoci all’illuminazione la distinguiamo dalla grande
compassione, ma in pratica sono la stessa cosa.
Rinuncia compassione e bodhicitta sono interconnesse e
consequenziali, nascono una dall'altra, e non si può saltare nessun passaggio
ciò che viene dopo è la diretta conseguenza di ciò che è stato coltivato prima.
Sarebbe un grande errore ad esempio aggrapparsi alla bodhicitta senza aver
prima realizzato la rinuncia e la compassione.
Cos’é la compassione? Per comprenderla è necessario
riconoscere di essere nel samsāra che ci fa sentire come se fossimo in mezzo al
fuoco e ciò comporta l’impellente volontà di uscire da questa condizione. Questa
stessa attitudine rivolta agli altri diventa compassione. La condizione di
sofferenza è identica, per noi come per gli altri, quindi avendo sviluppato la
rinuncia e la compassione percepiamo gli altri esseri come se fossero i nostri unici
figli. Ma non è facile. Quando sentite tutte le persone come vostri figli unici
e desiderate che essi si liberino dal samsara, allora avete capito il senso
della compassione e ne avete realizzato il senso.
Noi meditiamo sulla compassione fino al momento in cui
raggiungiamo quello stato. Qual è il beneficio di questi atteggiamenti? Il
beneficio è che la mente altruistica è la fonte della felicità per noi stessi e
per gli altri. Al contrario la radice della sofferenza è la mente egocentrica,
o l’ignoranza, l’egocitta è la mente centrata sull’io, l’opposto di bodhicitta.
Noi soffriamo e continuiamo a soffrire. Ma da dove viene l’atteggiamento
egoistico? Dalla mente egocentrica. Tutto l’insegnamento di Buddha ha come
scopo la distruzione di questa attitudine. Nel Lo- Jong, tecnica della
trasformazione mentale, si evidenzia l’errore di base in cui noi imputiamo ogni
colpa a tutto ciò che ci è esterno, mentre dovremmo dare la colpa a un’unica
cosa: alla mente centrata sull’io. L’atteggiamento egocentrico è il solo
problema, il nostro maggiore nemico. Dobbiamo quindi investigare su questo
atteggiamento, è fondamentale, è il punto cruciale della nostra sofferenza. Quindi dobbiamo affrontare con determinazione questo
atteggiamento anche se è molto difficile. Non possiamo considerarlo come un
concetto consueto, comune.
Quando vogliamo esaminare questa attitudine della mente,
incominciamo a considerare il concetto della saggezza e ci addentriamo nell’investigazione
sulla natura della realtà.
Un aspetto della mente umana è quello della mente
altruistica, l’altro è quello del non io, non sé, anatta. Nel pensiero tibetano
questi vengono chiamati il metodo e la saggezza e sono le due ali per volare
verso la nirvana, la terra della perfetta felicità; le due ali per poter
attraversare il mare della sofferenza. Se perdiamo un’ala non possiamo
arrivarci. Quindi la nostra meditazione deve contenere entrambi questi due
valori della mente. Questo rientra nella quarta nobile verità. A volte la gente
dice: conosco la quarta nobile verità, ma non è così. Se lo conosceste
veramente, sareste illuminati, sareste dei Buddha.
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(2)
MOTIVAZIONE E BODDHICITTA
2003 (A.Me.Co)
Sono molto felice di essere con voi oggi, anche se sono
un po' agitato perché non so esattamente di cosa parlerò. La mia prima reazione
nel tragitto da casa a qui è stata di paura che adesso causa agitazione. Ma l’agitazione
deve essere trasformata in calma, per poter dare una buona conferenza, così
durante la meditazione iniziale ho cercato di sviluppare una corretta
motivazione dharmica.
La motivazione, che è il termine che viene usato in
inglese e in italiano, è la fondamentale condizione di base, ma anche la
più difficile, della pratica del dharma. Quando leggiamo l'inizio del Dhammapada
o Dharmapada, leggiamo che la mente è il propulsore sia delle cose positive che
di quelle negative.
Quello che in inglese si dice mind, in italiano mente,
in tibetano sem, in pali è citta. L'intenzione fondamentale di
citta è la motivazione. La motivazione è la forza trainante sia delle azioni
positive che di quelle negative. Se la motivazione è negativa, tutto ciò che ne
seguirà, azioni e conseguenze, sarà negativo. Mentre se la motivazione è
positiva, tutto quello che ne segue, è positivo. Il Dhammapada parla in
generale della mente, ma quando andiamo nel cuore della mente troviamo la
motivazione. Esiste un altro testo importante nella letteratura buddhista
indiana, il Bodhisattavacharyavatara, il quale afferma che tutte le radici
della pratica del dharma risiedono nell’intenzione, tradotta in inglese
intention, in tibetano dun-pa. C'è un altro passo del medesimo testo, in cui si
dice che il Buddha Sakyamuni abbia insegnato che la radice della pratica del
dharma risieda nell'aspirazione, in tibetano moe-pa. Quindi ci troviamo di
fronte a questi tre aspetti: motivazione, intenzione, aspirazione.
Motivazione in tibetano è kun-long. Stavo di recente
leggendo un libro del Dalai Lama, intitolato “Etica per il nuovo millennio”,
che introduce un’etica senza argomenti specificatamente religiosi. In questo
testo il Dalai Lama dichiara che la parola kun-long, abitualmente tradotta come
motivazione, sarebbe forse resa meglio con la parola disposizione. Ma nemmeno
la parola disposizione è ritenuta adeguata come traduzione e Lui preferisce
tradurla come “tutti gli stati della mente e del cuore”.
Non è quindi semplice tradurre il concetto della
motivazione. Allora “tutti gli stati della mente e del cuore” non vuol dire che
la motivazione è qualcosa che dobbiamo sviluppare solo all'inizio (delle nostre
attività), ma che la motivazione dovrebbe attraversare tutti gli stati della
mente e del cuore. Soltanto allora la motivazione permea tutte le nostre
attività trasformandole negativamente o positivamente. Quindi dobbiamo
comprendere che motivazione significa tutti gli stati della mente e del cuore.
Nel trattato Abhidharmakosha di Vashubhandu sono
menzionati due differenti livelli di motivazione, il livello causale e il
livello contemporaneo di motivazione. La motivazione causale deve essere
sviluppata prima di addentrarsi nell'attività. La motivazione detta
contemporanea, invece, deve essere attiva durante l'azione. Per sviluppare la
completa, piena motivazione in un'attività, dovremmo aver cura di sviluppare
entrambe le motivazioni.
Leggendo il libro del Dalai Lama, ho notato che era
l'esatto corrispondente del trattato del Abhidharmakosha di Vashubhandu. La motivazione
non è qualcosa da sviluppare solo prima di agire, ma anche durante l'azione
stessa. Quindi questo trattato di Vashubandu sottolinea le differenze tra
questi due momenti di motivazione.
Quella causale è la motivazione primaria ed è quella
fondamentale, più
importante di quella contemporanea. La motivazione più
potente è quella causale, quindi quella che possiamo sviluppare prima
dell'inizio della pratica/attività. Se la motivazione causale è positiva, anche
se dovessero successivamente sorgere delle motivazioni divergenti, essendoci
questa motivazione di base positiva, tutto viene comunque riportato in linea.
Inoltre la motivazione può essere suddivisa in tre tipi: positiva, negativa e
neutra.
Se la nostra motivazione per la meditazione è positiva
fin dall’inizio, anche se siamo sonnolenti, siamo sempre in un flusso di karma
positivo. Non è un bene, no? Che fortuna!
Qui parliamo di motivazione per la pratica del Dharma e se
entrambi i tipi di motivazione sono positivi la nostra pratica diventa più
completa. Se la motivazione causale non è positiva mentre quella
temporale è buona, la pratica diventa meno positiva e piuttosto negativa. Se la motivazione causale è positiva e la
nostra motivazione contemporanea è così così, comunque la nostra pratica tenderà
ad essere positiva. Ora noi parliamo in termini di positivo e non positivo, ma
nel linguaggio del buddhismo si parla di azioni virtuose e azioni non virtuose.
L'accumulo di azioni virtuose o non virtuose dipende
dalla motivazione. Quando poi parliamo di azioni virtuose e non virtuose, siamo
in realtà entrando nel dominio del karma. Accumulare azioni virtuose significa
accumulare karma positivo.
Accumulare azioni non virtuose, significa accumulare
karma negativo. Così il karma si pone in essere. Karma in inglese viene
tradotto in action (azione), oppure in legge di causa-effetto, e se vogliamo
precisare che cos'è il karma e come lo si accumula con le nostre azioni non
possiamo che partire dalle intenzioni.
L'intenzione è il reale karma mentale che a sua volta
determina e produce il karma verbale e fisico. Per noi è facile notare quelle
che sono le azioni verbali e fisiche ma è meno facile distinguere cos'è il
karma mentale e la sua configurazione quale fattore mentale.
Allora è importante che prestiamo particolare attenzione
all'intenzione. L'intenzione accompagna ogni attività. Ciò che è importante in
ogni azione è l'intenzione che la determina. Se noi ci accingiamo a meditare
con buona intenzione, accumuliamo karma positivo, ma se meditiamo con un’intenzione
negativa o neutrale, accumuliamo karma negativo o neutro. È lo stesso meccanismo
che avviene quando mangiamo la pasta o beviamo il caffè, se beviamo il caffè
con una buona intenzione, accumuliamo karma positivo, ma se beviamo quello
stesso caffè con intenzione negativa, accumuliamo karma negativo e se lo
facciamo con intenzione neutra, accumuliamo karma neutro.
La pratica del dharma non è quello
che facciamo, ma come lo facciamo. La pratica del dharma non dipende dal fatto
che stiamo prendendo un caffè, o stiamo calmi in postura di meditazione, ma
dipende dall’intenzione di queste azioni. Se vivi in città o sulle cime della
montagna, non c'è differenza per la pratica del dharma.
La pratica del dharma dipende dall’intenzione. Come ho
detto prima, citando il Bodhisattvacaryavatara, le radici della pratica del
dharma risiedono nell'intenzione perché l’intenzione è il karma. Quindi la
cosiddetta motivazione è inseparabile dall'intenzione. Di conseguenza, nel centro
della pratica c'è l'intenzione che genera karma positivo o negativo. È dunque questa la connessione
tra la motivazione e il karma, un legame inscindibile che è alla base del
discorso della motivazione e pratica del dharma.
Come
possiamo determinare se le nostre azioni sono azioni dharmiche oppure no?
A questo punto è necessario rifarsi alla terza citazione dal Bodhisattvacaryavatara
"la radice della pratica del dharma è l'aspirazione". A che cosa
aspiri? A che cosa aspiri, quando pratichi? Secondo l’importante tradizione
tibetana del Lam Rim l'aspirazione determina se la nostra pratica sia dharmica
oppure no.
E come si distingue la pratica dharmica dalla pratica non
dharmica? Qualsiasi pratica che aspiri ad ottenere dei benefici relativi a questa
vita, non è considerata pratica di dharma. Vi sto riportando riflessioni da un
punto di vista molto tradizionale. La pratica è dharmica, quando l'aspirazione
riguarda vite future, poiché c'è in questo un’intenzione di rinuncia, in tibetano chiamata
‘nge-jun-gi-sem’. Il concetto è di rinunciare a cose buone e piacevoli di
questa vita per dedicarle a benefici a lungo termine, e rappresenta la base
della la pratica del dharma.
La pratica del Dharma prevede inoltre tre livelli di
aspirazione. Nel primo livello pratichiamo per ottenere una vita superiore nel
futuro; Nel secondo livello pratichiamo al fine di raggiungere il nirvana.
Quando invece aspiriamo alla somma e perfetta illuminazione siamo al livello
più alto di pratica. In questo modo in ambito buddhista si possono distinguere
tre diversi tipi di praticanti, ma da queste classificazioni esula la categoria
di coloro che praticano per ottenere benefici immediati.
Ciò non è casuale in quanto la rinuncia ai benefici
immediati a favore di quelli a lungo termine è strettamente correlato alla presa
dei rifugio, infatti non ci sarebbe alcun motivo di prendere rifugio nel Buddha
nel Dharma e nel Sangha soltanto per questa vita, non era certo questa
l’intenzione del Buddha nell’indicarci la via del Dharma. Si prende rifugio nei
tre gioielli per raggiungere il nirvana. Inoltre i tre gioielli sono
i protettori per coloro che lavorano per il nirvana. Questo è il concetto.
Quindi se la pratica sia dharmica o meno, e quale sia il
suo livello, dipende unicamente dell'aspirazione, e quando noi facciamo una
qualunque cosa, con l'aspirazione di raggiungere nirvana o la perfetta
illuminazione, quell'azione automaticamente diventa una causa diretta a quello
scopo. Quindi l'aspirazione è il potere dinamico per lanciare il nostro karma
verso quel risultato. Queste sono le chiavi principali di questa e di ogni vita:
la motivazione, l'intenzione e l'aspirazione. Queste tre insieme evocano la
frase del Dalai Lama, citata all’inizio del discorso: "tutti gli stati del
cuore e della mente".
Attraverso lo studio del concetto buddhista del karma,
della motivazione, dell’intenzione e dell’aspirazione, possiamo
comprendere nei dettagli come funziona la legge di causa e effetto. Non è una
questione di fede cieca. Se noi studiamo l'Abhidharma, madyamica o pramana, quali
sezioni di metafisica, filosofia, epistemologia e
logica buddhista, troviamo spiegazioni sostenute da ragionamenti logici e su
queste basi si sviluppa la fede o credenza che, in termini buddhisti, è credere
nella convinzione.
La pratica del dharma significa una pratica contrassegnata
dall'intenzione, motivazione e aspirazione a sviluppare qualità spirituali in
vite future. In quanto esseri umani, e a volte praticanti di dharma, possediamo
già qualità buone in questa vita e abbiamo raggiunto il primo livello della
pratica di dharma. Se noi ci limitiamo a fare qualcosa solo per il beneficio di
questa vita, regrediamo, poiché con la base delle buone qualità già in noi
dobbiamo semplicemente svilupparle le qualità così da raggiungere il nirvana o
la piena illuminazione. Questa vita umana è la grande opportunità per lavorare
in questa direzione, per questo la pratica del dharma acquisisce un ruolo
cruciale nella nostra esistenza.
Ci sono tre livelli di pratica del dharma. Il primo
livello l'abbiamo già compiuto, quindi non è necessario soffermarvisi, sappiamo
che rappresenta la condizione necessaria ad ottenere un tipo di vita superiore rispetto
a un’esistenza trascinata nella cecità e nell’incoscienza, e poiché abbiamo
gale certezza è inutile continuare a lavorare ancora per questo, non ha senso,
dobbiamo invece andare oltre, procedere al secondo livello, il Nirvana, e al
terzo, l’Illuminazione completa.
Riguardo il secondo livello, nell’antico mondo buddhista si
delineavano due differenti tipi di praticanti: gli uditori, shravaka, e i praticanti,
pratecca-buddha. Gli shravaka preferivano praticare in gruppo. I
pratecca-buddha preferivano una pratica in solitudine.
Per gli italiani sembrerebbero più adatti gli shravaka!
I pratecca-buddha prediligono un ascetismo e silenzio completi,
non vogliono addirittura parlare e ritengono che qualsiasi gesto esterno
disturbi la pratica. Per gli italiani ciò sarebbe impossibile,
perché devono sempre parlare, in qualsiasi situazione, e si devono muovere e
mangiare bene!
Gli shravaka preferiscono uno scambio, una condivisione
con gli altri.
Quindi ci sono due livelli di Buddha: shravaka e
pratecca-buddha, ma entrambe le categorie raggiungono lo stesso traguardo, che
è il nirvana.
L'aspirazione a raggiungere il nirvana è la rinuncia. La
rinuncia è la motivazione, l'intenzione e l'aspirazione a raggiungere il
nirvana allo scopo di trascendere la sofferenza e di uscire dal samsara.
La sofferenza che permea il samsara può essere facilmente
identificata con le prime due nobili verità. Le prime due verità sono le
sofferenze del samsāra e le sue cause. Poi il nirvana, la fine del dolore è la
terza nobile verità, mentre la via per raggiungere la
cessazione del dolore è la quarta nobile verità. Le quattro nobili verità sono
il fondamento del Dharma. Senza le quattro nobili verità non c'è buddhismo, non c'è
rinuncia, non c'è compassione, non c'è nirvana, e non c'è samara!
La rinuncia ha a che fare con la rinuncia ai fenomeni
samsarici, la rinuncia ai piaceri del samsāra, la rinuncia a ottenimenti di
cose che si possono avere nel samsara. La rinuncia è connessa all'attaccamento
a tutti questi elementi che contraddistinguono il samsara.
In senso generale possiamo affermare che la radice di
tutti i problemi samsarici è l'ignoranza e, più specificatamente, l'ignoranza relativa
alla percezione dell'io, del sé, in lingua pali atta. Atta è la radice di tutti i
problemi.
Tutti i problemi sono radicati nell'io o atta. Affrontate
e dominate l’ego e tutti i problemi sono risolti, altrimenti è infinito il
ragionamento sui problemi quanto inutile. Cercate di afferrare il senso dell'io
o atta. Stiamo parlando di un atteggiamento ego-centrico, di un attaccamento all'io.
Atta è l'io a cui ci afferriamo e che non è affatto l’autentico io. E'
un’immagine che noi creiamo in virtù dell'ignoranza.
Osservare questa verità è la via. Scoprire questa verità
è la realizzazione, la liberazione. Quando scopriamo questa verità, non c'è più
posto per l'atta, per l'io. In realtà l'atta va e viene e quindi occorre mantenere
sempre vigile e salda l'attenzione. Ma quando se ne va per sempre, allora
questo è il nirvana. Non c'è più nessun disturbo. C'è la completa e permanente
felicità. E' semplice! Se noi lavoriamo con il giusto sforzo, in realtà il
nirvana non è poi tanto lontano. Invece se ci dedichiamo a pizza e caffè,
inconsapevoli e superficiali e ci dimentichiamo dell'atta, non raggiungeremo
mai il nirvana!
Il concetto fondamentale del buddhismo parte
dall’osservazione della nostra sofferenza, del nostro essere nel samsara, e di
come poterne uscire. Comprendendo quello che si è appena detto, noi
raggiungiamo l'equanimità, un’equanimità illimitata, poiché noi tutti soffriamo
nello stesso modo, non vi è nulla da giudicare, da discriminare, non c’è
migliore né peggiore. La sofferenza è universale. Siamo tutti allo stesso modo immersi
in questo enorme problema. Allora da questa contemplazione possiamo facilmente
sviluppare l'equanimità.
L'equanimità è la base su cui può crescere la gentilezza
amorevole e la benevolenza tanto che quando vediamo qualcuno che soffre,
rispondiamo automaticamente con benevolenza. La risposta della benevolenza è
augurare a questa persona sofferente di trovare una qualche misura di felicità.
Dalla benevolenza automaticamente nasce la compassione. Dunque l'equanimità è
il fondamento della benevolenza e della compassione. Se non c'è equanimità
verso tutti gli esseri senzienti, non c'è nemmeno possibilità di benevolenza e
di compassione.
Equanimità, benevolenza, compassione confluiscono nella
motivazione. L'oggetto della compassione sono tutti gli esseri senzienti e la
motivazione della compassione è la loro liberazione dalle sofferenze del
samsara. Non parliamo in senso generico di sofferenza, ma parliamo della
sofferenza generata dall'atta, dall'io, dall'attaccamento all'io. Soltanto così
perveniamo a una genuina equanimità, benevolenza e compassione. Quando
pratichiamo con questa motivazione, allora la pratica diventa autentica pratica
di dharma.
Infine c'è il terzo livello, l'aspirazione di raggiungere
il sammasambuddha, la somma e perfetta illuminazione, la condizione di Buddha.
Questo livello è basato sull'equanimità, sulla benevolenza, sulla
compassione. Le basi sono dunque le stesse, ma applicate in maniera leggermente
diversa: l'oggetto è differente. In tibetano abbiamo due parole: tam-jed e
ma-lu-pa. La prima significa tutti, e la seconda specifica ulteriormente tutti
senza eccezioni. Se dico tam-jed, tutti, e qualcuno scompare, si può continuare
a parlare di tutti. Invece malu-pa, "tutti senza eccezione", significa
che nessuno può mancare. La compassione verso gli esseri senzienti riguarda tutti
gli esseri senzienti, vuol dire quanti più possibile, quanti ne possiamo
raggiungere. Ma dire tutti gli esseri senza eccezione vuol dire che non
può mancare nessuno.
L'equanimità, la benevolenza, la compassione verso tutti
gli esseri senzienti è il primo livello di compassione, equanimità e benevolenza.
Ma quando ci rivolgiamo a tutti gli esseri senzienti senza eccezione, questo
diventa la causa di quella che si chiama bodhicitta, l'aspirazione a
raggiungere il livello più alto dell'illuminazione, poiché per poter servire
tutti gli esseri senza eccezione, bisogna raggiungere quel grado completo di
illuminazione.
Nello stadio precedente invece, il nirvana a cui aspirano
gli shravaka-buddha e pratecca-buddha, non ci si rivolge a tutti gli esseri
senza eccezione.
La differenza di motivazione consiste dunque in questa
sottile distinzione. Bodhicitta significa aspirazione a raggiungere
l'illuminazione per poter servire tutti gli esseri senzienti senza eccezione,
oppure raggiungere l'illuminazione per il benessere di tutti gli esseri
senzienti senza eccezione, benessere che include l'illuminazione completa
relativa a tutti gli esseri. Questa motivazione, l'aspirazione più alta, è
quella che chiamiamo bodhicitta. E' un sogno ma è reale e funziona. E' la piena
realizzazione delle nostre capacità. Per poter
aprire il nostro cuore totalmente, pienamente dobbiamo sviluppare bodhicitta,
uno stato che va al di là della paura. E' il grande coraggio, la più ampia capacità,
il superamento di tutti gli ostacoli. Non c'è più posto per paura, ostacoli,
difficoltà. Una persona che ha raggiunto questo livello è definita bodhisattva.
Anche nella tradizione pali o Theravada si parla della
pratica del bodhisattva e delle relativa dieci perfezioni o virtù, e le
piccole differenze nella loro numerazione evidenziate nelle tradizioni Mahayana
e Theravada, non riguardano la sostanza fondamentale Nella tradizione theravada
si crede che il Buddha Shakyamuni fosse un bodhisattva, prima di divenire un
Buddha completo. Personalmente, penso che queste due tradizioni siano
differenziate principalmente dai loro canoni, in quanto la tradizione mahayana
si basa sul canone sanscrito, mentre la tradizione theravada su quello pali. Ad
ogni modo, il concetto di Bodhicitta è già presente nella tradizione theravada,
sebbene non gli venga attribuita tanta importanza ed enfasi come nella
tradizione successiva.
Il termine Bodhicitta, invece, è proprio esclusivamente
del linguaggio mahayana. Il concetto di Bodhicitta nella tradizione
theravada viene reso dalla parola Dharmachanda, che è il desiderio di uno
sviluppo completo del dharma.
Grazie !
***
(3)
Bello accumulare buon Karma
(Leicester, agosto 2003)
Nelle pratiche di addestramento o di trasformazione della
mente (Lo Jong) si insegna che si dovrebbero fare due cose: sviluppare la
motivazione appropriata e dedicare il merito che deriva dalle pratiche al
beneficio di tutti gli esseri. Ad esempio, prima di giungere a questa scuola
estiva avremmo dovuto produrre una buona motivazione, mentre dovremo fare la
dedica alla sua conclusione. Dunque per il buddhismo tibetano sono molto
importanti la motivazione e la dedica.
La motivazione è una sorta di alchimia che tramuta le
azioni in qualcosa di positivo o di negativo. Qualsiasi azione compiamo, mangiare,
dormire, pensare, lavorare… può essere tramutata in azione pura, religiosa o
spirituale di dharma. Il fattore importante è la motivazione.
Anche quando siamo intenti a qualche azione che non
riteniamo sia dharma, ad esempio cucinare, possiamo trasformarla in dharma.
Come? Tramite la motivazione. Il tipo giusto di motivazione è in grado di
trasformare in dharma qualsiasi azione.
Per sviluppare e mantenere una simile motivazione abbiamo
bisogno della presenza mentale, della consapevolezza. In senso generale, la
consapevolezza è una tecnica. Il vero spirito del dharma non è semplicemente la
presenza mentale o la consapevolezza, bensì la motivazione positiva, quel
tenersi sulla via, mantenersi nel risveglio. Lo possiamo chiamare anche karma.
Di solito si parla di karma come di una sorta di destino,
ma non è affatto così. Karma è azione, questa è la sua traduzione letterale.
Significa semplicemente operare, spostare il cuscino da qui a lì è già karma.
Il karma non è tanto complicato, e non è nemmeno qualcosa compiuto nel passato:
è il presente. Lo stiamo facendo, qui e ora.
Nel buddhismo si sente sempre ripetere <<karma,
karma, karma…>>, ma dove sta il karma? Nella motivazione. Quel che cerco
di fare è darvi un’dea di come operi il karma, il processo di accumulazione
delle azioni karmiche, le impronte karmiche.
La motivazione ha due livelli: uno “causale” e l’altro
“risultante” dal primo, concretizzato nell’azione che segue. La
motivazione causale è quella fondamentale, mentre la risultante è quella
presente al momento dell’azione.
Ci ritroviamo alla scuola estiva di Leicester, e che tipo
di motivazione avevamo prima di giungere qui? Qualsiasi fosse, è comunque la motivazione
causale riferita a questa scuola estiva. Quell’intenzione è molto importante,
molto potente, è la chiave per tramutare questo corso di cinque giorni in che
cosa? Quanto sarà potente l’azione dharmica? Che sorta di azione dharmica ne
risulterà? Ormai la motivazione causale o intenzione si è già verificata e
adesso siamo nel processo, nel suo viverla istante dopo istante. Con quale
intenzione stamani abbiamo fatto colazione? La meditazione del mattino, l’incontro,
la pausa per il the, il pranzo, si sono tutti verificati uno dopo l’altro.
Quale intenzione abbiamo avuto prima di ciascuno di questi atti? Potremmo
analizzarla.
A volte è facile calcolare quanto karma buono o cattivo
abbiamo accumulato. Il punto centrale è l’intenzione fondamentale che abbiamo
prima di qualsiasi attività, è ciò che può trasformare quell’ora,quell’atto in
dharma o in non-dharma. Questa è l’intenzione causale.
Segue l’intenzione risultante o momentanea. Prima di
questo incontro avremmo potuto avere una buona intenzione, ma in queste ore può
essere sopraggiunto qualche tumulto interiore o una qualche motivazione
sbagliata, ma tutto questo non è così importante. Fra le due intenzioni, la
causale e la risultante, quella che conta davvero, la basilare, è la causale
perché ha la maggiore forza di trasformazione. Per il potere dell’intenzione
causale il karma positivo viene tuttora accumulato. Dunque le intenzioni
momentanee sono secondarie.
Il Bodhicaryavatara di Santideva sottolinea che la radice
della pratica di dharma sta nell’intenzione, nel suo spirito, nella motivazione
positiva. Vorrei mettere in rilievo che non necessariamente importa ciò che si
sta facendo quanto come lo si sta facendo e con quale tipo di motivazione.
Questo è il punto, e la consapevolezza è la chiave per mantenere in vita le
intenzioni positive.
“Etica per un nuovo millennio”, un saggio di Sua Santità
il Dalai Lama, contiene un capitolo intitolato <Nessuna magia, nessun
mistero>, ecco una cosa proprio nello stile di Sua Santità: niente di magico
o di misterioso. Il saggio presenta un’analisi dettagliata della motivazione o
intenzione. Ritengo che questo sia un elemento assolutamente basilare nella
pratica buddhista: uno stato della mente e del cuore che non riguarda solo l’inizio
della stessa ma che perdura anche nel mentre. La motivazione iniziale determina
ciò che segue, sia esso positivo, negativo o neutro. Determina la creazione di
karma sia positivo che negativo.
Le persone vogliono sapere che cosa sia il karma e
chiedono: <<Il karma è il destino?>>. No, non è il destino, e non è
nemmeno un concetto complesso, in effetti è piuttosto semplice. Una antica
storia narra di un famoso yogi tibetano che nella prima parte della sua vita
era stato un ladro, si appostava su un passo nella montagna derubando tutti i
viaggiatori di passaggio. Un giorno, un poveretto lo incrociò e gli chiese chi
fosse, in risposta il ladro disse il suo nome e il viandante ne rimase così
terrorizzato da cadere a terra morto stecchito. Il fatto addolorò oltremodo il
ladro, prese coscienza che era sufficiente il suo nome per uccidere le persone
e questo rappresentò un punto fondamentale di svolta nella sua vita così da
quell’istante lui divenne un meditante, uno yogi straordinario che utilizzava
un metodo particolare che implicava l’uso di sassolini bianchi per contare le
azioni buone e neri per quelle non buone. Ogni sera rifletteva su quanto karma
negativo o positivo avesse prodotto in quella giornata: <<Ho avuto quest’intenzione
e ne è conseguita quell’azione. Questa era positiva, quella era
negativa>>. All’inizio riusciva a cogliere soltanto pochi sassolini
bianchi, ma in seguito ne venivano usati sempre di più mentre diminuiva
progressivamente l’accumulo di quelli neri.
È interessante notare che finché era un ladro aveva
grande difficoltà a procurarsi abbastanza cibo, mentre una volta divenuto uno
yogi non riusciva a smaltirlo tutto perché i devoti gliene portavano anche troppo.
Un detto tibetano cita “la bocca non arriva al cibo e ora è il cibo a non
arrivare alla bocca”,in italiano si direbbe: “chi ha denti non ha pane e chi ha
pane non ha denti”. In questo caso il karma è evidente: quando era un ladro accumulava
soltanto karma cattivo e per quanto si desse da fare gli era immensamente
difficile trovare il cibo almeno necessario al sostentamento. In seguito aveva
cominciato ad accumulare karma buono e tutto d’un tratto non soltanto ha avuto
da mangiare in abbondanza, ma addirittura troppo.
Nella sua pratica si preoccupava dell’intenzione: quante
intenzioni positive oggi? Quante negative?
Queste sono pratiche che riguardano tutte le attività della
giornata. Non è una faccenda del tipo: <<Adesso pratico il dharma per un’ora
e poi mi riposo>>. Non è possibile! A volte ci capita di pensare in modo
simile: <<Adesso sto praticando, oppure Adesso non pratico,
leggo>>. Ma questo è inutile e sterile dualismo, non può esistere alcuna
differenza tra la pratica del dharma e la nostra vita quotidiana, devono
coincidere perfettamente, sono un’unica realtà, sia che stiamo preparando la
colazione, andando al lavoro, guidando o altro, tutte queste cose dovrebbero
essere portate a termine con una motivazione dharmica.
Si può praticare il dharma con tre diversi livelli di
motivazione: con lo scopo di ottenere buone condizioni nelle vite future, con
lo scopo di realizzare il nirvāna, oppure con lo scopo di dedicare la propria
vita alle cause della Buddhità, alla piena illuminazione, allo stato del
risveglio.
A causa di queste tre motivazioni ogni azione può
diventare una pratica di dharma. E non illudetevi, restarsene seduti immobili come
una raffigurazione del Buddha non è una pratica di dharma, come non lo è il
rilassamento per far passare un mal di testa: <<Oh, che mal di testa: ho
bisogno di meditare>>. Non c’è necessità di meditare per una faccenda del
genere, ci sono modi migliori per liberarsi di un mal di testa. Usare il dharma
con simili intenzioni è davvero poca cosa. Sentirsi rilassati o calmare un mal di
testa possono essere conseguenze naturali della meditazione, ma l’intenzione
iniziale non può davvero essere quella. Quando compriamo una Coca-Cola ci danno
anche la lattina, ma la nostra intenzione è comprare la bevanda e non la
lattina anche se ce la danno comunque.
La motivazione della meditazione deve essere altra, è
meglio meditare per ottenere il nirvāna
e se questa pratica si avrà la capacità di curare il mal di testa,
allora lo farà, indipendentemente dalla vostra volontà, ma praticare il dharma
a questo fine, per me, e forse per i tibetani è una faccenda di mera
immaginazione.
Nel buddhismo abbiamo inoltre i tre gioielli: Buddha,
Dharma, Sangha, che sono ritenuti i protettori di tutti coloro che desiderano
raggiungere la liberazione, il nirvana. Ma Buddha, Dharma, Sangha non esistono
per risolvere il problema di un mal di testa, non sono i protettori di cose
futili.
Ritengo che per i praticanti buddhisti sia molto
importante cogliere l’essenza della pratica senza perder tempo in questioni
marginali. Buddha, Dharma, Sangha sono i protettori di tutti coloro che sono
alla ricerca della liberazione. Se si usano i tre gioielli per risolvere i problemucoli
dell’ego, siano fisici o di altra natura, in realtà si abusa del Dharma creando
in questo modo un karma negativo.
Permettetemi di chiarire questo concetto, il karma non è
una cosa che accade senza che lo sappiamo, dobbiamo essere consapevoli ed è
piuttosto evidente che il karma dipende principalmente dalla motivazione. La
motivazione è la causa fondamentale di come ci sentiremo, ciò che esperiamo è
un risultato di precedenti intenzioni. Se abbiamo abbastanza presenza mentale
riusciamo a comprenderlo chiaramente in base alla nostra stessa esperienza. Le
cose non accadono senza che lo sappiamo. Felicità e infelicità sono esperienze
nostre. Cominciamo a capire che questo stato mentale, buono o spiacevole, è
stato causato da questa o quella intenzione. Questo è il metodo per conoscere e
controllare se il karma funziona o meno.
Il buddhismo insegna che con la forza della mente siamo
in grado di superare qualsiasi problema fisico. Le piccole sofferenze fisiche
non sono niente per un vero praticante, costituiscono le condizioni per
ampliare il potenziale della propria pratica. Per caso pratichiamo il dharma
per risolvere un piccolo mal di testa? No! Se un praticante serio ha mal di testa
o qualche altro dolore o difficoltà questi divengono condizioni per ampliare la
propria forza spirituale di dharma, per la realizzazione. Questa forza, questa
qualità interiore, ha il potere di superare qualsiasi ostacolo esteriore o
relativo alla fisicità. Questa è una particolare caratteristica della pratica
del dharma. Per utilizzare questa qualità dobbiamo però sapere come esattamente
operi il dharma, quale sia il processo, per cosa sia designato e come influisca
su di noi.
L’inizio della pratica del dharma è la realizzazione dell’impermanenza.
I grandi maestri parlano spesso della chiara luce dell’impermanenza, non della
vacuità. Parlare in termini di vacuità sarebbe troppo difficile per chi come
noi è agli inizi. Riflettere sull’impermanenza, comunque, mostra il tragitto
verso il dharma. Nel momento in cui riflettiamo sull’impermanenza iniziamo a
praticare, è qualcosa che spalanca l’azione di Dharma, ci chiarisce gli scopi
della pratica. Altrimenti ci dirigeremmo verso altre direzioni, obiettivi
minuscoli che ostacolano quello reale. Riflettere sull’impermanenza perciò
dischiuderà il luminoso tragitto verso il nirvana, non verso queste piccolezze.
La conoscenza dell’impermanenza e della legge di causa-effetto sono la base
della pratica.
Non dobbiamo perdere di vista questi scopi della pratica.
Il che non significa che nella vita quotidiana si debba evitare ogni cosa.
Tutto ciò che occorre per trasformare la propria mente è la motivazione e se
qualcosa dovrà essere cambiato, cambierà da solo, non c’è alcuna necessità che
siamo noi a pensarci, tutto cambia se cambia qui, nell’intenzione.
È molto importante non trascurare le nostre attività
quotidiane mentre pratichiamo il dharma. Le due cose si aiutano
vicendevolmente. Siamo nel samsara, viviamo in una società ipertecnologica
tanto che ci sembra di non riuscire ad essere Buddha se non si possiede un
cellulare, ci si sente impotenti, completamente paralizzati. Di recente ho
condotto un breve seminario ad Assisi e alcuni praticanti volevano seguire la
vita dei rinuncianti così ho detto loro che avrebbero dovuto diventare dei
mendicanti, che la vita del mendicante è quella migliore per la pratica del
dharma. Una signora ha esclamato: <<No, no, io non posso. Sarebbe troppo!>>.
Ho replicato: <<Dovresti essere un medicante moderno, non di quel genere
che vive in strada. Il mendicante moderno deve abbandonare computer e cellulare.
In questa società ormai sono cose ritenute dei prerequisiti indispensabili a
vivere, anzi a sopravvivere a meno che non si abbia un ottimo segretario che
cura ogni cosa per te>>. La signora è rimasta molto colpita e ha detto:
<<Oh, non ci avevo mai pensato!>>.
Ai nostri giorni, in questa società, avere un cellulare è
normale. Ogni anno se ne buttano tanti solo per acquistare un modello più
avanzato, e per i computer vale lo stesso criterio e oltretutto il costo non è
eccessivo.
Se abbiamo maturato il vero senso del dharma e
sufficiente la consapevolezza la presenza mentale per non perdere nulla. Il
ladro che diventò yogi, nonostante tutti gli sforzi compiuti nelle sue ruberie,
non aveva cibo a sufficienza, mentre quando meditava e quotidianamente contava
i sassolini bianchi e neri aveva fin troppo da nutrirsi e qualcuno potrebbe
chiedersi come potesse riuscire ad avere tanto cibo soltanto standosene seduto
a contare quotidianamente i suoi sassolini. La maggior parte delle persone,
infatti, non fa nulla gratuitamente, ma calcola tutto: <<Se faccio
questo, allora avrò questo>> e per quanto si provi a pianificare il
futuro ci si può ritrovare immersi nella preoccupazione: <<Ma non avrò
abbastanza per i prossimi cinque anni!>>. Ma il karma non funziona così: non si può programmare il
futuro. Basta accumulare del buon karma e le cose arrivano in modo misterioso,
in modo naturale.
A volte dico agli amici: Niente programmi, niente
progetti. Provate solo ad accumulare un buon karma. Penso che sia bello: ci
libera da tanto stress e da tanti problemi.
Quindi ecco come il karma, la motivazione, il dharma e la
vita quotidiana interagiscono. Se non sappiamo come operano unitamente, vediamo
contraddizioni e siamo indotti alla confusione. Finché guarderemo alla pratica
del dharma e alla vita quotidiana come se fossero in contrasto non potremo mai comprendere
il senso del dharma. Il dharma non può mai contraddire alcunché.
IL Dharma non abbandona nemmeno uno come Bin Laden, non
c’è problema. Si può anche pensare che Bin Laden sia una persona cattiva, però
il dharma è sempre in grado di accompagnarlo. Nulla contraddice il Dharma e finché
si fanno affermazioni come: <<questo è in contraddizione con il
dharma>>, significa che non lo si conosce e non si è compreso come praticarlo. Tutto dipende semplicemente dalla nostra comprensione,
dalla nostra capacità di cogliere l’autentica essenza del dharma. In quel
momento si riesce a praticare il dharma con gran facilita.
È altresì importante sapere cosa sia il samsara. Noi
pratichiamo nel samsara, non al di fuori di esso, e il dharma non è qualcosa di
estraneo, in contraddizione. In effetti il dharma aiuta il samsara, lo
purifica, lo trasforma. Nel buddhismo si insegna la non-dualità di samsara e
nirvana. Non abbiamo bisogno di aver raggiunto un alto livello di comprensione
rispetto a questa non-dualità di samsara e nirvāna. Si tratta unicamente di
essere qui, presenti e consapevoli, capendo come integrare il dharma nelle
condizioni samsariche.
Chiunque è in grado di operare pienamente nel dharma,
qualsiasi cosa stia facendo. Come proseguire la nostra vita usuale e integrarla con il
dharma in modo complementare? Questo può risultare difficile, soprattutto se si
è molto indaffarati, eppure è importante che non si pensi in termini di tempo
dedicato alla pratica in opposizione al tempo restante della giornata in cui non
si pratica, questo è il maggior ostacolo. Non esiste un tempo in cui non si
possa praticare il Dharma, ogni istante è Dharma, ed ecco dove interviene l’intenzione.
L’intenzione o motivazione più elevata è il Bodhicitta che
comprende quattro livelli preliminari di Lo Jong o pratica dell’addestramento
al Bodhicitta. La prima cosa da riconoscere è il potenziale umano capace
di produrre bontà per gli altri. La seconda è capire che tutti i fenomeni sono
impermanenti, sia i buoni che i cattivi; i corpi sono impermanenti; non c’è
assolutamente nulla che duri per sempre. Quindi per noi è importante non
perdere tempo. Alcuni affermano che il tempo è denaro, ma il praticante dice
che il tempo è dharma. La cosa successiva da comprendere è il processo karmico,
quale sia la risultanza di un’azione. Questo avviene nei termini della propria
esperienza e del proprio comportamento. Infine bisogna comprendere il samsara: le sue
caratteristiche, le sue condizioni e cosa sia. Se non conosciamo il samsara, ne
siamo confusi. Siamo nel samsara e dobbiamo saperlo. Il dharma può essere
praticato solo nel samsara e, durante la meditazione, siamo ancora nel samsara.
Questi costituiscono i quattro preliminari per chi vuole
addestrarsi ad essere un praticante della mente del risveglio (bodhicitta).
Molti dicono che avere la mente risvegliata (bodhicitta) sia molto difficile da
acquisire, troppo ideale e complicata,qualcosa di impossibile. Certamente è
impossibile se mancano le basi, le pratiche preliminari. Ma, se ci impegniamo
con serietà e costanza nei preliminari, non ci saranno problemi, non sarà
difficile ottenere il risultato che desideriamo. La mente risvegliata
(bodhicitta) ci giungerà letteralmente come raggi di sole.
(Questo articolo nasce dai suoi insegnamenti dati alla scuola
estiva di Leicester, nell’agosto 2003).