Wednesday, 14 April 2021

LA NATURA DI BUDDHA

 

 LA VIA DEL NIRVANA

Il Dharma del Buddha
2003
Lama Geshe Gedun Tharchin

3° LA NATURA DI BUDDHA

Tutto quello che abbiamo detto sul Dharma ha lo scopo di mantenere e preservare la nostra tranquillità mentale, ma esistono comunque casi  in cui questo lavoro può sembrare molto pesante e si possono incontrare  grosse difficoltà anche da parte di chi si impegna molto nella pratica. Colgo l’occasione per citare un caso personale: io stesso, venendo qui in Occidente, mi sono imbattuto in situazioni molto differenti dalle condizioni in cui vivevo in India, dove ho studiato, ed ho incontrato difficoltà a fronteggiarle e a superarle, pur essendo un monaco buddhista. Ciò che mi ha aiutato a sopportarle è una scrittura che ho sempre tenuto presente e che dice: «Uno studente abile, qualsiasi difficoltà possa incontrare, non deve mai perdere la sua stabilità mentale». La scrittura continua dicendo «ogni volta che si intraprende una battaglia contro le illusioni, durante questa battaglia scaturiranno molte distruzioni, ma, al contrario, se non c’è battaglia, se non c’è guerra contro ciò che ti si oppone, non sorgerà nessuna distruzione e nessun problema verrà risolto». Questa scrittura, questa iscrizione, che in tibetano è molto breve ed è composta solo da tre righe, mi è stata molto utile perché ho capito che nella nostra vita possiamo contare unicamente sulle nostre qualità mentali che ci sostengono e rappresentano la cosa più importante che possediamo ora e che possiamo portare nelle vite future.

Senza addentrarci nella reincarnazione o rinascita, ma soffermandoci sul nostro essere presenti qui e ora, possiamo ben affermare come l’istruzione e lo studio siano questioni fondamentali per l’esistenza. Una persona ben istruita, una persona che ha studiato, ha uno stile di vita differente, quindi, durante la nostra pratica del Dharma in questo mondo incontriamo molte difficoltà  perché siamo vittime della confusione, ed è inevitabile che sorgano difficoltà contro le quali dobbiamo combattere. Un vero praticante di Dharma, qualsiasi asperità possa incontrare nella sua pratica, l’affronterà con coraggio e leggerezza, perché in grado di percepire i problemi esistenziali con estrema chiarezza.

Tutto questo vuole significare che l’incontrare delle difficoltà è comunque un’occasione in più per praticare il Dharma; le difficoltà ci forniscono, dunque, un’occasione ulteriore per attenervisi . 


L’importante, come ho già detto, è mantenere doti di fermezza e stabilità.

Stabilità e tranquillità caratterizzano la continuità della nostra pratica che a sua volta ci fornisce la possibilità di superare tutti i problemi che sorgono; al contrario, quando noi, incontrando delle difficoltà, ci sentiamo scoraggiati e senza speranza, significa che stiamo perdendo la nostra battaglia. Bisogna precisare che la parola guerra ha generalmente un’accezione negativa, correlabile con sentimenti di rabbia, di odio. La battaglia interiore di cui vi parlo è invece deprivata di tali sentimenti.

Se nella nostra guerra contro i problemi prevalessero rabbia e odio, questo implicherebbe la nostra sconfitta e la nostra stessa distruzione. Per vincere occorre mantenere stabilità mentale e quel tipo di qualità mentali che vi ho sino ad ora illustrato.

Tranquillità e stabilità mentale ci forniscono l’opportunità di vincere, di risolvere i nostri problemi. La fonte di tutte le nostre qualità interiori è la natura di Buddha oppure, come può essere anche chiamata, il piccolo Buddha. 

Bertolucci ha avuto dei problemi in Nepal mentre stava girando il film «Il Piccolo Buddha» perché i buddhisti nepalesi si risentirono e gli dissero che non doveva intitolare quel film il Piccolo Buddha, perché Buddha non è piccolo. Bertolucci dovette promettere che così non l’avrebbe mai intitolato.  Quando uscì il film egli andò dal Dalai Lama e questi gli disse che era un ottimo titolo perché in ognuno di noi esiste un piccolo Buddha. 

Spesso abbiamo delle qualità interiori che neppure conosciamo, come Bertolucci che ha dato un titolo adatto al film senza saperlo. Dal punto di vista cristiano è come se Dio gli avesse dato l’ispirazione. 

Quindi, questo piccolo Buddha che abbiamo dentro di noi, meglio definibile come «Natura di Buddha», è la sorgente, la fonte di tutte le nostre qualità interiori che ci forniscono la possibilità di vincere la battaglia contro i nostri problemi e il necessario incoraggiamento per sconfiggere le illusioni. Come possiamo riconoscere ed essere coscienti di questa natura di Buddha? Con la comprensione che la natura di Buddha non è altro che una qualità mentale. Ciascuno di noi ha una coscienza e questa ha le potenzialità e le capacità di essere pacifica e tranquilla. Tale natura della coscienza è il piccolo Buddha: in pratica, la tranquillità e la pace che ci pervadono di immensa felicità e di grande gioia.

Per preservare la tranquillità mentale, dunque, esiste quello che noi chiamiamo la pratica del Dharma e che rappresenta il bene più prezioso che possediamo. 

Tutto questo è molto chiaro se operiamo un’attenta introspezione. Non c’è niente di più salutare, che ci possa dare maggiore  giovamento interiore.

Per realizzarlo, per comprenderlo, per capirlo dobbiamo realizzare la nostra natura di Buddha. Poiché  generalmente non lo facciamo, non siamo consapevoli di avere questa grande qualità interiore. Ogni persona che sta leggendo questo libro, ognuno di noi dunque, ma anche tutti gli animali possiedono questa preziosa capacità di mantenere tranquillità e pace mentale.

Tuttavia, noi esseri umani possediamo una potenzialità ulteriore, ovverosia la possibilità di riconoscere questa qualità, dato che per gli altri esseri è molto difficile comprenderla e soprattutto svilupparla. Per questa ragione, la forma umana di esistenza è considerata la migliore fra tutte: non dobbiamo sprecare, non dobbiamo perdere questa grande opportunità che possediamo.

In un certo senso abbiamo il Buddha, l’Illuminazione, nelle nostre mani: se lo accettiamo o lo abbandoniamo dipende solo dal nostro arbitrio.

Anche chi si è macchiato di crimini e sconta le proprie azioni in prigione ha una grande opportunità: quella di sviluppare la propria natura di essere illuminato.

Vorrei narrarvi la breve  e  chiarificante storia di un monaco tibetano che è stato imprigionato per vent’anni in Tibet e che, finalmente libero, è andato in India a parlare con il Dalai Lama. Questi gli ha chiesto quale fosse stata la cosa più tremenda che era capitata in prigione, e il monaco gli ha risposto che era stato il rischio di perdere la compassione. 

Il più grave problema che  il monaco aveva dovuto affrontare era stato il pericolo di perdere la propria compassione, perché i cinesi lo picchiavano, lo torturavano e lui aveva corso seriamente il rischio che ciò accadesse.

Questo si ricollega a quanto dicevo all’inizio: qualsiasi problema si debba affrontare non bisogna perdere mai la tranquillità mentale che ci deve sempre accompagnare. Quindi, se noi compariamo le grandi difficoltà che ha avuto questo monaco nella prigionia nel Tibet cinese con le difficoltà quotidiane che viviamo qui in Occidente, queste divengono nulla  rispetto a quelle del povero monaco. Egli, infatti, non ha perso la sua compassione e la sua benevolenza, e questo gli ha permesso di mantenere la propria stabilità mentale durante i venti anni trascorsi in prigionia.

Riflettiamo: è un punto veramente cruciale. Fortunatamente il nostro monaco ha avuto la capacità di riconoscere che la compassione e la benevolenza sono le cose più importanti per la nostra vita attuale e per le nostre vite future.

Mantenere  tranquillità e pace mentale è la ragione per cui noi pratichiamo il Dharma: non lo pratichiamo certamente per ottenere beni materiali. 

Analizzando la questione sotto il profilo della legge di causalità possiamo affermare che in questo caso la causa è il nostro piccolo Buddha, la natura di Buddha, e l’effetto è il grande Buddha. Dunque, se esisterà il Buddha nella causa scaturirà il Buddha nell’effetto.

Il Buddha deve nascere dal Buddha, il grande Buddha deve nascere dal piccolo Buddha. Se il piccolo Buddha è dentro di noi, ci darà come risultato il grande Buddha.

Attenzione, però, quando parliamo di Buddha non dobbiamo pensare al Buddha quale riferimento fisico - storico. Esso è invece l’immagine, il simbolo, la forma delle sue qualità mentali: rappresenta la tranquillità, la felicità, la stabilità.

Una volta sono stato a Napoli per una conferenza e, alla fine mi hanno detto che avevo parlato della vita di tutti i giorni e non avevo parlato della morte; ed io ho risposto: «Se voi vivete in maniera pacifica morirete in maniera pacifica». Le persone che incontro, in genere, hanno molta paura di morire. Io invece vi dico: se vivrete in maniera pacifica e tranquilla allora vedrete che la morte non sarà un problema. Imparare a vivere con serenità vuol dire imparare a morire in ugual  modo, e non c’è bisogno di far proprie tutte quelle pratiche sulla morte che caratterizzano, ad esempio, la cultura tibetana.

Il libro tibetano dei morti è uno dei libri più orrendi che io conosca!

E’ interessante leggerlo, ma non è necessario praticarlo. 


Imparate a vivere in maniera gioiosa, questa è la cosa più importante.


Vorrei aggiungere qualche altra  considerazione sul  vivere in pace. Questa regola è alla base della pratica buddhista.

La presa di Rifugio nei Tre Gioielli, ovvero ricevere i precetti, sono atti fondamentali nell’ambito della teoria di causa ed effetto. Prendere rifugio nel Buddha, nel Dharma e nel Sangha vuol dire rifugiarsi nel nostro piccolo Buddha, metterlo in atto nel momento della causa è come prendere rifugio nel momento del risultato e tutto questo rientra nella filosofia di causa ed effetto. La legge di causa ed effetto produce il Karma.


A questo punto ci si pone la domanda: la crescita di un fiore dipende dal Karma oppure no? Non tutto è correlabile al Karma. Esso dipende dal continuum mentale, ma che la crescita di un fiore dipenda dal nostro continuum mentale oppure no e’ una questione molto pio complessa, relazionabile alla teoria causale. Quindi, la teoria del karma è un sotto insieme della filosofia di causa ed effetto, ma questa teoria non illustra soltanto il karma. Quando  parliamo del karma dissertiamo intorno a qualcosa che ha una connessione con il continuum mentale. 


Analizzare la causa e l’effetto è una forma di meditazione molto importante, dovete sempre chiedervi il perché di ciò che vi circonda. Quando voi incontrate un problema non affrontatelo alla cieca,  ma provate a trovare una risposta con mente tranquilla. Fate un passo indietro ed analizzate con rigore i dati in vostro possesso. Alla fine troverete la soluzione. Questa è la meditazione: la consapevolezza, la Shamatha, cioè la concentrazione su un singolo punto. La Shamatha e la Vipassana non si riferiscono soltanto al sedersi in una certa postura, e devono essere praticati sempre.

Gli Zen sono specialisti della Shamatha, che vuol dire concentrazione, mentre invece la Vipassana è più sviluppata nella scuola Theravada.

I tibetani sono specialisti nelle visualizzazioni. 


Il Theravada è il Buddhismo del Sud, dell’Indocina e del Sud-Est Asiatico, ed è il più antico, mentre il Ch’an  e lo Zen e sono tipici delle aree del Nord, del Giappone e della Cina. Il Vajrayana è il Buddhismo centrale perché è passato dall’India fino in Tibet. Quello tibetano è il più recente, introdotto direttamente dall’India tra l’VIII e X secolo.


Ognuna di queste tradizioni ha proprie caratteristiche, tuttavia si parla di un solo Buddhismo per motivi ecumenici .

Quando ho cominciato a studiare la teologia cristiana mi hanno detto di approfondire l’ecumenismo buddhista prima di addentrarmi nel cristianesimo.

Ho cominciato, così, a leggere alcuni testi Theravada, Ch’an e Zen. Ogni argomento è buono, mi hanno detto, e troverai degli ottimi spunti ovunque.  




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Thursday, 1 April 2021

Le sedici leggi umane pure di Songtsen Gampo

Le sedici leggi umane pure (Tib. མི་ཆོས་གཙང་མ་བཅུ་དྲུག་, Wyl. mi chos gtsang ma bcu drug), furono stabilite per decreto durante il regno del primo imperatore del Tibet, il re del Dharma Songtsen Gampo -VI secolo. 

1. Sviluppare la devozione per i Tre Gioielli. 

(ལྷ་དཀོན་མཆོག་གསུམ་ལ་མོས་གུས་བསྐྱེད་པ་, lha dkon mchog gsum la mos gus bskyed pa) 

2. Cercare e praticare il sacro Dharma. 

(དམ་པའི་ཆོས་བཙལ་ཞིང་བསྒྲུབ་པ་, dam pa'i chos btsal zhing bsgrub pa) 

3. Ripagare la gentilezza dei propri genitori. 

(ཕ་མ་ལ་དྲིན་ལན་འཇལ་བ་, pha ma la drin lan 'jal ba) 

4. Mostrare rispetto ai dotti. 

(ཡོན་ཏན་ཅན་ལ་ཞེ་མཐོང་ཡོད་པ་, yon tan can la zhe mthong yod pa) 

5. Essere rispettosi con quelli di alto livello e con i propri anziani. 

(རིགས་མཐོ་བ་དང་རྒན་པར་བཀུར་སྟི་ཆེ་བ་, rigs mtho ba dang rgan par bkur sti che ba) 

6. Essere benevoli con i propri vicini. 

(ཡུལ་མི་ཁྱིམ་མཚེས་ལ་ཕན་གདགས་པ་, yul mi khyim mtshes la phan gdags pa) 

7. Essere onesto. 

(བཀའ་དྲང་ཞིང་སེམས་ཆུང་བ་, bka' drang zhing sems chung ba) 

8. Essere fedeli agli amici più stretti. 

(ཉེ་དུ་མཛའ་བཤེས་ལ་གཞུང་རིང་བ་, nye du mdza' bshes la gzhung ring ba) 

9. Emulare coloro che sono educati e decenti. 

(ཡ་རབས་ཀྱི་རྗེས་བསྙེག་ཅིང་ཕྱི་ཐག་རིང་བ་, ya rabs kyi rjes bsnyeg cing phyi thag ring ba) 

10. Avere cibo e ricchezza moderati. 

(ཟས་ནོར་ལ་ཚོད་འཛིན་པ་, zas nor la tshod 'dzin pa) 

11. Ripagare coloro che hanno precedentemente mostrato gentilezza. 

(སྔར་དྲིན་ཅན་གྱི་མི་རྩད་གཅད་པ་, sngar drin can gyi mi rtsad gcad pa) 

12. Essere onesti riguardo a pesi e misure. 

(བུ་ལོན་དུས་སུ་འཇལ་ཞིང་པྲེ་སྲང་ལ་གཡོ་མེད་པ་, bu lon dus su 'jal zhing pre srang la g.yo med pa) 

13. Avere poca gelosia. 

(ཀུན་ལ་ཕྲག་དོག་ཆུང་བ་, kun la phrag dog chung ba) 

14. Non essere influenzato da compagni malvagi. 

(ངན་པའི་གྲོས་ལ་མི་ཉན་ཞིང་རང་ཚུགས་འཛིན་པ་, ngan pa'i gros la mi nyan zhing rang tshugs 'dzin pa) 

15. Parlare con moderazione e in modo gentile. 

(ངག་འཇམ་ཞིང་སྨྲ་བ་ཉུང་བ་, ngag 'jam zhing smra ba nyung ba) 

16. Essere paziente e lungimirante e sopportare le difficoltà. 

(ཐེག་པ་ཆེ་ཞིང་བློ་ཁོག་ཡངས་པ་, theg pa che zhing blo khog yangs pa)




Wednesday, 31 March 2021

LA SAGGEZZA

 
 LA VIA DEL NIRVANA
Il Dharma del Buddha
2003
Lama Geshe Gedun Tharchin 

16° LA  SAGGEZZA
 

Se voi state leggendo questo testo è perché siete alla ricerca di pace, di tranquillità, di un significato della vostra presenza nel mondo. Per arrivarci la prima cosa da fare è imparare a tirare fuori qualcosa di concreto durante il vostro passaggio in questa vita. Per questo la motivazione che ci spinge nella vita dovrebbe essere positiva, tale da fornirci gli strumenti per cercare l’essenza della vita, ed è proprio questo il senso della sesta Paramita.

Quando ci impegniamo in questa pratica, come abbiamo già detto in precedenza, non è per  acquisire qualcosa di nuovo, qualcosa che si trova al di fuori di noi, ma, al contrario, l’obiettivo è quello di trovare, di risvegliare quella risorsa di tranquillità e di felicità che è già dentro di noi. 

In questo senso il Dharma è innato, non è esterno alla nostra coscienza. Quindi anche la sua pratica deve sgorgare dalla nostra interiorità. Ciò significa che la tranquillità, la pace e la felicità si devono cercare dentro di noi. I semi delle sei Paramita sono già dentro di noi, dobbiamo soltanto ritrovarli, cercare di risvegliarli per poterli coltivare, per poter comprendere l’essenza della vita. Abbiamo parlato in precedenza di cinque Paramita; l’ultima che abbiamo considerato è la Samatha: la concentrazione. Ora parleremo della sesta Paramita: la Prajna, cioè la conoscenza.


Abbiamo già visto che la pratica della prima Paramita, la generosità, significa avere un cuore aperto, un’attitudine generosa, saper dare oltre le nostre risorse materiali e fisiche e  vuol anche dire generosità degli insegnamenti. L’opposto della generosità è l’avarizia che significa voler tenere tutto per sé. Atteggiamento che è generato dall’attaccamento. 

La seconda Paramita ha a che vedere con l’etica e la moralità. Sviluppandola si impara a disciplinare il proprio corpo, la propria mente e le proprie parole e si apprende la maniera corretta di agire con pensieri, parole e azioni. L’opposto è l’immoralità.

La terza Paramita è la pazienza. L’opposto della pazienza è la rabbia che distrugge la nostra pace interiore.

La quarta Paramita è lo sforzo gioioso, la perseveranza volenterosa. Il suo opposto è la pigrizia che ci fa fallire il conseguimento di qualsiasi obiettivo ci siamo proposti. 

La quinta Paramita è la concentrazione. L’opposto è la confusione, l’agitazione, la mente che vaga. 

La sesta Paramita è la conoscenza, la Prajna, il suo opposto è l’ignoranza intesa come non conoscenza, l’incapacità di vedere le cose come esse sono (nescienza). Un altro suo opposto è la mente oscurata, quella che non ci permette di vedere le cose in se stesse. Quando studiamo la sesta Paramita dobbiamo richiamare alla memoria gli opposti delle altre Paramita e tener presente quali sono i loro vantaggi e svantaggi. Buddha Sakyamuni, il nostro maestro, ha insegnato ai suoi discepoli le sei Paramita perché potessero conoscerle e praticarle e perché i semi delle sei Paramita, che sono dentro ognuno di noi, fossero riconosciuti e sviluppati. Per questo insisto nel dire che il Buddha non ha insegnato qualcosa di nuovo; Egli non ha fatto altro che mettere in evidenza quelle che sono le buone qualità insite in ogni essere umano e che devono essere seguite. 


Una volta sono stato a Padova per un incontro in cui ricordo di aver detto che il Buddha differisce da ricercatori come Guglielmo Marconi o Leonardo da Vinci perché questi hanno fatto delle nuove scoperte mentre Egli ci consente semplicemente di imparare a riconoscere quelle qualità interiori che già sono dentro di noi e ha indicato come il loro sviluppo ed il loro potenziamento portino alla suprema, permanente felicità. Ed è per questo che si potrebbe pensare che Leonardo da Vinci sia stato più intelligente del Buddha, dato che ha inventato cose nuove, mentre Buddha ha scoperto cose che già esistevano in precedenza. Ciò è avvenuto, naturalmente, a causa dei loro diversi obiettivi. 


Lo scopo del Buddha era quello di illuminare se stesso e l’essere umano, quello di far sì che la nostra vita di ogni giorno fosse migliore, quindi il suo interesse era quello di scoprire la fonte di questa illuminazione. Per questa ragione ha indicato due diversi aspetti che coesistono dentro di noi: una serie di elementi che ci portano alla felicità ed una serie di elementi che ci portano alla sofferenza. Essere generosi, avere una buona disciplina, essere pazienti, essere capaci di sforzo gioioso, essere concentrati e sviluppare la saggezza sono tutti lati positivi di noi stessi che ci portano alla felicità. 

Spesso non ci è chiaro quali possano essere i vantaggi dello sviluppo delle nostre qualità positive ed è qui che interviene la sesta Paramita cioè la conoscenza, la saggezza.


Il fatto di non essere generosi, di essere avari è generalmente riconosciuto come un aspetto negativo da ognuno di noi, e, al contrario, essere generosi è considerato da tutti una qualità positiva che porta felicità a noi stessi e agli altri. Lo stesso vale per la disciplina: il fatto di avere una buona disciplina sia mentale che fisica è reputata una qualità positiva. Ed è per questo che quando meditiamo sulle sei Paramita dobbiamo tenere conto di questi argomenti. 


Le prime tre Paramita (la generosità, l’etica, la pazienza) sono consigliate ai laici, riguardano l’accumulo dei buoni meriti e possono rientrare nell’aspetto del metodo; invece la quarta e la quinta (lo sforzo gioioso e la concentrazione) appartengono all’aspetto della saggezza e sono raccomandate a coloro che stanno in qualche ordine monastico. 


La quinta Paramita, la concentrazione, può essere divisa in altre tre categorie: la prima è la Samatha, la concentrazione della mente che risiede nella calma, la mente tranquilla o Scinè. La seconda categoria è la Vipassana, la concentrazione analitica, la concentrazione sull’analisi della realtà suprema. La terza categoria è il Samadhi sia della Samatha che della Vipassana. 


La sesta Paramita è la saggezza, in sanscrito Prajna e in tibetano Scerap. La saggezza è la maggiore di tutte le sei Paramita. Nelle scritture si dice che la Prajna corrisponde all’organo della vista e tutte le altre Paramita agli altri organi dei sensi. Senza la saggezza tutte le altre Paramita sono cieche, e ciò accade perché se pratichiamo le cinque Paramita senza la comprensione e senza la saggezza non possiamo sapere da dove originano le altre, per questo la sesta è la più importante. 


La Prajna è la comprensione suprema della realtà e può essere suddivisa in tre categorie: la prima è la conoscenza della natura convenzionale dei fenomeni, la seconda è la comprensione della suprema realtà dei fenomeni e la terza è la comprensione dei mezzi per aiutare tutti gli esseri senzienti. 

La prima categoria riguarda la legge naturale di causa ed effetto, la legge del Karma e anche la conoscenza della natura interdipendente dei fenomeni. Ciò vuol dire comprendere che ogni cosa che esiste non esiste di per sé ma esiste in quanto prodotto di una serie di fattori che l’hanno generata. Per esempio: quando andiamo in un giardino e guardiamo un fiore la prima cosa che notiamo è che il fiore sta lì ma, se lo suddividiamo in diverse parti togliendogli qualche elemento e subito dopo lo ricomponiamo, ci accorgeremo che questo fiore non è più lo stesso di prima. Allora guardandolo di nuovo ci domanderemo dove è andato a finire quel fiore, eppure tutte le sue parti sono lì, ma quello ricomposto non è più un fiore. Quindi c’è una grossa differenza tra come era il fiore prima e come è adesso che lo abbiamo scomposto e ricomposto pur non essendoci differenza fra le parti costituenti. La stessa considerazione la possiamo fare per un grande albero che ha molti rami ma che è comunque nato da un semplice seme. Questa è una maniera per poter meditare sull’esistenza interdipendente. Quindi la prima categoria della Prajna è la comprensione della reale natura delle cose e qualsiasi elemento del mondo fenomenico soggiace a questo tipo di comprensione e a questo tipo di legge. Qualsiasi nuova conoscenza può sviluppare la nostra saggezza e può aprire sempre di più il nostro cuore. Ciò significa che non stiamo più in uno stato di mente oscurata ma che ci stiamo liberando dell’ignoranza. Comprendere qualcosa di nuovo fa parte del nostro processo di acquisizione della saggezza. Non importa se si ha un oggetto positivo o negativo, la comprensione di qualsiasi cosa, la sua analisi è comunque un processo positivo di saggezza. In questo senso si dice che tutti i fenomeni sono compresi nel Dharma. Ciò non vuol dire che qualsiasi cosa sia una pratica del Dharma ma che, invece, la comprensione di ogni cosa fa parte della pratica del Dharma. 


Il secondo livello è la comprensione della suprema realtà dei fenomeni. E’ una comprensione più profonda che va al di là della conoscenza convenzionale. Significa comprendere la natura vuota di ogni esistenza. 

Quando meditiamo profondamente su di un oggetto o su di fenomeno, al termine della pratica, non riusciremo più a trovare quell’oggetto o quel fenomeno. È una reazione molto naturale, succede a tutti. Però, è importante capire che investigare la natura vuota di un fenomeno o di un oggetto non vuol dire che le cose non esistano: sarebbe un grave errore. Affermare che un oggetto non esista - in modo assoluto -  equivale a cadere nella trappola del nichilismo. Allo stesso modo, è un segnale che ci dovrebbe far comprendere che non abbiamo realizzato una comprensione profonda. 

L’attaccamento non è un’attitudine che sorge in modo intenzionale ma è qualcosa che sorge spontaneamente, senza che noi ne abbiamo consapevolezza, ed è una cosa che ci causa molti problemi. L’atteggiamento di attaccamento al sé è ciò che ci fa considerare il nostro sé la cosa più importante al mondo, come se non esistesse nessun altro essere senziente. Questo attaccamento al sé è il contrario dell’esatta realtà delle cose. Se seguiamo questo atteggiamento ci verrà a mancare qualsiasi possibilità di essere in pace. Per questo nella pratica buddhista il principale obiettivo è eliminare l’attaccamento al sé. Il fine della pratica del Dharma è quello di saper riconoscere e valutare l’attaccamento al sé e poi lasciarlo andare, eliminarlo completamente. Compiere  questo tipo di investigazione ci porta in uno stato di pace maggiore; non è cosa facile ma è già un buon passo avanti ed è positivo per noi. 


Il terzo livello è quello di aiutare tutti gli esseri senzienti. Questo è molto importante nella pratica del Bodhisattva. La comprensione dei modi per aiutare gli altri vuol dire individuare il sistema più appropriato per raggiungere tale obiettivo. Per esempio, se c’è una persona che soffre di mal di testa e la vogliamo aiutare comprando delle medicine, ciò non vuol dire che questa sia la cosa più giusta da fare. Se faremo così potremo sentirci bene, sentirci felici ed essere convinti di aver fatto qualcosa per quella persona però, in realtà, non le abbiamo risolto il problema. Ed è questa, come dicevamo prima,  la saggezza, l’occhio di tutte le altre Paramita. Possiamo essere generosi quanto vogliamo ma, se non abbiamo l’occhio della saggezza che ci indica la maniera giusta per aiutare gli altri, mancherà sempre qualcosa alla generosità. E’ per questo che, per soddisfare completamente i bisogni degli altri, abbiamo bisogno della comprensione e della maniera appropriata per aiutarli. In questo consiste la pratica del Bodhisattva e cioè il giusto modo di praticare le sei Paramita. Si può praticare la prima Paramita, la generosità, insieme con tutte le altre; la completa generosità sarà quella che si pratica, con pazienza, con moralità, con sforzo gioioso, con concentrazione e con saggezza. Lo stesso vale per tutte le altre Paramita. Può sembrare alquanto complicato però quando si acquista familiarità con questi concetti diventa molto più facile. In genere, quando parliamo della pratica, ci prefiguriamo stati mentali estremamente puri, estremamente chiari e ciò ha un effetto opposto perché ci scoraggia perché ci convinciamo che non arriveremo mai a quel livello. Ciò è da considerare un ostacolo perché provarci, fare i primi passi in questa direzione è invece un fatto molto produttivo verso l’obiettivo della distruzione delle qualità negative e delle illusioni. Anche solo sapere che esiste una pratica così pura ci porterà un grande aiuto e un grande cambiamento nella vita. Per questa sera ci fermiamo qui.


Domanda: vorrei sapere, quando parlavi del superamento del sé se ti riferivi all’io o all’ego? Perché molti autori considerano il sé il superamento dell’io.


Risposta: è qualcosa di simile, anzi si può dire che è la stessa cosa. In generale l’attaccamento al sé è più facile da comprendere che non l’attaccamento all’ego perché quando si parla dell’ego sorge l’idea dell’io, invece l’attaccamento al sé comprende più del semplice io. L’attaccamento al sé è il più importante, come se non esistesse altra cosa al mondo. Questo tipo di attitudine è soltanto apparente e illusoria. Il momento migliore per accorgersi del nostro attaccamento è quando sorgono momenti di rabbia perché in quel momento tale attaccamento raggiunge l’apice. Il problema è che, quando siamo veramente arrabbiati, siamo completamente oscurati e non siamo in grado di vedere l’attaccamento al sé. Ecco perché quelle sono occasioni speciali, allora tale attaccamento può essere riconosciuto. E’ una questione di pienezza mentale e di consapevolezza: se una persona è abbastanza addestrata nella concentrazione, anche nel momento in cui è arrabbiata può vedere il proprio attaccamento al sé. Un’altra situazione nella quale è possibile vederlo è quando abbiamo ottenuto un grande successo e siamo orgogliosi di noi stessi; quella è un’altra situazione nella quale l’attaccamento al sé è molto visibile ed evidente. In quel momento dovremmo osservarci come delle spie che guardano dal buco della serratura e provare a fare considerazioni del tipo: io non sono quella persona lì, io posso essere in un’altra maniera. Questa è la maniera in cui si può investigare l’attaccamento al sé. Questo è il momento in cui si osserva come l’attaccamento al sé considera il sé. Per esempio: adesso voi mi state guardando e io mi dico “Adesso tutti mi guardano”, però voi non state guardando realmente me ma state guardando il mio corpo, i miei vestiti, ecc. perché l’io non si vede; ho difficoltà io stesso a vederlo, figuriamoci voi! Questo del cercare dove sia l’io è un approccio utile nel considerare l’esistenza del sé e può essere ancora più utile in situazioni di particolare stress. 

Se non ci sono altre domande possiamo iniziare la meditazione.



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Il DHARMA, L’INSEGNAMENTO DEL BUDDHA



LA VIA DEL NIRVANA
Il Dharma del Buddha
2003
Lama Geshe Gedun Tharchin

1° Il DHARMA, L’INSEGNAMENTO DEL BUDDHA


Ogni volta che veniamo a contatto con qualcosa di nuovo, di diverso da ciò di cui abbiamo diretta conoscenza ed esperienza, ci viene spontaneo guardarlo con paura e sospetto, e questo accade perché ancora non lo capiamo. Tuttavia, paura e sospetto possono costituire un ostacolo alla nostra comprensione.

Alle domande e alle critiche di chi gli si accostava per esprimere i propri dubbi riguardo ai suoi insegnamenti, il Buddha, al tempo in cui elargiva la propria conoscenza, rispondeva così: «Su ciò di cui non avrete voi stessi realizzato esperienza, nutrirete sempre dubbi ed incertezze. Di conseguenza, vi dico: venite e sperimentate, prima di decidere se accettare quello che insegno».

Analogamente, voi che  state leggendo, dovrete capire cosa ha detto il Buddha prima di pensare se sia o meno giusto accettarne i suoi fondamenti. Il Buddha, nel corso di quarantacinque anni, ci consegnò molti insegnamenti, e se studiando ed investigando ne troverete qualcuno che vi porta beneficio, allora fatelo vostro, abbandonando invece ciò che ritenete superfluo o poco convincente.

Il Dharma, l’insegnamento del Buddha,  è uno stile di vita che si basa sulla coltivazione della saggezza; in verità, quindi, se si desidera praticarne la via non è necessario diventare buddhisti.

Buddha disse spesso: «Io non sono che una guida che vi mostra la via per la liberazione, ma dovrete essere voi a conquistare la».

Il Buddha non viene, quindi, considerato un salvatore del genere umano, ma una guida ed un maestro il cui esempio può essere seguito da chiunque.

Nel corso delle sue vite il Buddha ha praticato altrettante perfezioni morali e pratiche ascetiche fino a che i suoi sforzi sono divenuti fruttuosi, permettendogli di raggiungere l’Illuminazione. Se anche noi desideriamo liberarci dai legami e dalla sofferenza e raggiungere saggezza e illuminazione possiamo seguire il suo esempio, qualunque sia la nostra condizione di vita.

Anche se il Buddha non può salvare nessuno, egli costituisce un esempio ispirato del modo in cui si può ottenere la saggezza che conduce all’Illuminazione e alla Liberazione. Chi desidera veramente approfondire i principi del Dharma dovrà farlo con mente aperta ed indagatrice; in questo modo ogni iniziale senso di sospetto finirà per scomparire.

Quando il giudizio non sarà più condizionato dalla diffidenza, ogni timore sarà fugato.

Secondo il Dharma, ci si rivolge al Buddha come ad un’autorità, ad un maestro, perché è una diretta conseguenza dell’aver investigato ed esaminato criticamente il suo insegnamento essenziale: le Quattro Nobili Verità. Solo dopo aver operato l’esame dell’autenticità ed affidabilità della sua Dottrina che accettiamo il Buddha come guida degna di fiducia. A questo punto potremo dire «Prendo rifugio nel Buddha».


Una volta Buddha affermò: «Ognuno è salvatore oppure nemico di se stesso». Questo vale per ciascuno di noi: quando cerchiamo di coltivare la bontà e pensieri positivi ci salviamo, e, d’altro canto, quando permettiamo alla negatività di dominarci, distruggiamo noi stessi.


Secondo le scritture buddhiste il mondo come noi lo conosciamo è creato dalla maturazione della forza delle nostre azioni precedenti, o karma. Qualunque nostra azione lascia una traccia nella mente, traccia che contribuisce alla nostra futura evoluzione. I buddhisti credono che lo scopo di ogni essere sia l’ottenimento dell’Illuminazione, della Buddhità, uno stato interiore di felicità e benessere infiniti.


Seguendo l’insegnamento del Buddha, c’è l’intento di definire i problemi che incontriamo nella quotidianità, e di indicarne le soluzioni. Secondo questa dottrina, i mali o i disagi che affliggono la società sono di due tipi: fisici e mentali.

A questo proposito il Buddha affermava che, seppur libero a lungo dal male fisico, non vi è alcun essere nel Samsara, o esistenza mondana, che sia libero dal disagio mentale. Per disagio intendiamo quello stato in cui veniamo a trovarci quando ci viene recato danno. Quando il desiderio, l’ira, la gelosia,  imperversano nella nostra mente, allora questa prova disagio. Tutti gli uomini sono esseri sociali: è un fatto che nessuno può vivere al di fuori della società. Ogni volta che i nostri sensi vengono a contatto con un oggetto della percezione, reagiamo con piacere o ripugnanza, desiderio o avversione. Ogni volta che emozioni negative emergono in noi, proviamo disagio.

Se sperimentiamo dolore o infelicità, ci lamentiamo.  E’ a quel punto che la nostra coscienza è attraversata da sentimenti negativi.

Quando qualcuno ci contrasta, ci arrabbiamo, e questo accade non solo a causa del comportamento dell’altra persona, ma anche perché diveniamo facile preda dell’ira. Se tali sentimenti non ci appartenessero non li svilupperemmo in seguito ad azioni o parole che subiamo.  Il Buddha disse che siamo  responsabili sia della nostra sofferenza che della nostra felicità: siamo noi che creiamo il paradiso o l’inferno. Di conseguenza, consideriamo, per usare una metafora, il Buddha un grandissimo medico, colui che ha saputo diagnosticare la nostra malattia e prescriverne la cura appropriata. Egli, di conseguenza, diviene il nostro rifugio.


La medicina prescritta dal Buddha è il Dharma.


Esso presenta tre aspetti:

  • Sila la moralità; 

  • Samadhi la concentrazione;

  • Prajna la saggezza.


In generale, Sila significa regola morale. Tradizionalmente, queste norme etiche vengono raccolte in diversi precetti destinati a guidare la condotta dei laici o dei religiosi. Esistono poi i precetti Pratimoksha o di liberazione individuale del piccolo veicolo (chiamato anche Hinayana), i precetti del Bodhisattva o della salvezza universale del Grande Veicolo (Mahayana), ed i precetti della tradizione del Buddhismo tantrico (Vajrayana).

Sila, la moralità, in sintesi significa non fare alcun male. Nessuna nostra azione o parola dovrebbe arrecare danno ad altro essere senziente, renderlo infelice, recargli dispiacere. Nel momento in cui arrechiamo danno ad un essere e lo rendiamo infelice stiamo contravvenendo a Sila.

Il Buddha insegnava a trattare anche le creature più infime come nostri uguali.

Conseguentemente, tutta la teoria e la pratica dell’insegnamento del Buddha può essere sintetizzata in due principi:


  • sviluppo di una visione del mondo basata sulla comprensione dell’origine interdipendente di tutti gli eventi;

  • come conseguenza di ciò, la pratica di una vita non violenta, compassionevole ed innocente.


Samadhi, o concentrazione, corrisponde alla meditazione. Questa è il mezzo che ci consente nella  vita quotidiana, di controllare emozioni, pensieri e sentimenti. Se non siamo in grado di tenere a bada la nostra mente ed i nostri sentimenti, come possiamo tener fede ai precetti morali? Qualunque azione virtuosa noi compiamo dobbiamo ricordarci che il Dhammapada inizia così:


La mente è il precursore di ogni stato negativo, la mente è sovrana.

Chi parla o agisce con mente corrotta, sofferenza lo segue.

Chi parla o agisce con mente pura, lo segue la felicità.


Buddha ha detto anche:


«Conquistare milioni di nemici in battaglia non è vera conquista.

In verità il più nobile eroe è colui che vince se stesso»


Prajna, saggezza, significa qui la comprensione della vera natura della nostra vita. Quando capiamo che l’esistenza è per sua natura mutevole, densa di sofferenza e priva di un sé permanente, tale cognizione può scacciare tutte le nostre energie negative: quando sorge la saggezza è possibile sradicare tutti i difetti e le disposizioni negative latenti. E’ proprio come quando appare una luce e l’oscurità viene dissipata. Tale forma di saggezza può essere conseguita attraverso la meditazione, e rappresenta il  modo in cui il Dharma guarisce i nostri mali.


Chiunque pratichi Sila, Samadhi e Prajna, e così facendo abbia in qualche misura purificato la propria mente, si può dire essere entrato a far parte del Sangha, la comunità santa. Se vogliamo guarire dalla nostra malattia dovremo seguire l’esempio di tale comunità e prendervi rifugio.


Se si comprende il significato reale della triplice presa di rifugio, si scoprirà che non esiste, in effetti, alcun Buddhismo. Chiunque  desideri curare il proprio disagio può e deve praticare il triplice Dharma; chiunque lo pratichi condurrà una vita pura e felice. 


L’essenza degli insegnamenti del Buddha è riassunta così  nel verso 183 del Dhammapada :


Impara a fare il bene

cessa di fare il male,

rendi pura la mente.

Questo è l’insegnamento di ogni Buddha.


Così, i buddhisti affermano che Saggezza e Compassione sono virtù complementari, e dovrebbero essere esercitate contemporaneamente se si vuole raggiungere la verità finale. Questa non dipende dal tempo o dallo spazio, dalla cultura o dalla geopolitica, anche se l’espressione che gli uomini possono darle può essere molto diversa. Nel suo primo discorso Buddha ha introdotto le Quattro Nobili Verità, ed anche il Vangelo dice: «Conoscete la Verità e la Verità vi renderà liberi».

Raggiungere la conoscenza della Verità è lo scopo più degno per un essere umano, dovunque ed in ogni tempo; tuttavia essa non può essere conosciuta attraverso una fede cieca. «Vedere è credere», questa è la regola della visione profonda, che nessuno dovrebbe trascurare.


A tal proposito vi presento un breve apologo. Il grande sovrano buddhista Ashoka, che visse in India nel terzo secolo prima di Cristo, fece iscrivere su di un pilastro di marmo posto in un luogo speciale a Sarnath, vicino Benares, questo editto: «Chi non rispetta la religione degli altri non rispetta neppure la propria. Chi rispetta la religione degli altri, rispetta anche la propria». Anch’io ne sono convinto, e questa convinzione costituisce una delle mie pratiche principali.


Finché durerà lo spazio

e finché rimarranno esseri viventi,

possa anch’io rimanere

per eliminare la sofferenza dal mondo.




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